[ 20 marzo ]
Questo saggio venne pubblicato dalla rivista PRAXIS. Apparve in due parti nel n.31 del marzo-aprile 2003 e la seconda nel n. 32 del maggio-giugno 2003.
Riteniamo di fare cosa utile riconsegnarlo ai nostri lettori. Pe rendere più agevole la lettura noi lo divideremo a nostra volta in tre parti.
Qui la prima, che si sofferma su la questione dello Stato.
La seconda sui concetti di Libertà, di sovranità, di Popolo e di Democrazia. Seguirà infine la terza parte, nella quale Pasquinelli fa i conti con le aporie della (non)teoria marxista dello Stato medesimo.
Pasquinelli non riuscì allora a mantenere la promessa di tirare le somme con una parte finale contenente la sua visione di "Stato socialista", ci ha assicurato che la manterrà pur a distanza di 11 anni.
LIBERTÀ E COMUNITÀ
Per nuova teoria socialista del Diritto e dello Stato
Premessa
Marx si promise di trattare scientificamente le problematiche relative
alle Stato, ma non riuscì a farlo. Tra tutti i suoi epigoni Lenin fu il solo a
tentare una sistemazione teorica che avesse una sufficiente coerenza. Lo fece,
pressato dalla temperie rivoluzionaria russa, con l’intento di contrastare le
deformazioni riformistico-legalitarie diventate da almeno un ventennio egemoni
nel movimento socialista internazionale, e di difendere il marxismo come
“dottrina rivoluzionaria”. Senza esitazioni egli accolse la tesi engelsiana
(sostenuta dallo stesso Marx) per cui lo Stato appare solo ad un certo grado
dell’evoluzione storico-sociale, quando gli antagonismi sociali sono
inconciliabili e la classe dominante si dota di un apparato coercitivo allo
scopo di tutelare i suoi interessi e conservare la propria supremazia. Sotto
questa luce lo Stato era dunque anzitutto una “banda armata”.
Dopo Lenin, Gramsci fu il solo (nell’ambito del marxismo rivoluzionario)
a porre l’esigenza di un’analisi più articolata e rigorosa dello Stato, che nei
paesi a più alto sviluppo delle forze produttive, come vedremo, non è soltanto
un apparato coercitivo, ma uno strumento complesso di fabbricazione di egemonia
ideologica e sociale. L’assenza di una seria ricerca scientifica sullo Stato
moderno era una prova della lenta agonia teorica che il marxismo ha conosciuto,
soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Un’agonia che si spiega anche con
l’apparentemente irreversibile
ascesa del socialismo reale, che sembrava risolvere praticamente e
storicisticamente gli ossimori e i nodi teorici irrisolti.
Stessa sorte è toccata alla questione dello Stato di Diritto —che definiamo intanto come il sistema
giuridico-normativo di cui ogni società finisce per dotarsi sulla base di dati
presupposti etici, dunque di una concezione del mondo.
Come spiegare il fatto che questo silenzio ha coinvolto anche la
sinistra radicale e le sette ereticali di vario stampo? Se lo stalinismo, tra
l’apologia del modello russo e lo storicismo, poteva solo rimuovere la
problematica, i marxismi ereticali avrebbero dovuto, proprio per dare respiro e
rigore alla loro critica del “socialismo reale”, sviluppare analisi più
accurate. Non lo hanno fatto a causa del loro dogmatismo dottrinario. Stato e
Diritto, essendo secondo loro mere sovrastrutture sociali, non meritavano
indagine scientifica. Il paradigma, certo ereditato da Marx, era il seguente: una
volta scomparse le classi lo Stato, e con esso il Diritto (concepito come suo
mero rivestimento giuridico), non potevano che automaticamente e
inesorabilmente dissolversi nel corpo della società socialista.
Idem accadeva ai diritti soggettivi individuali e quale sorte spettasse
loro nel passaggio al comunismo: l’indagine era superflua in quanto
un’autentica società senza classi sarebbe stata il regno della libertà totale e
dispiegata. Avveniva insomma una torsione meccanicistica ed economicistica di
quella che al tempo fu una fondamentale scoperta materialistico-storica di
Marx:
«Sono stato dai miei studi condotto alla conclusione che sia i rapporti
giuridici sia le forme dello stato non potevano essere compresi né di per se
stessi né per il cosiddetto sviluppo generale dello spirito umano, ma che sono
radicati nei rapporti materiali dell’esistenza, il cui complesso è abbracciato
da Hegel con il nome di Società civile:
l’anatomia di questa Società civile
dev’essere cercata nell’economia politica». (K. Marx. Introduzione a Per la critica dell’economia politica)
Gli eretici usando vuote tautologie o limitandosi alla sterile esegesi
filologica del testo di Marx, gli staliniani adottando una machiavellica realpolitik, andavano dunque nella
stessa direzione. Non è per caso che la penosa implosione dell’URSS abbia
trascinato con sé tutte le eresie, nessuna esclusa.
