Il filosofo Slavoj Žižek. La riscoperta del comunismo dopo la sua sbandata per il liberal-capitalismo ai tempi della dissoluzione della Jugoslavia |
di Slavoj Žižek*
«Oggi più che mai si dovrebbe insistere su ciò che Badiou chiama l’Idea «eterna» del comunismo o anche le «invarianti» comuniste – i «quattro fondamentali concetti» al lavoro da Platone in poi attraverso le rivolte millenaristiche medioevali fino al giacobinismo, al leninismo e al maoismo: una giustizia fermamente ugualitaria, un terrore capace di disciplinare, un volontarismo politico e la fiducia nel popolo. Questa matrice non è «sostituita» da nessuna nuova dinamica postmoderna, postindustriale o post-qualunque-altra-cosa vogliate».
«Dunque di nuovo: non è sufficiente restare fedeli all’Idea comunista - bisogna collocarla all’interno di antagonismi reali, storici, che le diano un’urgenza pratica. L’unica vera domanda oggi è: appoggiamo la predominante naturalizzazione del capitalismo o il capitalismo globale odierno contiene antagonismi abbastanza potenti da impedirne la riproduzione all’infinito? Quattro sono questi antagonismi: l’incombente minaccia della catastrofe ecologica, l’inadeguatezza della nozione di proprietà privata applicata alla cosiddetta «proprietà intellettuale», le implicazioni etiche e sociali dei nuovi sviluppi tecnico-scientifici (specialmente in campo biogenetico) e, ultime ma non meno importanti, le nuove forme di apartheid, i nuovi Muri e le nuove baraccopoli. C’è una differenza qualitativa tra
l’ultima caratteristica – lo scarto che separa gli Esclusi dagli Inclusi – e le altre tre, che si collocano nell’ambito di ciò che Hardt e Negri chiamano i «commons», il «comune», la sostanza condivisa del nostro essere sociale, la cui privatizzazione implica atti violenti, ai quali si dovrebbe resistere anche con mezzi violenti, se necessario:
il comune della cultura, le forme del capitale «cognitivo» immediatamente socializzate, prima di tutto il linguaggio, il nostro mezzo di comunicazione e di istruzione, ma anche le infrastrutture condivise come il trasporto pubblico, l’elettricità, le poste ecc. (se a Bill Gates fosse stato permesso di realizzare un monopolio, ci troveremmo nell’assurda situazione in cui un singolo privato sarebbe, letteralmente, il proprietario del tessuto di software della nostra rete di comunicazione principale);
il comune della natura esterna, minacciata dall’inquinamento e dallo sfruttamento (dal petrolio alle foreste pluviali e all’habitat naturale in quanto tale);
il comune della natura interna (l’eredità biogenetica dell’umanità); con la nuova tecnologia biogenetica, la creazione di un Uomo Nuovo diventa una prospettiva realistica, nel senso, letterale, del cambiamento della natura umana.
Ciò che le battaglie in tutti questi ambiti condividono è una coscienza del potenziale distruttivo, fino all’auto-annichilazione dell’umanità stessa, che la logica capitalistica ha, se è lasciata libera di dispiegare la recinzione del comune. Nicholas Sterne aveva ragione a caratterizzare la crisi climatica come «il più grande fallimento del mercato nella storia umana»[1]. Così, quando Kishan Khoday, un responsabile delle Nazioni Unite, scrive di recente che «c’è uno spirito crescente di cittadinanza ambientalista globale, un desiderio di parlare del cambiamento climatico come di una questione che preoccupa l’umanità intera»[2], bisogna dare il giusto peso ai termini «cittadinanza globale» e «preoccupazione comune» – essi sembrano, infatti, esprimere la necessità di istituire un’organizzazione politica globale e di dar vita a un impegno che, neutralizzando e incanalando i meccanismi di mercato, sia espressione di una prospettiva propriamente comunista.
Il riferimento al «comune» ci permette di far resuscitare la nozione di comunismo, perché ci fa vedere che la progressiva «recinzione» del comune è un processo di proletarizzazione di coloro che, subendola, sono esclusi dalla loro stessa sostanza. L’odierna situazione storica non solo non ci costringe ad abbandonare la nozione di proletariato o di posizione proletaria – ma, al contrario, ci impone di radicalizzarla a un livello esistenziale che va ben oltre l’immaginazione di Marx. Abbiamo bisogno di una nozione più radicale del soggetto proletario, un soggetto che rischia di essere ridotto al punto evanescente del cogito cartesiano, privato del suo contenuto sostanziale.
