[ 29 marzo ]
Pubblichiamo la seconda parte del saggio LIBERTÀ E COMUNITÀ. Fa seguito alla prima parte comparsa il 20 marzo scorso
Della Libertà
Il concetto di libertà è molto più spinoso di quanto si pensi, e su di esso di discute sin dai tempi della Grecia antica, vera culla della civiltà europea. Segnaliamo subito che il concetto di Libertà è peculiare all’Occidente e non sembra appartenere, almeno nel significato che siamo abituati ad attribuirgli, all’Oriente, né antico né moderno.
Malgrado le numerose varianti, tre sono le principali scuole di pensiero e tutte e tre nacquero in Grecia.
Platone, sulla scia di Socrate, concettualizzò la Libertà come possibilità. L’uomo può scegliersi il suo proprio destino, ma le eventuali alternative sono sempre finite, limitate, condizionate. Le azioni umane sono determinate dalle condizioni in cui opera e dalla circostanze esterne, tuttavia questo non significa che l’uomo sia obbligato da esse, e quindi l’esito del suo operare non è né prescritto, né fatalisticamente predeterminato, né infallibilmente prevedibile.
Aristotele perora quello che modernamente potremmo chiamare concetto soggettivistico di libertà. Le condizioni in cui l’uomo opera non sono limiti determinanti alla sua azione. Egli, in quanto animale politico, progetta il proprio destino, è quindi causa sui, è il principio dei suoi atti. La libertà è tale solo in quanto incondizionata. La libertà è autodeterminazione.
Gli stoici fondano il concetto di libertà come necessità, come accettazione e comprensione della necessità. La libertà è conformarsi e adeguarsi all’ordine necessario del mondo e, in ultima analisi, al destino che è già scritto nell’ordine cosmico.
In epoca moderna le tesi di Aristotele avranno in vero poca fortuna. Se si eccettuano Fichte, Stirner e Bergson (che per altro curveranno l’idea dell’autodeterminazione in senso indeterministico), le altre due scuole si contenderanno il campo.
Non è certo un caso se tutti i grandi pensatori europei che a vario titolo possiamo definire interpreti della borghesia nascente e poi affermatasi come classe dominante (Hobbes, Locke, Hume, Kant, S. Mill, ecc.), abbiano difeso e sviluppato la posizione di Platone della Libertà come possibilità. E’ senz’altro questo filone di pensiero che ha finito per diventare egemone, contaminando a fondo l’etica, la politica e il diritto contemporanei.
La scuola stoica troverà in Spinoza il suo primo e coerente interprete moderno. Solo Dio è libero, cioè causa sui, poiché agisce senza essere costretto o condizionato. Libertà e autodeterminazione non appartengono dunque all’uomo, che può invece solo conformarsi alla totalità, al cosmico Spirito divino. L’uomo è solo una modalità della sostanza. Shelling ma soprattutto Hegel raccoglieranno l’eredità stoica filtrata da Spinoza, Hegel addirittura irrigidendo il concetto di libertà come accettazione della necessità, trasformandolo in un pilastro della filosofia trascendentale. Soggetto di libertà è infatti solo lo Spirito Assoluto, gli uomini essendo solo manifestazioni di esso. La Libertà equivale per Hegel al determinismo, e gli uomini, che sono strumenti necessitati dalla volontà universale che li sovrasta, non hanno scampo, potendo soltanto agire dentro una concatenazione di eventi necessari, a loro volta determinati e preordinati dallo Spirito divino. Come gli stoici e gli gnostici dunque, anche per Hegel, vale il principio esoterico per cui solo un piccolo manipolo di sapienti possono essere veramente liberi, poiché solo loro posseggono la ragione che gli permette di rassegnarsi fatalisticamente al provvidenziale Spirito che determina il coso degli eventi. Abbiamo visto come questa sofisticata ontologia trascendentale conduca ad una concezione etica per cui lo Stato è potenza della ragione, “l’ingresso di Dio nel mondo” (dove lo Stato è quello assolutistico di tipo prussiano).
Può apparire buffo che il marxismo reale, quello che si è imposto come dottrina sul finire del secolo decimonono, abbia sostanzialmente fatto sua, sul piano concettuale, solo riciclandola in senso storicistico e positivistico, l’idea di libertà hegeliana come accettazione della necessità. Su questo terreno idealismo assoluto e materialismo assoluto sono convolati a nozze —e ciò dimostra, come già sostenuto da Costanzo Preve, quanto aleatoria sia la bipolare divisione engelsiana della storia del pensiero come dialogo tra idealismo e materialismo.