Vi è forse un’altra ragione, più profonda e che attiene ad un aspetto
sottaciuto ma costitutivo del marxismo.
Dietro alla supponenza con la quale i marxisti ortodossi di tutte le
chiese hanno liquidato l’etica come ideologia, in realtà si annidava un’inconfessata
accettazione dell’etica rousseauviana: la natura umana è buona, conflitti e
ostilità sarebbero sorti con la comparsa della proprietà e la fissazione dei diritti
di proprietà. Ergo: aboliti questa e quelli gli uomini sarebbero tornati alla
beatitudine dello stato di natura.
Tutto molto semplice, tutto molto metafisico. Il comunismo come aristotelica entelechia: la compiuta e finale
realizzazione della innata potenza umana.
E’ nostra intenzione tentare di mettere ordine in questo campo, per
giungere a delle conclusioni (che se non sono delle congetture popperiane sono
pur sempre passibili di falsificazione), per quanto attiene alle sorti dello
Stato, del Diritto e dei Diritti soggettivi nella società socialista. Per farlo
dobbiamo transitare un territorio minato e saldamente presidiato dal pensiero
politico liberale e borghese, ricostruendo i concetti di Stato, Sovranità, Libertà, Popolo
Democrazia e Stato di Diritto.
Ai lettori stabilire se le nostre fatiche
avranno prodotto un impianto concettuale, se non già rigorosamente scientifico,
almeno potenzialmente tale.
Dello Stato
Non condividiamo, poiché semplicistica, la tesi secondo cui lo Stato
sorge solo ove la comunità si sia divisa in classi ostili e antagoniste e che
esso sia dunque soltanto o anzitutto un apparato coercitivo armato posto a
difesa della classe dominante. Dove c’è comunità, insieme di uomini associati,
anche liberi ed eguali, anche quand’essa fosse armonicamente autogovernata, li
avremo quantomeno statualità (Polis o
meglio Res Publica), poiché non
esiste comunità qualsivoglia senza ordine, amministrazione, norme giuridiche,
strumenti atti a tutelarle e finalità politiche. Il non-Stato è l’anarchia, e
non vogliamo dar credito all’idea errata che quest’ultima sia l’equivalente o
il sinonimo di comunismo. L’anarchismo presuppone infatti l’uomo come essere
perfettibile, il suo carattere divino, così che la comunità non dovrebbe normare e
indirizzare le sue congenite facoltà e pulsioni bio-spichiche, dovrebbe soltanto lasciare che si dispieghino
liberamente e senza freni. L’anarchismo è una robinsonata, un liberale benthamismo
estremistico.
In realtà l’uomo, come mero individuo, non può essere posto al centro di nulla.
La comunità, pur riconoscendo le istanze singolari e individualistiche di cui
esso è portatore, non può poggiare su di esse, bensì su quelle di tutti, ciò
che implica la mediazione della politica. L’autogoverno non è se non la forma
più alta di ordine sociale. Se lo Stato è solo una delle forme possibili della Res Publica, una forma coercitiva,
storicamente determinata, il comunismo come regno della libertà, non è se non
una Res Publica nella sua forma più
organica, una auto-statualità della comunità.
Marx aveva ragione affermando che “la fisiologia dell’uomo ci consente
di capire quella della scimmia”. Se è così dobbiamo respingere la metodologia
hegeliana, ripresa tale e quale da Engels, che parte sempre metafisicamente dall’analisi dell’elemento
originario e primordiale per spiegare, sul filo di una catena progressiva di
eventi causali, quello conclusivo. Dobbiamo invece partire dallo Stato capitalistico postmoderno (così
abbiamo scelto di chiamare sistema politico imperialistico occidentale), che è
la forma più complessa e sofisticata sin qui esistita, qualcosa di molto più
ampio e articolato che una pura e semplice “banda armata”.
Il suo carattere di apparato coercitivo a disposizione della classe dominante si manifesta solo in
ultima istanza, contestualmente ad un insieme di funzioni che esulano il crudo
esercizio della forza. Queste funzioni debbono concorrere tutte alla
conservazione dell’ordine sociale esistente, ma l’ordine esistente è una
nozione astratta, la società essendo un disordine reale e dunque sempre
mutevole, che può essere normato e tenuto in piedi solo a condizione che il
sistema sia policentrico e
inclusivo, che sappia cioè inglobare nel suo seno le molteplici spinte
dei diversi ceti sociali, assicurando loro non solo una porzione della
ricchezza sociale, ma un rango ed uno status
adeguati, che non sia solo giuridico, ma politico e sociale.