Per questa ragione, la nuova politica di emancipazione non sarà più l’atto di un particolare agente sociale, ma una combinazione esplosiva di agenti differenti. Ciò che ci unisce è che, a differenza della classica immagine dei proletari che non hanno «nulla da perdere se non le loro catene», noi rischiamo di perdere tutto: il pericolo è di essere ridotti a un soggetto cartesiano vuoto e astratto, privati di ogni contenuto sostanziale, spossessati della nostra sostanza simbolica, con la nostra base genetica pesantemente manipolata, costretti a vegetare in un ambiente invivibile. Questa triplice minaccia al nostro intero essere ci rende tutti proletari allo stesso modo, ridotti a una «soggettività senza sostanza», come Marx scrive nei Grundrisse. La figura dei «parte senza-parte» ci mette di fronte alla verità della nostra posizione, e la sfida etico-politica sta nel riconoscerci in questa figura – perché, in un certo senso, siamo tutti esclusi, tanto dalla natura quanto dalla nostra sostanza simbolica. Oggi, tutti siamo, potenzialmente, un homo sacer e l’unico modo per difenderci dal diventarlo davvero è agire preventivamente.
Questa proletarizzazione da sola, comunque, non è sufficiente se vogliamo essere considerati comunisti. La continua recinzione del comune concerne tanto i rapporti del popolo con le condizioni oggettive del loro processo vitale quanto i rapporti tra persone: i «commons» sono privatizzati a discapito della maggioranza proletarizzata. Nondimeno, c’è uno scarto tra questi due aspetti – il comune potrebbe essere restituito all’umanità intera anche senza comunismo, per esempio in un regime comunitario e autoritario; il soggetto de-sostanzializzato, «sradicato», privato del suo contenuto sostanziale, potrebbe essere neutralizzato anche attraverso il comunitarismo, e trovare così il suo posto in una nuova comunità sostanziale. In questo senso preciso, Negri era nel giusto col suo titolo anti-socialista Goodbye Mr. Socialism: il comunismo deve opporsi al socialismo che, in luogo di un collettivo ugualitario, offre una comunità solidale e organica – il Nazismo fu un nazional-so-cialismo, non un nazional-comunismo. Ci può essere un anti-semitismo socialista, ma non ce ne può essere uno comunista (le cose, a volte, sembra non stiano così, come dimostrano gli ultimi anni di Stalin, ma ciò è solo l’indicatore della mancanza di fedeltà all’evento rivoluzionario). Eric Hobsbawm ha pubblicato di recente un editoriale dal titolo: «Il socialismo ha fallito, il capitalismo è in bancarotta. Cosa viene dopo?» La risposta è: il comunismo. Il socialismo vuol risolvere il primo dei tre antagonismi senza il quarto, senza l’universalità singolare del proletariato. L’unico modo per il sistema capitalistico globale di sopravvivere al suo antagonismo di lungo termine ed evitare, simultaneamente, la soluzione comunista, sarà quello di reinventare qualche tipo di socialismo – sottoforma di comunitarismo, di populismo, di capitalismo asiatico o di qualcos’altro. Il futuro sarà comunista... o socialista.
Questo è il motivo per cui dovremo insistere sulla differenza qualitativa tra l’ultimo antagonismo (il quarto), cioè lo scarto che separa gli Esclusi dagli Inclusi, e gli altri tre: è solo il riferimento agli Esclusi che giustifica il termine comunismo. Non c’è nulla di più «privato» di uno Stato-comunità che considera gli Esclusi una minaccia e che si preoccupa di tenerli a debita distanza. In altre parole, l’antagonismo tra Inclusi ed Esclusi è, tra i quattro, quello cruciale: senza di esso, tutti gli altri perdono il loro potenziale sovversivo. L’ecologia si trasforma in un problema di sviluppo sostenibile, la proprietà intellettuale in una complessa sfida giuridica, la biogenetica in una questione etica. Si può combattere con onestà per tutelare l’ambiente, per difendere una nozione più ampia di proprietà intellettuale, per opporsi alla privatizzazione del codice genetico, e lo si può fare anche senza affrontare l’antagonismo tra Inclusi ed Esclusi. Ma c’è di più: alcune di queste lotte si possono esprimere anche in modo tale che gli Inclusi risultano minacciati dagli Esclusi che, per esempio, inquinano. In questo modo, non abbiamo alcuna vera universalità, ma solo preoccupazioni «private» nel senso kantiano del termine. Multinazionali come Whole Foods e Starbucks continuano a ricevere consensi tra i progressisti, nonostante i loro comportamenti antisindacali; l’imbroglio sta nel fatto che vendono prodotti che sembrano progressisti: si compra caffè fatto con chicchi comprati rispettando i prezzi del mercato equo e solidale, si guida un veicolo ibrido, si compra da compagnie che offrono una buona assistenza al loro staff e ai loro clienti (secondo gli standard delle stesse multinazionali) ecc. In breve, senza l’antagonismo tra Inclusi ed Esclusi, potremmo trovarci in un mondo in cui Bill Gates è il più grande dei filantropi, in lotta contro povertà e malattie, e Rupert Murdoch il più grande degli ambientalisti, capace di mobilitare centinaia di milioni di persone grazie al suo impero mediatico.