Il giovane Marx, a dire il vero, perorò, nelle sue imprescindibili Tesi su Feuerbach come pure nella Ideologia Tedesca, una concezione della libertà antitetica a quella hegeliana, concepita come la capacità dell’uomo di progettare il proprio destino, di imporre cioè ai processi pur causali, fini e ritmi desunti eticamente, cioè dalla sfera dei valori e dell’utopia (quindi la tesi aristotelica dell’autodeterminazione, dell’uomo che può essere causa sui). Ma questa è un’altra storia. Il lettore la rammenti tuttavia, poiché ci aiuterà più avanti a comprendere meglio il colossale e tragico pasticcio dello stalinismo.
Certo è che il concetto di Libertà che si verrà lentamente affermando come egemone in tutto l’Occidente, per quanto ambiguo e polisemico, è quello curvato in senso sostanzialmente liberistico e individualistico poggiante sull’antitesi tra Libertà ed Eguaglianza (Kelsen definirà questa concezione “libertà negativa”, in quanto essa prende in considerazione solo lo spazio della autonomia individuale rispetto alla comunità e ai poteri dello Stato). Una concezione “robinsoniana”, atomistica e individualistica del cittadino. Che ci sia o no coincidenza tra l’interesse singolo con quello pubblico (su questo i liberali sono divisi: gli statalisti che postulano la primazia dello Stato come espressione della volontà generale, e i liberisti che la negano), l’individuo che il liberalismo prende in considerazione è in realtà il cittadino proprietario, l’uomo della società borghese capitalistica che ha valore sociale solo in quanto portatore di mercantile valore di scambio. Bentham tentò di fornire all’individualismo borghese una leggitimità ontologico-morale, affermando che il singolo, quando cerca il proprio piacere, ipso facto, persegue quello di tutti gli altri, postulando in questa maniera la perfetta coincidenza tra l’interesse privato e quello pubblico.
Saranno i pensatori rivoluzionari, Marx su tutti, a demistificare la concezione ideologica della libertà propria del liberalismo, e dell’eguaglianza solo giuridica dei cittadini. Essi getteranno le fondamenta della concezione della libertà comunista, per cui quest’ultima implica la rimozione di tutti gli ostacoli (di ordine non solo giuridico, ma economico e sociale) che impediscono ai cittadini di disporre pienamente dei mezzi per partecipare alla vita associata. La Libertà implica infatti la partecipazione attiva dei cittadini alla formazione della volontà generale e alle decisioni politiche inerenti non solo alla sfera amministrativa ma alla definizione degli scopi che la comunità stessa si prefigge come finalità. Questa Libertà presuppone l’eguaglianza sociale e l’abolizione delle differenze di classe, anzitutto quella antagonistica tra sfruttatori e sfruttati, in quanto le disparità di condizioni, il lavoro salariato, e la lotta di classe che ne consegue, sono delle catene al libero sviluppo della comunità e delle individualità.
Della Sovranità
Non si può giungere ad una comprensione adeguata dello Stato di Diritto senza prima concettualizzare le categorie di Sovranità, Popolo e Democrazia, che sono sue condizioni essenziali. Seguiremo il percorso che dall’astratto ci conduce al concreto, modalità che ci consentirà, sia di decodificare queste tre categorie, che di toglier loro di dosso il velo ideologico con cui il Diritto capitalistico postmoderno le ha rivestite.
Dopo la crisi della fondazione teologica del Diritto (lex naturalis come riflesso terreno della lex divina), che coincise con l’epoca delle guerre civili di religione che dilaniarono l’Europa e condussero alla costituzione degli stati-nazione moderni; il composito filone di pensiero giusnaturalista, secolarizzò e razionalizzò il concetto di Sovranità, nel quadro del tentativo di dare al Diritto e alla morale uno statuto epistemologico analogo a quello delle scienze matematiche, liberando l’uno e l’altra dagli ossimori insanabili contenuti nell’universalismo religioso. La Sovranità non discende dall’alto e non ha un carattere divino-naturale, ma appartiene al mondo umano-sociale e si fonda sul consenso degli individui.
Da Grozio fino a Kelsen, si afferma dunque l’idea che la Sovranità sia la facoltà o il potere di determinare le regole della convivenza civile e dei rapporti inter-umani, di normare dunque la vita associata.