In questo quadro lo Stato
capitalistico postmoderno non può tutelare solo gli interessi di un pugno
di capitalisti, ma quelli di un articolato e ampio blocco sociale plebeale dominante di cui la borghesia capitalistica
è solo l’apice. Chiamiamo plebeale questo blocco, volendo sottolineare che esso
include, oltre alla classe economicamente dominante, la piccola borghesia
produttiva (che lungi dall’estinguersi è diventata più numerosa), la zona alta
dello sterminato ceto medio impiegatizio (le cui file, con la terziarizzazione
della società moderna, si sono infittite). Ma il tratto davvero distintivo dei
sistemi imperialistici, è che essi hanno inglobato buona parte della stessa
classe proletaria, quella classe che per un lungo periodo, soprattutto in
Europa, era stata la fonte di un’accanità conflittualità.
Si capisce che l’egemonia capitalistica non è data automaticamente, solo
in virtù delle sue posizioni di forza nella sfera dei rapporti di produzione.
Lo stesso blocco dominante è infatti segnato da una permanente conflittualità
interna, da una dinamica lotta tra le componenti, i cui equilibri sono sempre
instabili e precari. Se quella capitalistica fosse una società castale, diremmo
che la sovranità non appartiene ad una sola, ma ad un aggregato mutevole, i cui
confini non sono mai dati una volta per tutte. Lo Stato è anche il garante di
questa dinamica inclusiva e cooptativa, assicura che questa competizione
avvenga in base a norme certe, ciò allo scopo di impedire che la competizione
interna al blocco delle classi e dei ceti dominanti si trasformi in conflitto
aperto, col rischio che parte di esso decida di raggiungere coloro i quali sono
esclusi e tenuti fuori dal perimetro sociale in cui si esercita la sovranità
politica.
Lo Stato è dunque tanto più saldo quanto più agisce come custode del
carattere ampio e inclusivo del blocco dei dominanti, quando non si manifesta
in prima battuta come uno Stato di classe, ma come arbitrale soggetto
interclassista, luogo di sintesi delle molteplici soggettività che compongono
la formazione sociale capitalistica e in primis di quelle che sono a vario
titolo interessate alla sua conservazione.
La sua potenza si esprime ovviamente nella sua capacità di contrastare
le spinte eversive proletarie e dei ceti esclusi dall’esercizio della sovranità
politica. Ma questa funzione di contrasto è prima di tutto capacità di
neutralizzazione, consiste nell’impedire agli esclusi di prendere coscienza dei
loro interessi, nell’inibire la loro soggettivizzazione
politica, nel soffocare le spinte alla nascita di un loro contropotere.
Quando questa funzione preventiva s’inceppa, solo allora lo Stato si manifesta
crudamente come apparato di coercizione, come Stato di Polizia. Allora esso si spoglia dei suoi panni
democratici, si toglie la sua veste arbitrale, per ostentare la sua muscolare
aggressività.
Ma resta che esso è tanto più è forte tanto meno deve ricorrere alla
forza per contenere sia le tensioni al suo interno che quelle che si presentano
come antagonistiche.
Entro i confini nazionali (verso l’esterno periferico le modalità sono
di ben altro segno) esso esercita infatti
le sue funzioni non tanto con la critica
delle armi (che vengono brandite comunque come deterrente e usate
all’occorrenza verso quegli strati proletari che vivono ai margini del processo
di produzione e riproduzione capitalistici e che non accedono alla Sovranità
poiché il loro diritti di cittadinanza sono sostanzialmente menomati), ma con
le armi della critica. La sua potenza
è infatti prima di tutto politica, consiste nella sua capacità di esercitare egemonia ideologica, di assicurare,
oltre all’unità del blocco sociale dominante, la possibilità di quest’ultimo di
integrare nel suo seno anche quelli esclusi.
L’egemonia non è una mera
tecnologia politica, un’astuta modalità del comando sociale, è il primato di
una concezione del mondo, che nel caso dello Stato capitalistico postmoderno consiste sì nel conferire sovranità
al Capitale ma solo in quanto suprema forza motrice del mercato, un mercato il
quale si manifesta come luogo aperto, pervasivo, in costante espansione e, quel
che più conta, come cornice che consente una crescita costante del progresso e
del benessere collettivo (ove il mercato non assicuri questa diffusione del
benessere l’egemonia capitalistica vacilla e il sistema scricchiola).
In questo senso, se il Capitale è l’astratto demiurgo che sta alle
spalle dello Stato, questo si presenta in verità come organo proteiforme,
tentacolare, plurifunzionale.
Accanto agli organismi attraverso cui esso esercita sovranità diretta
(esecutivo, legislativo, giudiziario, poliziesco), v’è un sistema multiforme di
sovranità indiretta composto non soltanto da istituzioni collaterali quali
scuole, mezzi di comunicazione, chiese, fondazioni, enti filantropici,
organizzazioni non governative, ecc, ma pure da partiti, sindacati e spesso
movimenti —apparentemente eversivi e che invece spesso sono soltanto la forma
con cui ceti sociali esclusi, emarginati o vittime di una perdita di status, tentano di forzare le
compatibilità di sistema per entrare o rientrare entro il campo del blocco dei
dominanti. Tutto quello che passa comunemente oggigiorno sotto il nome di “società
civile”.