Per queste ragioni, è cruciale insistere sull’Idea comunista, emancipatrice e ugualitaria, e insistervi nel preciso senso marxiano: ci sono gruppi sociali che, non avendo un posto determinato nell’ordine «privato» della gerarchia sociale, rappresentano direttamente l’universalità; sono coloro che Rancière chiama «la parte dei senza-parte» del corpo sociale. Ogni politica davvero emancipatrice è generata dal corto circuito tra l’universalità dell’«uso pubblico della ragione» e l’universalità della «parte dei senza-parte» – questo era già il sogno comunista del giovane Marx: congiungere l’universalità della filosofia e l’universalità del proletariato. Dall’antica Grecia, abbiamo un nome per indicare l’intrusione degli Esclusi nello spazio politico e sociale: democrazia. La nostra domanda, oggi, è: la democrazia è ancora un nome appropriato per questa esplosione ugualitaria? Ci sono due estremi: da un lato, il rifiuto superficiale della democrazia in quanto mera forma illusoria della comparsa del suo opposto (la dominazione di classe) e, dall’altro, la rivendicazione che la democrazia che abbiamo, la democrazia realmente esistente, è una distorsione della democrazia vera – sulla falsariga della famosa risposta di Gandhi al giornalista britannico che gli chiedeva cosa pensasse della civiltà occidentale: «Penso che sarebbe una buona idea». Il dibattito che si muove tra questi due estremi mi sembra un po’ troppo astratto e, dunque, bisognerebbe introdurre, come criterio per una risposta più corretta, la questione di come la democrazia si rapporti alla dimensione universale incarnata dagli Esclusi.
Qui, comunque, incontriamo un problema ricorrente: il passaggio dai giacobini a Napoleone, dalla Rivoluzione d’ottobre a Stalin, dalla Rivoluzione culturale di Mao al capitalismo di Deng Xiaoping. Come dobbiamo leggere questo passaggio? La seconda fase (Termidoro) della rivoluzione è la «verità» della prima fase rivoluzionaria (come talvolta Marx sembra affermare)? O si tratta solo del fatto che la serie degli eventi rivoluzionari si è esaurita? Focalizziamoci brevemente sulla Rivoluzione culturale, che possiamo leggere a due livelli diversi. Se la leggiamo come parte di una realtà storica (esistenza), allora la si può facilmente sottoporre a un’analisi «dialettica», che concepisce il risultato finale di un processo storico come la sua «verità»: il fallimento definitivo della Rivoluzione culturale testimonia l’interna inconsistenza dell’autentico progetto («nozione») della Rivoluzione culturale, perché è l’attualizzazione, lo sviluppo e l’esplicazione delle sue inconsistenze (così come, per Marx, la volgare e per nulla eroica vita quotidiana del capitalista in cerca di profitto è la «verità» dell’eroismo rivoluzionario dei giacobini).
Se, invece, l’analizziamo come un Evento, come un’attuazione dell’Idea eterna della Giustizia ugualitaria, allora, il risultato definitivo, fattuale, della Rivoluzione culturale, il suo fallimento catastrofico e il suo capovolgimento nella recente esplosione capitalistica, non esaurisce il reale della Rivoluzione culturale: l’eterna Idea della Rivoluzione culturale sopravvive alle sue sconfitte in una realtà storica e sociale, e continua a guidare la vita spettrale e sotterranea dei fantasmi delle utopie fallite, fantasmi che ossessionano le generazioni future e aspettano pazientemente la loro prossima resurrezione. [...]