La secolarizzazione della vita pubblica, affacciatasi con la separazione degli affari religiosi dalla sfera del governo della cosa pubblica, è stata una notevole conquista della borghesia nell’epoca del suo avvento. Seppure in modo solo potenziale essa ha infatti associato la Sovranità all’idea di autodeterminazione della comunità.
Ma questa autodeterminazione, nella società borghese, soggiace a condizioni sociali e limiti politici che ne impediscono il pieno dispiegamento. Ove la comunità fosse atomizzata, divisa in classi antagonistiche, di cui una dominante perché proprietaria dei mezzi di produzione e di scambio, parlare di comunità sovrana è una deliberata finzione. L’effettiva Sovranità della borghesia (o del Capitale come forza sociale proprietaria in quanto incarnazione di denaro che si valorizza) è camuffata da una concezione formale e meramente giuridica della Sovranità, così come miseramente giuridica e post-feudale è l’eguaglianza dei cittadini. Capitalista e salariato, padrone e proletario, non sono eguali in nulla, sono anzi, sul piano astratto e nel caso della cruda vita, opposti in tutto, divisi da un’opposizione insanabile. Dal nostro punto di vista la Sovranità si esercita infatti non solo nel campo normativo, essa è piena solo se sostanziale, ed essa lo è solo se può decidere sulla ripartizione della ricchezza sociale, del tempo di vita e di lavoro delle persone. Questo è tanto più vero nella società moderna, in un sistema sociale che fa della ricchezza materiale e monetaria la misura di ogni cosa e del valore di scambio la vera pietra angolare dei rapporti interumani. Nella società borghese tutto viene a dipendere (il che non vuol dire meccanicamente determinato) dai rapporti di produzione, da come i cittadini si relazionano al processo di produzione e dalla distribuzione della ricchezza sociale. La Sovranità è dunque sequestrata dal Capitale mentre chi è costretto per sopravvivere a vendere l’unica merce che possiede, la forza lavoro, deve subire l’una e l’altro. E finché la Sovranità, attraverso lo Stato, è sovranità del Capitale, essa non può che avere, anche se in maniera politicamente mediata, un carattere coercitivo.
Se la comunità è il soggetto della Sovranità, affinché quest’ultima possa esercitarla pienamente occorre che disponga non solo delle facoltà giuridico-normative, ma di quella sostanziale di esercitare dominio nel campo dei rapporti economici e sociali (che rappresentano la piattaforma reale su cui si erge il complicato marchingegno delle sovrastrutture, quella giuridica compresa), e questo esercizio implica la proprietà delle forze produttive. Per dirla tutta la Sovranità della comunità implica che i suoi cittadini siano liberati dalle catene del lavoro coatto. Questo è ciò a cui diamo il nome di comunismo, né più e ne meno di questo. In altre parole, alla concezione politico-giuridica e parziale della Sovranità, opponiamo quella politico-sociale, cioè integrale.
Abbiamo surrettiziamente introdotto il principio per cui la Sovranità appartiene alla comunità tutta intera. Per il Diritto borghese, specie per quello liberale che ha preso il sopravvento nell’ultimo mezzo secolo, le cose stanno diversamente. Qui abbiamo che la Sovranità è del Popolo, ed esso la esercità delegandola ad apparati separati dalla società, cioè lo Stato.
Del Popolo
E’ un luogo comune delle società liberal-democratiche odierne che il Popolo sia depositario della sovranità. La base stessa della complessa costruzione che va sotto il nome di Stato di Diritto consiste nella sovranità popolare.
La società borghese non è giunta ad assumere questo principio in modo lineare e pacifico. Ciò è accaduto solo recentemente, nell’ultimo mezzo secolo, dopo la sconfitta del fascismo e infine del socialismo reale. Le tesi organicistiche e assolutistiche (da Hobbes a Hegel) hanno lasciato il posto a quelle contrattualistiche per cui il primato spetta al Popolo e solo esso conferisce allo Stato dignità e sovranità. Ritorniamo sulla concezione di Hegel, che ci serve, non soltanto per meglio mettere a fuoco le concezioni liberal-democratiche che alla fine si affermeranno in Occidente, ma pure per comprendere quali fossero state le scaturigini della statolatria staliniana. Ecco quanto egli afferma nei suoi Lineamenti di Filosofia del diritto:
«Solo nello Stato l’uomo ha esistenza razionale. Ogni educazione tende a far si che l’individuo non rimanga qualcosa di soggettivo ma diventi oggettivo a se stesso nello Stato... Tutto ciò che l’uomo è, lo deve allo Stato: solo in esso egli ha la sua essenza. Ogni valore, ogni realtà spirituale l’uomo l’ha solo per mezzo dello Stato».