Deve esserci una relazione di
coessenzialità e di osmosi tra gli apparati della sovranità diretta o statuale e quelli della sovranità indiretta o della società civile. I primi non possono
esercitare potere in maniera unilaterale e autoreferenziale, ma solo grazie al
vitale supporto della “società civile”. Quest’ultima alimenta gli apparati
della sovranità diretta in svariate e
modulari maniere, riciclando l’ideologia dominante, aggiornandola e
scrostandola dagli elementi obsolescenti, assicurando il ricambio del personale
politico dirigente, fornendo gli intellettuali senza i quali semplicemente il
sistema rischierebbe di perdere plasticità e potenza egemonica.
Quando questa relazione cortocircuita e si spezza abbiamo quella che
possiamo chiamare crisi di egemonia,
crisi che diventa rivoluzionaria solo ove l’avversario del Capitale,
soggettivizzatosi politicamente, sia riuscito e costruire attorno a sé un blocco sociale non meno largo e
rappresentativo di quello dominante; sia cioè riuscito a rappresentarsi come potenza generale e costituente, quindi dotato
di una concezione del mondo non meno universalistica e pervasiva di quella
mercantile di cui il Capitale si fa interprete e campione.
Se affermiamo, sviluppando il ragionamento di Gramsci, che lo Stato capitalistico postmoderno compone
l’insieme degli apparati della sovranità
diretta e di quelli della sovranità
indiretta, stiamo in effetti correggendo Marx il quale, torcendo non poco
la tesi di Hegel, riteneva la società
civile sede dei “rapporti materiali d’esistenza”, cioè dei rapporti di
produzione e di scambio, ovvero la reale struttura economica sulla quale si
ergeva la sovrastruttura statuale. Se dovessimo ricorrere ad una metafora
anatomica (e come ogni analogia va presa con le pinze), parzialmente
accogliendo le tesi althusseriane, diremo che l’organismo sociale che chiamiamo
sistema capitalistico è una struttura,
le cui parti tutte concorrono, a seconda delle loro specifiche funzioni, alla
sua complessiva vitalità e riproduzione. Se i rapporti di proprietà sono il
sistema osseo di questo organismo, gli apparati statuali della sovranità diretta o coercitiva
costituiscono il suo sistema nervoso, mentre quelli della sovranità indiretta o “società civile” corrispondono al resto:
sistemi muscolare, cutaneo e circolatorio, gli apparati digerente, respiratorio
e escretore.
Il marxismo ortodosso, col suo rigido schema binario
struttura-sovrastruttura, non ha saputo spiegare lo Stato capitalistico postmoderno, tanto meno possono farlo le scuole
liberali borghesi. La realtà ha infatti smentito e superato tutte le dottrine.
Esso non è il rousseauviano ente che rappresenta e incarna la volontà generale.
Non è un contrattualistico patto di individui atomizzati dotati di potere
costituente. Non è una pura e semplice formazione giuridica o democrazia
costituzionale. Non è l’apparato puramente amministrativo dei liberisti che
supponevano la perfetta coincidenza tra interesse privato e quello pubblico, né
quello di Hegel o Croce che lo dipingevano come “l’ingresso di Dio nel mondo” o
“l’incarnazione dell’Io assoluto”.
Esso è, in Occidente, al suo per ora ultimo stadio di sviluppo, un
organismo complesso che può governare la formazione sociale solo in quanto può
rappresentarla in modo autoritario ma pluralisticamente, ed anche,
foucaultianamente, perché abbisogna che i cittadini abbiano introiettato come
naturale non solo lo scambio mercantile ma pure la necessità della propria
autocoercizione.
Come vedremo più avanti lo Stato capitalistico postmoderno è infine
polimorfico, contiene in sé elementi democratici, aristocratici, oligarchici e
monarchici, il cui dosaggio cambia a seconda delle tradizioni nazionali, delle
circostanze sociali, delle sue necessità di autopreservazione.
Erodoto distingueva tre forme di governo: di uno solo, di pochi, di
tutti. Noi diremo che lo Stato postmoderno, che negli U.S.A. si è venuto
strutturando prima che altrove, riesce ad essere democratico in quanto consente
ai molti, ovvero alle moltitudini, di concorrere alle decisioni politiche, ma
nell’ambito di un sistema istituzionale blindato che si avvicina al Leviatano
di Hobbes, ovvero ad un onnipotente e pervasivo Stato di Polizia.
Nessun commento:
Posta un commento