[ 17 aprile ]
1. Il concetto di servizio pubblico
In principio era il privato.
Nell’Europa dell’800 quelli che sarebbero diventati “servizi pubblici” erano gestiti da imprenditori e società private secondo la logica del profitto, e venivano forniti, di conseguenza, solo ai membri delle classi abbienti.
La lenta trasformazione dello Stato liberale “di diritto” in Stato sociale determina, verso la fine del secolo, una modifica dell’impostazione generale: l’ascesa delle forze socialiste e la presa di coscienza, da parte delle masse, dell’esistenza di diritti basilari costringono la politica ad un mutamento di rotta – dal privato al pubblico – che si traduce in leggi di riforma. In Italia, il primo intervento normativo è datato 1903: si tratta della c.d. Legge Giolitti (n. 103).
Prima di esaminarne per sommi capi il contenuto è però opportuno introdurre il concetto di servizio pubblico. Per espressa ammissione di generazioni di giuristi che si sono cimentati col tema non si tratta di impresa facile; lo stesso legislatore è sempre apparso restio ad introdurre definizioni generali, preferendo individuare singoli settori di intervento.
Prima ad essere elaborata fu la c.d. “teoria soggettiva”: servizio pubblico è quello erogato dallo Stato o dagli enti pubblici. Oggi tale tesi non è più sostenibile, e difficilmente lo era in passato, dal momento che – attraverso il meccanismo della concessione – il privato ha, in ogni epoca, rivestito un ruolo (sia pure secondario) nell’erogazione. Più convincente appare, alla luce del diritto positivo, la “teoria oggettiva”: servizio pubblico è quello che, per il soddisfacimento di determinate esigenze generali, si rivolge ad un’utenza indifferenziata. Il problema è che la mutevolezza delle scelte legislative impedisce di distinguere aprioristicamente ciò che è di interesse generale – e quindi va considerato “servizio pubblico” – da ciò che non lo è: dunque l’esame va condotto caso per caso, a seconda dei momenti storici. Si tratta, in altre parole, di un concetto politico piuttosto che giuridico.
Una nozione oggi abbastanza condivisa, ma eminentemente descrittiva, fonde le due precitate teorie, individuando nel servizio pubblico quel complesso di attività, direttamente od indirettamente riconducibili all’amministrazione, che soddisfano bisogni collettivi e sono rivolte, perciò, alla generalità dei cittadini1. I caratteri del servizio sono pertanto la continuità, la doverosità, l’economicità, il rispetto dei principi di tutela, qualità e partecipazione2.
Esiste anche una definizione in negativo: il servizio pubblico va distinto dalla funzione pubblica, che implica – a differenza del primo – l’esercizio di poteri autoritativi, in base allo schema potestà-soggezione. In pratica, lo Stato gestore, che agisce in regime di diritto privato, è contrapposto allo Stato autorità, che agisce invece in regime di diritto amministrativo3.
Come detto, non esiste un’unitaria nozione legislativa di servizio pubblico: la legge 146/1990 regolamenta il diritto di sciopero nei servizi denominati essenziali, riconoscendoli in quelli volti a garantire il godimento dei diritti fondamentali previsti dalla Costituzione; la legge 80/1998, invece, attribuisce la giurisdizione esclusiva in materia di servizi pubblici al giudice amministrativo, e contiene un’elencazione di natura esemplificativa.
In ogni caso, un riferimento ai servizi pubblici è rinvenibile nell’articolo 43 della Costituzione, che pone un limite “elastico” all’iniziativa privata in quelli che vengono etichettati come servizi essenziali.
2. L’evoluzione della disciplina dei servizi pubblici locali dalla Legge Giolitti agli anni ‘90
Come anticipato, è con la Legge 103/1903 che viene sancita l’assunzione diretta, in capo ai Comuni, dei servizi pubblici locali. Il meccanismo prescelto per l’erogazione è quello dell’azienda speciale, priva di personalità giuridica ma con autonomia di bilancio: eventuali utili di gestione vanno a rimpinguare il bilancio comunale, altrimenti sarà il Comune a dover ripianare i (più frequenti) disavanzi. E’ prevista anche la gestione in economia.