Come mai la borghesia si è sbarazzata di questa concezione che affidava allo Stato e non al Popolo la sovranità? Perché (alcune fondamentali ragioni le abbiamo viste nel primo capitolo) la tesi organicistica, che supponeva una società omogenea in cui fosse possibile stabilire una “comune volontà generale” non è riuscita a contenere tutta la complessità delle moderne ed eterogenee società capitalistiche e si è dimostrata un’architettura rigida, incapace sia di accogliere le molteplici e conflittuali spinte interne alla società borghese, sia di contenere la forza eversiva del proletariato.
La sovranità popolare (sui cui poggia lo Stato di Diritto postmoderno) contiene in sé, come abbiamo visto, la possibilità del pluralismo sociale, cioè la capacità di di tener testa ad una società articolata e disomogenea, composta non solo da classi potenzialmente antagonistiche, ma da ceti che tendono a rappresentarsi politicamente e ad autonomizzarsi dalla stessa classe dominante.
E’ un grande punto di forza della liberal-democrazia che il concetto di sovranità popolare sia diventato senso comune. A dimostrazione del carattere pervasivo del liberalismo e della sua forza egemonica, nessuna forza politica occidentale odierna, dall’estrema destra all’estrema sinistra, mette in discussione che il Popolo sia il soggetto della Sovranità. Come spesso accade, tuttavia, il senso comune tracima nel luogo comune, cioè nell’ideologia.
Affermava Cicerone : «La Res Publica è cosa del popolo e il popolo non è qualsiasi agglomerato di uomini riunito in modo qualsiasi ma una riunione di gente associata per accordo nell’osservare la giustizia e per comunanza di interessi».
Abbiamo detto che il Diritto liberale borghese oggi egemone si fonda su due concetti assiomatici e coassiali: il concetto individualistico e atomistico del cittadino (ovvero dell’individuo proprietario), e l’incompatibilità tra libertà ed eguaglianza. Il suo concetto di Popolo non è quindi né quello giacobino né quello comunitario, bensì quello anglosassone, riflesso di una società ormai compiutamente mercantile e capitalistica. Il popolo che corrisponde a questa società è in verità la moltitudine: una somma di volontà particolari, di soggetti diseguali; un agglomerato di uomini separati l’uno dall’altro, ostili l’uno all’altro, in quanto protesi a frodarsi a vicenda per strappare il maggior vantaggio possibile dallo scambio delle merci. La moltitudine atomizzata è il popolo che corrisponde ad una società in cui il mercato è il luogo in cui si stabilisce la natura e la gerarchia dei bisogni e ove debbono essere realizzati. Il luogo insomma dove il lavoro morto sovrasta quello vivo, dove non può che dominare incontrastato il nuovo Principe, Monsieur le Capital.
In questo senso, nella odierna formazione sociale borghese occidentale, contraddistinta anzitutto dal suo carattere imperialistico, la sovranità popolare esiste solo nella sua forma parziale e zoppa, cioè nella democratica dittatura della maggioranza. La sua natura è essenzialmente moltitudinaria, il suo carattere è si associativo ma fondato sulla forma mercantile e capitalistica della ricchezza, gli interessi che finiscono per prevalere come comuni sono in verità quelli di un blocco sociale comunemente proteso, sia a tenere in piedi il sistema di rapina imperialistica della maggioranza della popolazione mondiale, sia a tenere soggiogati e senza diritti sostanziali tutti coloro che non sono inclusi in questo blocco. Alle spalle della comunità frantumata, sovrastata da questo sconfinato e tentacolare blocco sociale plebeo, chi detiene il bastone del comando, pur attraverso complesse mediazioni politiche e ideologiche, è alla fine dei conti una ristretta olicarchia ultracapitalista.
Della Democrazia
La Democrazia è per il pensiero liberale l’insieme delle modalità politiche e normative attraverso cui si esprime la sovranità popolare, le quali poggiano su determinate forme istituzionali e statuali. E’ bene stabilire subito che il Diritto borghese pone un limite invalicabile all’esercizio della sovranità: essa può decidere delle forme di governo, ma non può mettere in discussione il sistema o sovvertire l’ordinamento delo Stato. Vedremo più avanti come questi limiti siano costitutivi dello Stato di Diritto.
