[ 22 agosto 2018 ]
Volentieri pubblichiamo questo intervento di Della Croce, membro della Segreteria nazionale del Partito Comunista Italiano, una delle poche soggettività della sinistra che non hanno portato il cervello all'ammasso.
La tragedia di Genova ha imposto al dibattito pubblico un tema che sembrava sepolto definitivamente nel 1989, sotto le pietre del Muro di Berlino. In questi giorni, il dibattito politico si incentra sull'inscindibile legame tra proprietà e gestione pubblica, chiavi fondamentali dell'economia del Paese e tutele dai diritti collettivi.
L'immagine mostruosa di un ponte monco verso il vuoto è la metafora del prodotto di oltre vent'anni di liberismo sfrenato, di un processo di privatizzazione che ha reso alla collettività molto meno di quello che ha dato ai singoli privati.
La parvenza di un governo "punitore" nei confronti del privato inadempiente è, forse, resa possibile più dalla verginità politica di una compagine da poco insediata e più facilmente titolata a fare la voce grossa, che da una critica politica radicale al processo politico-economico che ha venduto pezzi di Paese a saldo negli anni passati. In una certa misura, i toni e le note differenti che i due veri Presidenti del Consiglio (Di Maio e Salvini) stanno usando sul "che fare"davanti all'orrore di Genova lo dimostrano.
Su una cosa, però, non c'è dubbio: la scossa politica del 4 marzo scorso ha imposto anche alle due forze vincitrici la necessità di fare i conti con la rottura, con un passato di politiche economiche che è coinciso con un intero ciclo. Le ipotesi di nazionalizzazione di Alitalia, la vicenda Ilva e, in ultimo, il ritorno alla gestione pubblica della rete autostradale, oggi nelle mani di Autostrade per l'Italia, sono la riprova che questa rottura si è pesantemente imposta nell'agenda di governo.
Che i partiti della maggioranza siano pronti e convinti di praticare questa rottura è questione tutt'altro che assodata: tralasciando le ambiguità e le contraddizioni relative alla reale volontà di recedere dalla concessione della gestione della rete autostradale, anche sugli altri dossier sopra citati, alle parole, alla possibilità di nazionalizzare pezzi di economia nazionali strategici per lo sviluppo del Paese, non sono - finora - seguiti fatti o atti coerenti.
Il dato politico sicuramente più rilevante è che, probabilmente, mai prima d'ora tutta una retorica anti-Stato e apologetica verso le magnifiche sorti e progressive del mercato e dell'iniziativa privata si ritrova esaurita e sbugiardata davanti alle macerie di ciò che resta del Ponte Morandi, delle case distrutte, delle vite spezzate e piegate.
Oggi, affermare e sostenere la necessità di più Stato e meno mercato non è più una bestemmia, ma la soluzione concreta al disastro di una narrazione ideologica che ha lasciato solo rovine.
La tragedia di Genova ha imposto al dibattito pubblico un tema che sembrava sepolto definitivamente nel 1989, sotto le pietre del Muro di Berlino. In questi giorni, il dibattito politico si incentra sull'inscindibile legame tra proprietà e gestione pubblica, chiavi fondamentali dell'economia del Paese e tutele dai diritti collettivi.
L'immagine mostruosa di un ponte monco verso il vuoto è la metafora del prodotto di oltre vent'anni di liberismo sfrenato, di un processo di privatizzazione che ha reso alla collettività molto meno di quello che ha dato ai singoli privati.
La parvenza di un governo "punitore" nei confronti del privato inadempiente è, forse, resa possibile più dalla verginità politica di una compagine da poco insediata e più facilmente titolata a fare la voce grossa, che da una critica politica radicale al processo politico-economico che ha venduto pezzi di Paese a saldo negli anni passati. In una certa misura, i toni e le note differenti che i due veri Presidenti del Consiglio (Di Maio e Salvini) stanno usando sul "che fare"davanti all'orrore di Genova lo dimostrano.
Su una cosa, però, non c'è dubbio: la scossa politica del 4 marzo scorso ha imposto anche alle due forze vincitrici la necessità di fare i conti con la rottura, con un passato di politiche economiche che è coinciso con un intero ciclo. Le ipotesi di nazionalizzazione di Alitalia, la vicenda Ilva e, in ultimo, il ritorno alla gestione pubblica della rete autostradale, oggi nelle mani di Autostrade per l'Italia, sono la riprova che questa rottura si è pesantemente imposta nell'agenda di governo.
Che i partiti della maggioranza siano pronti e convinti di praticare questa rottura è questione tutt'altro che assodata: tralasciando le ambiguità e le contraddizioni relative alla reale volontà di recedere dalla concessione della gestione della rete autostradale, anche sugli altri dossier sopra citati, alle parole, alla possibilità di nazionalizzare pezzi di economia nazionali strategici per lo sviluppo del Paese, non sono - finora - seguiti fatti o atti coerenti.
Il dato politico sicuramente più rilevante è che, probabilmente, mai prima d'ora tutta una retorica anti-Stato e apologetica verso le magnifiche sorti e progressive del mercato e dell'iniziativa privata si ritrova esaurita e sbugiardata davanti alle macerie di ciò che resta del Ponte Morandi, delle case distrutte, delle vite spezzate e piegate.
Oggi, affermare e sostenere la necessità di più Stato e meno mercato non è più una bestemmia, ma la soluzione concreta al disastro di una narrazione ideologica che ha lasciato solo rovine.
* Fonte: Huffington Post
1 commento:
Nel 1999 D'Alema diede in concessione ad Autostrade per l'Italia
il grosso della rete autostradale ma fu Antonio Di Pietro nel 2007
allora ministro delle infrastrutture sotto il governo Prodi a firmare
la clausola che consente l'indennizzo ai Benetton in caso di ritiro
anticipato della concessione e fu riconfermata da Renzi.
Mi sembra solo una logica demenziale e delinquenziale quella di
lasciare i profitti al privato ( benetton ) e tenere i controlli
allo stato ( anas ). Mi domando: ma lo stato non è capace di
guadagnare dai pedaggi 6 bilion all'anno come fa il benetton ???????
Quanti miti mi sono caduti sui coglioni... soprattutto Di Pietro.
e pensare che votai convinto anch'io l'Unione... che idiota.
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