Un’evoluzione si ha negli anni ’20, con l’entrata in vigore del R.D. 2578/1925; in precedenza, la possibilità di assunzione diretta dei servizi pubblici era stata estesa anche alle Province.
La nuova disciplina prevede, per l’assunzione del servizio in regime di monopolio pubblico, un’autorizzazione legislativa – autorizzazione non necessaria nell’eventualità in cui il pubblico si affianchi al privato. Si mantiene il modello dell’azienda municipalizzata, ma nuova enfasi viene posta sulla gestione in economia, cui si fa ricorso ove il valore del servizio sia modesto, e soprattutto quando il suo carattere sia prevalentemente non industriale. Via libera, in alternativa alla gestione diretta, a quella indiretta, da attuarsi attraverso lo strumento della concessione.
Nonostante la caduta del fascismo e l’avvento della nuova Costituzione democratica, la disciplina scritta nel primo quarto di secolo rimane sostanzialmente invariata fino al 1990, quando con la Legge 142/1990 – che potenzia il ruolo degli enti locali, attribuendo loro autonomia statutaria – viene ridisegnato anche il sistema dei servizi locali.
Rispetto al passato, non mancano le innovazioni: si passa anzitutto da un modello in cui il servizio ha prevalente carattere imprenditoriale ad uno nel quale la finalità sociale si affianca a quella della promozione dello sviluppo della comunità comunale/provinciale. E’ introdotto l’obbligo di pareggio di bilancio.
Gli strumenti di gestione sono i seguenti (art. 22):
- gestione in economia, per servizi di modeste dimensioni o dalle particolari caratteristiche;
- concessione, qualora lo richiedano ragioni di carattere tecnico od economico;
- azienda speciale, per i servizi economicamente rilevanti, da gestire secondo modalità imprenditoriali. La nuova azienda speciale ha personalità giuridica, autonomia imprenditoriale ed un proprio statuto (approvato dal Consiglio); i suoi organi sono il consiglio d’amministrazione, il presidente ed il direttore;
- istituzione (con proprio statuto, ma senza personalità giuridica), quando si tratti di gestire un servizio privo di rilevanza imprenditoriale;
- società per azioni a prevalente capitale pubblico, ove risulti utile il coinvolgimento di privati. La Società deve perseguire finalità inerenti all’interesse pubblico affidato all’ente; l’affidamento è disposto conconcessione.
3. Dal Testo Unico al Decreto Bersani (periodo 2000-2006)
Gli anni ’90 sono non soltanto un periodo di profonda trasformazione per tutto l’apparato amministrativo italiano; sono anche il decennio in cui aumenta la capacità di penetrazione della disciplina comunitaria nell’ordinamento nazionale. Com’è noto, la legislazione europea non conosce la categoria dei “servizi pubblici”: parla, più asetticamente, di “servizi di interesse (economico) generale”. La differenza terminologica non è di poco conto, specie se si considera la fede dogmatica4 delle istituzioni UE nel totem denominato “tutela della concorrenza”. La spinta verso una liberalizzazione del settore si fa dunque sempre più forte, anche grazie ai numerosi interventi della Corte di Giustizia.
Le prime significative modifiche al tessuto normativo della 142 coincidono con la trasfusione di detta legge nel Testo Unico 267/2000.
Si tratta, in verità, di poca cosa, rispetto ai periodici stravolgimento che la disciplina subirà negli anni successivi: tra le novità, merita ricordare l’apertura alle società per azioni non controllate dall’ente pubblico ed allesocietà a responsabilità limitata oggetto di controllo.
Sorge tuttavia una questione, fonte di possibili collisioni con i principi comunitari: è possibile prescindere dal meccanismo di gara per la scelta del socio privato?
Ancora una volta è il legislatore ad attivarsi, redigendo l’articolo 35 dellaLegge 448/2001.