Sorta in antitesi alla democrazia diretta, quella liberale è indiretta, implica il principio della delega. La sovranità popolare è quindi una sovranità delegata, nella fattispecie ad una serie di istituti rappresentativi composti da corpi separati di funzionari preposti ad amministare la cosa pubblica. Pochi di essi sono eleggibili e revocabili. In genere anzi, a parte il personale legislativo ed esecutivo (Parlamento e governo), come lascito della società feudale, abbiamo vere e proprie caste autoreferenziali che in alcuni casi non sono nemmeno strumentali all’Esecutivo. Il popolo è “sovrano”, ma esso può scegliersi solo una parte del personale pubblico. Ad esempio non può eleggere i giudici, né può scegliersi chi è preposto alla sicurezza collettiva o alla difesa. Alcune decisive funzioni sono dunque sottratte alla sovranità popolare. Per cui la democrazia liberale moderna si presenta anche come una democrazia prefettizia.
Per di più essa ha subito negli ultimi decenni una progressiva degenerazione censitaria e apparentemente segregazionista dato che, a cominciare dagli U.S.A, solo una parte dei cittadini si reca alle urne ad esprimere un proprio voto —negli USA è il ceto medio conservatore fondamentalmente bianco ad esercitare il suo diritto di voto per la scelta del Presidente e dei membri di Congresso e Senato. Il sistema bypartizan o bipolare si presenta dunque apertamente come una camicia di forza entro cui i diritti di cittadinanza sono coartati e sostanzialmente svuotati di ogni potenza, al punto che il primo di questi diritti, la partecipazione pur delegata e passiva alla vita politica interessa solo la metà della popolazione. Ciò non accade per caso. La democrazia statunitense, nonostante certi suoi apologeti (i più pericolosi tra essi sono quei neofiti dell’americanismo che si fregiano del loro passato marxista o operaista) facciano finta di dimenticarlo, non incorpora soltanto la spinta radicale della rivoluzione antinglese, ma pure il genocidio dei nativi americani, la schiavitù plurisecolare dei neri africani, e la discriminazione razziale (che se è stata giuridicamente abolita negli anni ‘60 del secolo scorso, esiste sostanzialmente ancora oggi).
Di primaria importanza sono infine i mutamenti recentissimi maturati dentro il sistema nordamericano dopo i devastanti attentati dell’11 settembre. Che esso fosse gravido di Stato di Polizia era già evidente, con i Decreti presidenziali dell’autunno 2001, ciò che era incipiente ora si dispiega senza infingimenti. Con il consenso del Congresso, dunque anche dello schieramento liberal, e prendendo la “guerra al terrorismo” come pretesto, l’Amministrazione Bush sta letteralmente smantellando lo Stato di Diritto tradizionale di cui gli americani andavano fieri in quanto espressione alta della intangibilità dei diritti individuali. Nella scala dei diritti soggettivi, quello alla sicurezza, ha subordinato tutti gli altri, tra i quali quelli alla libera espressione delle proprie opinioni e del dissenso. Chiunque non condivida o peggio condanni la dottrina della “guerra al terrosimo”, della “guerra preventiva” (cioè l’asse della nuova politica estera americana), è bollato come disfattista e antipatriottico. Il Maccartismo impallidisce. Con un colpo di spugna Bush ha di fatto annullato il carattere sovralegislativo della Costituzione. Il processo che ha portato alla supremazia degli apparati repressivo-militari e strategici nell’ambito del sistema istituzionale nordamericano ha radici lontane, con Bush è stato apparentemente portato a compimento, ad un punto di non ritorno. Se aggiungiamo a questo che il personale di questi apparati strategici è spesso reclutato nel mondo delle grandi multinazionali, avremo che il capitale finanziario concepisce il governo come propria autorappresentazione e la Casa Bianca come proprio comitato d’affari.
La catena della sovranità imperiale è dunque così articolata: il Capitale ha il primato sullo Stato, lo Stato sul Diritto, la legge ordinaria sulla Costituzione.
L’Europa continentale, culla della democrazia costituzionale e del sistema elettorale proporzionale, pare anch’essa avviata su questa china. Ogni paese a suo modo, ricorrendo ad ogni sorta di diavolerie giuridico-istituzionali, grazie al connubio destra-sinistra, tenta di blindare e menomare il sistema rappresentativo, ponendo i più svariati ostacoli per impedire alle forze antagoniste di usare gli scranni dei parlamenti o degli organismi amministrativi locali come tribune per la loro propaganda. In genere il sistema, tanto più velocemente quanto più smantellava il welfare state come meccanismo di protezione e inclusione politico-sociale degli strati sociali più deboli, è riuscito a prevenire e annientare la possibilità che questi ultimi si autorappresentassero politicamente —ciò che spiega il carattere sui generis dei nuovi movimenti di massa europei dopo Seattle, e quindi la vera e propria sublimazione movimentistica, che appare come la manifestazione del proprio status di politica inferiorità.