Questa volta il quadro muta radicalmente: accanto all’articolo 113 del T.U., dedicato ai “servizi di rilevanza industriale” fa la sua comparsa un 113bis, che riguarda i servizi privi di detta rilevanza; scompare, inoltre, l’istituto della concessione. Viene anche sancito il principio della necessaria separazione tra la proprietà di reti, impianti e dotazioni e la gestione del servizio: la prima è riservata agli enti, o a società di capitali di cui questi ultimi detengano la maggioranza assoluta ed incedibile; la seconda è affidata in via preferenziale al privato, da scegliersi tramite gara.
Anche la nuova disciplina non manca di suscitare perplessità: si assiste di conseguenza a ben due interventi legislativi nello stesso anno, con Leggi 326 e 350/2003.
Scompaiono i servizi con e senza rilevanza industriale, sostituiti da quelli con (o senza) “rilevanza economica”: il discrimen adesso è più chiaro, essendo rappresentato dall’attitudine del servizio a generare utili. Per quanto riguarda invece la proprietà delle reti, essa può essere ancora attribuita a società di capitali, a condizione però che l’intero capitale sia in mani pubbliche.
La privatizzazione della gestione va avanti: i servizi economicamente rilevanti possono essere affidati: a) a soggetti privati, con gara pubblica: b) asocietà miste, con scelta del socio privato tramite gara pubblica; c) a societàin house, in presenza dei noti requisiti, elaborati in sede europea, del controllo “analogo” (a quello sui servizi dell’ente) e della prevalenza dell’attività svolta in favore dell’ente5.
E’ però la regolamentazione puntuale (art. 113bis) delle modalità di affidamento dei servizi non economici ad attirare l’attenzione della Corte Costituzionale che, con Sentenza 272/2004, dichiara l’illegittimità della disciplina, in quanto non rientrante nella “materia” statale della tutela della concorrenza. In tale specifico ambito, dunque, l’autonomia delle regioni e degli enti locali non può venire ingiustificatamente compressa.
Passano due anni prima che il legislatore torni ad occuparsi della tematica dei servizi locali: in questo caso, però, l’interesse si focalizza non sui servizi generali, cioè destinati alla collettività, bensì sulla produzione di beni e servizi strumentali all’attività dell’ente locale di riferimento.
L’articolo 13 del Decreto Bersani (n. 223/2006) vieta, infatti, alle c.d. società strumentali6 di svolgere attività a beneficio di soggetti diversi dall’ente locale, onde evitare distorsioni del mercato. Da qui l’obbligo per le amministrazioni di cedere le proprie quote azionarie entro un breve termine (più volte prorogato) o, in alternativa, di procedere allo scorporo dei servizi non più consentiti. La norma non si applica alle società esercenti servizi pubblici7.
4. Le riforme del 2008/2009 e la Sentenza 325/2010 della Corte Costituzionale
La volontà di liberalizzare ulteriormente il mercato sta alla base dell’ennesimo intervento legislativo in materia, contenuto nell’articolo 23bis del Decreto 112/2008, convertito in Legge 133/2008.
Si sancisce che, in materia di affidamenti, la regola è quella della gara pubblica, cui possono partecipare società miste e private (anche di persone!), oltre che singoli imprenditori. Solo in presenza di particolari circostanze economiche, sociali, ambientali ecc. che non consentono un utile ed efficace ricorso al mercato, è consentito l’affidamento in house – a patto che la scelta sia adeguatamente pubblicizzata e motivata (in relazione ad un’analisi di mercato), e che di essa siano informate l’autorità di settore e quella garante della concorrenza.
Si ribadisce inoltre il principio secondo cui le reti devono essere pubbliche, ma la loro gestione può essere affidata a terzi.
Ad appena un anno di distanza, il legislatore scrive un altro decreto, il n.135/2009, convertito in Legge 166/2009, che modifica il testo dell’articolo 23bis.
Per quanto riguarda il modulo in house, non è più disposto l’invio di relazioni, bensì la richiesta di un parere all’Autorità garante della concorrenza e del mercato; quanto alle società miste, si precisa che il socio c.d. industriale – cioè incaricato in toto o in parte della gestione – debba essere scelto con procedure di evidenza pubblica (c.d. a doppio oggetto8) e non possa essere titolare di una percentuale inferiore al 40% del capitale sociale.