La formazione dell’Unione Europea, scippando agli stati nazionali porzioni decisive di sovranità, surdeterminandoli e surrogando molte loro competenze istituzionali, riproduce e insegue, come in una platonica metessi, la statunitense catena della sovranità imperiale di cui sopra.
Se teniamo conto del processo di concentrazione della ricchezza nelle mani di una ristretta un’oligarchia ultracapitalistica; del carattere blindato del principio di maggioranza (per cui la sovranità reale appartiene al blocco sociale dei ceti raccolti attorno all’oligarchia); del fatto che nella maggioranza dei casi i sistemi isituzionali liberali sono a carattere bonapartistico-presidenzialistico; infine della colossale concentrazione monopolistica dei mezzi di comunicazione di massa (diventati l’assolutistico demiurgo che forgia e plasma l’opinione pubblica); noi abbiamo che la democrazia è solo una delle faccie del sistema politico occidentale. Esso è in realtà un impasto di democrazia, aristocrazia, oligarchia, monarchia. E per riconoscerle, per intendere la loro interrelazione, non bastano il bianco e il nero ma serve la scala della quadricomia. Questa ibridazione, questo carattere polimorfico del sistema politico tardo-capitalista, non avviene per capriccio, queste quattro forme esprimono i quattro canali attraverso cui si esprime la Sovranità reale. La democrazia consente al blocco sociale plebeale, attraverso il Parlamento, di autorappresentarsi e di concorrere alla formazione delle decisioni politiche secondarie. L’aristocrazia è il guscio entro il quale la multiforme nomenklatura degli intellettuali (quella che a vario titolo presume di essere l’élite depositaria degli esoterici saperi etici e scientifici, memoria e dunque sistema celebrale del sistema) si assicura l’appannaggio delle posizioni politiche e sociali dirigenti allo scopo di fabbricare l’egemonia che permette al sistema tutto di riprodursi e autoperpetuarsi. L’oligarchia, l’abbiamo già detto, è la classe ultracapitalista che detiene il monopolio incontrastato della ricchezza materiale, nella forma sempre più astratta di denaro che si valorizza. La monarchia è la modalità con cui il complesso sistema di pesi e contrappesi viene sovraordinato e stabilisce il proprio carattere decisamente piramidale, affidando ad un uomo solo le decisioni finali più scottanti, di vita o di morte, primarie.
Chiamiamo questa modalità interna del sistema imperialistico democrazia quadripolare censitaria.
Lo Stato di Diritto
Il profilo concettuale dello Stato di Diritto (che è il tratto distintivo principale dell’Occidente, l’allegoria con la quale esso si contrappone come superiore alle altre civiltà) è in realtà incerto e controverso. Sia per quanto concerne le determinazioni teoriche in cui si sostanzia, sia sotto il profilo normativo e istituzionale. Come già nel secolo scorso affermava Carl Schmitt, il lemma “... può significare cose tanto diverse quante sono le modalità organizzative implicite nel concetto di Stato”.
Dunque non esiste una definizione semanticamente univoca, né tantomeno ideologicamente neutrale dello Stato di Diritto. Né un approccio scientista è possibile perché esso è costitutivamente contaminato da giudizi di valore di carattere etico-morale. La teoria politico-giuridica che recentemente e nel segno dei tempi va per la maggiore ha assunto al riguardo un approccio espistemologico debole, ispirandosi al pragmatismo e al convenzionalismo cognitivo. La teoria sociale ha il solo compito di elaborare, non definizioni certe e veritative, di carattere programmatico o assiologico, ma solo interpretazioni più o meno coerenti o meno ancora raccomandazioni interpretative.
Proveremo tuttavia a concettualizzare lo Stato di Diritto vigente, sia esponendo quelli che sono oggigiorno accettati come sui principi fondanti, sia mettendo in luce i tratti distintivi che ai nostri occhi giustificano l’attribuzione di postmoderno.
Il primo tra tutti è in realtà di carattere etico e astratto. I teorici liberali convengono infatti che la realizzazione e la soddisfazione delle aspettative individuali è la fonte primaria di legittimazione del sistema politico e sua precipua funzione.