Sono previste delle deroghe (gas, trasporto locale, farmacie comunali, elettricità) e termini per adeguarsi. Nel complesso, nella sua nuova formulazione, l’articolo 23bis appare più chiaro rispetto alla versione precedente; ma resta da dire che l’introduzione della norma ha suscitato non poche preoccupazioni, legate soprattutto alla liberalizzazione del servizio idrico.
Questi timori, uniti alla convinzione che l’intervento fosse invasivo delle loro competenze, hanno condotto numerose regioni ad impugnare la norma davanti alla Consulta, e ad emanare proprie normative derogatorie.
Il giudice delle leggi si è pronunciato con la Sentenza 325, datata 17 novembre 2010, respingendo di fatto tutte le censure proposte dalle regioni.
La Corte ha ritenuto, infatti, che, contrariamente a talune prospettazioni, la disciplina introdotta dal legislatore nazionale sia pienamente compatibile con quella europea, che fissa un limite minimo, non certo massimo, di tutela della concorrenza (le regioni lamentavano una sorta di marginalizzazione dell’istituto dell’in house, confinato in ipotesi eccezionali); ha ribadito la ragionevolezza delle scelte legislative e, richiamandosi a precedenti pronunce, ha affermato che la materia dei servizi pubblici di rilevanza economica rientra nella tutela della concorrenza, affidata allo Stato centrale.
Un tanto varrebbe, secondo la Consulta, anche per il servizio idrico integrato. La sentenza dice anche un’altra cosa: che stabilire la rilevanza economica di un servizio pubblico spetta al legislatore nazionale “sulla base di criteri oggettivi”, in presenza di un mercato anche solo “potenziale”.
Ora, sarebbe agevole rispondere che un mercato “potenziale” esiste ovunque, visto che qualsiasi settore è suscettibile di privatizzazione (dalla sanità ai servizi sociali alle forze armate9), e che, di conseguenza, la Corte avrebbe dovuto concludere che non c’è più spazio, oggi, per servizi “privi di rilevanza economica”, ma c’è di più: ponendo la concorrenza innanzi tutto, anche in ambiti fondamentali come quello della distribuzione dell’acqua, il Giudice delle leggi mostra di non tenere in nessun conto alcuni principi cardine del nostro ordinamento, come gli articoli 41 e 43 – che subordinano di fatto l’iniziativa economica privata alle esigenze primarie dei cittadini – e lo stesso articolo 3, che sancisce l’eguaglianza sostanziale.
Al centro dell’attenzione sono non più i bisogni degli individui e delle collettività di ricevere adeguata tutela, bensì la necessità del mercato di espandersi, costi quel che costi: i valori della Costituzione sono capovolti dal suo stesso tutore.
Ed eccoci dunque tornati al punto di partenza, a quel mondo ottocentesco in cui tutto poteva essere comprato e venduto, tutto era business.
La nostra frase di apertura era “in principio era il privato”. La cieca (ed interessata) fede nel mercato che permea oggi le istituzioni ci costringe a conchiudere: la fine è il principio.
5. L’imprevisto di un referendum che supera il quorum e la tentata truffa di un legislatore alle strette
Il largo trionfo del “sì” al referendum del 12-13 aprile 2011 – favorito anche dall’emozione suscitata dalla tragedia di Fukushima – entusiasmò la cittadinanza consapevole e gettò nello sgomento le multinazionali dei servizi (specie idrici) e i loro galoppini politici: di colpo la disciplina dell’articolo 23-bis, approvata come detto dalla Consulta, non c’era più.
Referendum sull’acqua, uno slogan azzeccato: in realtà referendum abrogativo sui servizi pubblici locali di rilevanza economica tutti.
Un Governo Berlusconi allo sbando – era l’estate del Grande Spread – provò a ingraziarsi la UE con una norma-truffa contenuta nell’ultima manovra tremontiana (D.L. 138/2011, convertito in L. 148/2011): fingendo che la consultazione avesse riguardato solamente l’acqua, si stabilì di escludere quest’ultima da una nuovissima disciplina che addirittura limitava il ricorso all’in house rispetto al 23-bis, prevedendo una soglia massima di 200 mila euro e promuovendo il ricorso al mercato fra gli “indici di virtuosità” degli enti locali. Il tentativo di cattivarsi la simpatia dei mercati non andò a buon fine: nel 2012, a Governo Berlusconi morto e sepolto (dall’affossatore Napolimonti), la Consulta dovette dichiarare l’incostituzionalità della norma sopravvenuta, visto che riproduceva – talora “testualmente”, annotò ironicamente l’estensore - i principi della vecchia disciplina bocciata dal referendum (sent. n. 199/2012).
L’esecutivo Monti decise allora di prendere tempo: il D.L. 179/2012 si adeguava alle indicazioni della Consulta, dando piena “libertà” agli EE.LL. circa la modalità di gestione, nel rispetto della normativa UE.
Storia finita? Neanche per sogno: leggo, su il Messaggero del 13 aprile 2015, che con specifico riferimento al trasporto pubblico locale (ma è una rondine che fa primavera) nel “Programma nazionale di riforma approvato insieme al DEF viene annunciata la messa a punto di uno specifico disegno di legge col duplice obiettivo (…) di garantire che gli affidamenti in house diventino realmente una categoria residuale (…)”.
Gli anni passano (ne serve ancora uno), l’attenzione dell’opinione pubblica scema: c’è da scommettere che tra le prossime “riforme epocali” l’erede di Silvio inserirà un’integrale riprivatizzazione dei servizi pubblici locali. Il tam tam propagandistico è già cominciato: si farnetica di investimenti insostenibili, inefficienze e servizi da migliorare.
L’acqua torna a sporcarsi.
NOTE
1 Mutatis mutandis la definizione è valida anche se riferita alla sottocategoria dei servizi pubblici locali, assunti dall’E.L. per scopi sociali e di sviluppo economico-sociale della collettività amministrata.
2 Questi ultimi principi si concretano nella previsione normativa di “carte dei servizi”, vere e proprie prese d’impegno da parte dell’amministrazione.
3 Tale conclusione si ricava in primis dal Codice penale, che distingue il pubblico ufficiale – colui che esercita le funzioni legislativa, giudiziaria od amministrativa (disponendo, in quest’ultima ipotesi, di poteri certificativi/autoritativi) – dall’incaricato di pubblico servizio.
4 Di matrice anglosassone.
5 Oltre che della proprietà interamente pubblica.
6 Si pensi a quelle partecipate che svolgono attività di supporto informatico all’ente.
7 Sulla stessa scia, la Legge 244/2007 (art. 3, comma 27) obbliga gli enti locali ad avviare la dismissione, entro un termine definito, delle proprie partecipazioni in ogni società che a) non produca beni o servizi strettamente necessari per l’attività dell’ente stesso, o b) non svolga servizi di interesse generale, ovvero c) non fornisca servizi di committenza o di centrali di committenza. Ugualmente vietato è costituire nuove società che non rispondano ai requisiti di legge. Si dettano regole precise in ordine alle modalità da seguire per il mantenimento delle partecipazioni nelle ipotesi consentite (numerosi adempimenti: delibera consiliare, trasmissione della stessa alla Sezione di Controllo della Corte dei Conti ecc.), all’obbligo, in caso di cessione, di rideterminare le dotazioni organiche, al ruolo degli organi di revisione.
8 E’ stato così accolto dal legislatore il “suggerimento” contenuto nella sentenza dell’A.P. del CdS n. 1/2008, una sorta di “terza via” tra chi sosteneva fossero necessarie 2 gare e chi riteneva sufficiente che la scelta del socio avvenisse con meccanismi di evidenza pubblica.
9 L’esercito americano, nelle sue più recenti campagne, si è diviso i compiti bellici con i famigerati contractors.
Nessun commento:
Posta un commento