Lo Stato di Diritto (per gli angloamericani Rule of Law —esula da questo lavoro mostrare le differenze tra lo Stato di Diritto europeo continentale e la sua versione atlantica) si presenta dunque come sistema le cui istituzioni politiche e apparati giuridici sono rigorosamente finalizzati, oltre tutto, alla tutela dei diritti soggettivi fondamentali, intendendo, per diritti soggettivi, non solo quelli privati ma anche pubblici (ma dove quello pubblico è solo un soggetto singolare tra gli altri). La tradizionale antitesi liberale tra libertà ed eguaglianza trapassa nel diritto postmoderno in una forma che denuncia la sua ascendenza individualistica: la dimensione pubblica e l’interesse generale sono sottoposti al primato assoluto dei valori, delle aspettative e dei bisogni del singolo soggetto (proprietario e mercantile); l’ordinamento giuridico espleta il compito di garantire i diritti individuali, frenando l’incombente arbitrio del potere politico. Ed eventualmente, aggiungiamo noi, contrastando la spinta di masse organizzate che dovessero irrompere sulla scena avanzando istanze egualitarie.
In realtà abbiamo visto come la democrazia imperialistica abbia subito negli ultimi decenni una tale metamorfosi che questo modello non esiste se non nel solipsistico e fatato mondo dei teorici del diritto. La postmodernità ha ridefinito i concetti di Res Publica, sovranità, libertà, popolo, democrazia, così che lo Stato di Diritto di cui parlano i giuristi non è che un vacuo simulacro di quello reale. Dallo Stato di Diritto siamo passati infatti al Diritto dello Stato (sempre significando, per Stato, quell’organismo complesso di cui abbiamo parlato sopra), ad un sistema fondato sull’arbitrio della maggioranza, cioè di quel blocco sociale interessato al mantenimento dell’ordine di cose esistenti. Un arbitrio la cui struttura assomiglia ad un sistema di scatole cinesi o ad un sistema nervoso, al cui centro più interno la maggioranza affida smisurate possibilità di comando. Il sofisticato sistema di pesi e contrappesi del tradizionale ordinamento giuridico è da tempo inceppato, e anche quando tra i poteri avviene la lotta (e l’Italia è uno di questi casi), non è il l’arbitrio dello Stato che viene posto in questione, ma solo a chi spetti il privilegio di esercitarlo.
Ma l’aspetto distintivo dello Stato di Diritto postmoderno risiede altrove, nello strapotere dei mezzi di comunicazione di massa. Abbiamo detto che i media hanno subito un colossale processo di concentrazione oligopolistica e spesso monopolistica. Questo fatto rappresenta, per se stesso, la più brutale smentita del carattere democratico del sistema. Nei fatti non esiste più quella libertà che per secoli è stata la bandiera prima della borghesia poi del proletariato e causa di accanite lotte sociali: la libertà di stampa. Impercettibilmente, senza traumi, la società è scivolata in un sistema di tipo totalitario, nella tirannide e nella demagogia.
La concentrazione ha raggiunto tali livelli che i conflitti interni al blocco dei dominanti relativi a questa problematica, sono spesso la principale causa di instabilità e fibrillazione del blocco medesimo. La liquidazione della libertà di stampa ha trascinato con sé quelle di parola e d’opinione. Essendo la televisione il luogo fondamentale se non esclusivo del confronto di idee, chi fosse escluso da questa tribuna è privato di fatto del diritto di parola e di quello ad esprimere le sue idee.
Ma la televisione ha introdotto un’altra novità dalle conseguenze incalcolabili e apparentemente irreversibili: essa ha risucchiato nelle sue viscere tutte le sedi sociali orizzontali dove si formavano le opinioni e la coscienza sociale. Essa è diventata l’unico vero luogo ove i cittadini possono compiere la loro esperienza politica, in certi casi anche esistenziale (la rete Internet essendo un palliativo, lo zuccherino amfetaminico per tenere buoni i ribelli del ghetto digitale, illudendoli di avere voce in capitolo).
Attraverso di essa il sistema può compiere un’opera di diffusione dell’ideologia dominante, di persuasione e indottrinamento, che neanche Goebbels, in stato di delirio, avrebbe potuto immaginare. I meccanismi e i protocolli comunicativi hanno assunto un carattere polisemico così sofisticato e immaginifico, la persuasività dell’esperienza virtuale è così potente, che il sistema può permettersi di fabbricare la sua egemonia saltando addirittura la politica, che nei palinsesti televisivi viene sempre sobriamente dopo il divertissement. Sempre più spesso, anzi, la tv-cloaca trasfigura la politica in svago demenziale, in pagliacciata, in populistica demagogia. Così che la coscienza politica che essa contribuisce a formare nelle menti dei cittadini (oscurata d’ufficio ogni critica sistemica, cancellata ogni utopia possibile) è la coscienza dei pagliacci. Fondata sulla trasfigurazione della realtà, sull’autoreferenziale rappresentazione di se stessa, la televisione accentua e produce l’idiotismo di massa, la passività apolitica, accentuando mostruosamente il carattere verticale e delegato della democrazia, i suoi tratti plebiscitari. Le moltitudini teleguidate non possono in effetti esercitare alcuna effettiva sovranità, così che non possono fare altro che accettare una relazione di sudditanza con la classe dominante, e consegnare all’occorrenza, tra una tornata elettorale e l’altra, ogni immaginabile potere al suo personale politico, nella convinzione che l’alternanza sia la forma più compiuta di sovranità democratica.
E siccome parliamo di Stato di Diritto come architettura del sistema politico imperialistico, rendiamo omaggio a Guy Debord e alle sue geniali tesi sulla Società dello spettacolo, che hanno riscattato la senescenza del marxismo tardonovecentesco, consegnandoci intuizioni analitiche che mantegono una straordinaria vitalità e che sottolineavano come, oggi più che mai, solo una rivoluzione totale e tremenda possa riscattare l’umanità dal suo stato tanto smisuratamente servile.
[continua]
3 commenti:
La rete internet non è affatto un palliativo.
Dipende da come la si usa quindi se si continua a seguire modalità poco creative e poco innovative è ovvio che non si riesca a svilupparne tutte le potenzialità.
Grillo ci ha provato in qualche modo e ha ottenuto risultati clamorosi; la sinistra dovrebbe cominciare a inventarsi un approccio ancora più rivoluzionario ma sfortunatamente si porta dietro la tara genetica del "compiacimento filosofico" (i.e.: farsi le pippe) e resta arenata nelle secche delle discussioni fini a sé stesse che non interessano più nessuno.
Il bello è che non ci vogliono nemmeno tanti soldi, basterebbe capire che l'approccio televisivo consiste in un rapporto vincolato fra uno dei soggetti che manda messaggi e l'altro che può solamente riceverli finendo per perdere la capacità di interpretarli autonomamente; allora la persona intelligente di sinistra potrebbe avere la straordinaria intuizione di implementare un altro tipo di rapporto che su internet è ampiamente possibile e migliorabile rispetto a oggi ossia una comunicazione in cui esiste "lo scambio" fra chi porta il messaggio e chi lo riceve.
Sì, c'è un grosso problema: questo comporta che gli augusti personaggi che scrivono nei vari blog si impegnino a stabilire un contatto diretto con i lettori. Non è che gli manchi il tempo dato che si tratta in fondo di solo un paio d'orette a settimana, è che non gli va di avere troppo a che fare con la vile massa.
La vile massa da parte sua non si incazza anzi li adora di più se sono sprezzanti per cui la televisione nonostante sia un media incredibgilmente obsoleto riesce a vincere.
Una volta la sinistra diceva "La fantasia al potere"...una volta...
"Il concetto di libertà è molto più spinoso di quanto si pensi" afferma correttamente il Pasquinelli che fa del suo meglio per dare al lettore riflessivo una specie di panoramica enciclopedia sulle conclusioni delle varie Scuole filosofiche del passato. I fatto è che il concetto di "libertà" e variegatissimo: per lo schiavo essere libero significa essere senza catene, per il malato essere senza malattia, per il povero avere di che sopravvivere, per il "riccone" è possedere tutto l'oro del mondo e via di questo passo.
Una risposta abbastanza accettabile è quella che fa consistere la libertà nell'essere privi di condizionamenti che coartino le proprie aspirazioni. Ma anche questo punto di vista finisce per rendere la libertà un utopico mito. Più realistico è affermare che è libero chi accetta la necessità come ineluttabile. I "Cinici", per esempio, erano di questo parere.
É la prima volta in assoluto che vedo il nome di Debord in un articolo di un blog/forum che tratta della società.
E ci tengo a sottolineare che nonostante la quasi completa indifferenza nella quale il regista e filosofo francese é stato relegato quel libro uscito 48 anni fa non é ancora stato confutato ne da i pensatori, ne soprattutto dai fatti.
Perdonate l' O.T.
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