Oggi più che mai si dovrebbe insistere su ciò che Badiou chiama l’Idea «eterna» del comunismo o anche le «invarianti» comuniste – i «quattro fondamentali concetti» al lavoro da Platone in poi attraverso le rivolte millenaristiche medioevali fino al giacobinismo, al leninismo e al maoismo: una giustizia fermamente ugualitaria, un terrore capace di disciplinare, un volontarismo politico e la fiducia nel popolo. Questa matrice non è «sostituita» da nessuna nuova dinamica postmoderna, postindustriale o post-qualunque-altra-cosa vogliate. Comunque, fino a ora, fino al presente momento storico, quest’Idea eterna funziona precisamente come un’Idea platonica che perdura, ritornando ripetutamente dopo ogni sconfitta. Ciò che sta mancando – per dirla in termini filosofici – è il legame privilegiato dell’Idea con un singolare momento storico (allo stesso modo che, nel cristianesimo, l’intero edificio eterno e divino si erge e cade con l’evento contingente della nascita e della morte di Cristo)».
[1] Citato da «Time», 24 dicembre 2007, p. 2.
[2] Ibidem.
* Questo testo è stato estratto dall'intervento pronunciato in occasione di una conferenza tenutasi a Londra nel maggio 2009 al Birbeck Institute, per iniziativa di Alain Badiou e Slavoj Žižek, dal titolo On the idea of Communism. Gli atti di questo incontro, che hanno visto la partecipazione di alcuni dei principali filosofi contemporanei, sono stati raccolti in un libro che ha visto la pubblicazione in Francia, Spagna e Inghilterra. In Italia, con il titolo L’idea di comunismo, lo stesso libro sarà disponibile nel mese di aprile nel catalogo delle edizioni DeriveApprodi. Segnaliamo che il testo qui riportato non rappresenta la versione integrale dell'intervento.
«Dunque di nuovo: non è sufficiente restare fedeli all’Idea comunista - bisogna collocarla all’interno di antagonismi reali, storici, che le diano un’urgenza pratica. L’unica vera domanda oggi è: appoggiamo la predominante naturalizzazione del capitalismo o il capitalismo globale odierno contiene antagonismi abbastanza potenti da impedirne la riproduzione all’infinito? Quattro sono questi antagonismi: l’incombente minaccia della catastrofe ecologica, l’inadeguatezza della nozione di proprietà privata applicata alla cosiddetta «proprietà intellettuale», le implicazioni etiche e sociali dei nuovi sviluppi tecnico-scientifici (specialmente in campo biogenetico) e, ultime ma non meno importanti, le nuove forme di apartheid, i nuovi Muri e le nuove baraccopoli. C’è una differenza qualitativa tra
l’ultima caratteristica – lo scarto che separa gli Esclusi dagli Inclusi – e le altre tre, che si collocano nell’ambito di ciò che Hardt e Negri chiamano i «commons», il «comune», la sostanza condivisa del nostro essere sociale, la cui privatizzazione implica atti violenti, ai quali si dovrebbe resistere anche con mezzi violenti, se necessario:
il comune della cultura, le forme del capitale «cognitivo» immediatamente socializzate, prima di tutto il linguaggio, il nostro mezzo di comunicazione e di istruzione, ma anche le infrastrutture condivise come il trasporto pubblico, l’elettricità, le poste ecc. (se a Bill Gates fosse stato permesso di realizzare un monopolio, ci troveremmo nell’assurda situazione in cui un singolo privato sarebbe, letteralmente, il proprietario del tessuto di software della nostra rete di comunicazione principale);
il comune della natura esterna, minacciata dall’inquinamento e dallo sfruttamento (dal petrolio alle foreste pluviali e all’habitat naturale in quanto tale);
il comune della natura interna (l’eredità biogenetica dell’umanità); con la nuova tecnologia biogenetica, la creazione di un Uomo Nuovo diventa una prospettiva realistica, nel senso, letterale, del cambiamento della natura umana.
Ciò che le battaglie in tutti questi ambiti condividono è una coscienza del potenziale distruttivo, fino all’auto-annichilazione dell’umanità stessa, che la logica capitalistica ha, se è lasciata libera di dispiegare la recinzione del comune. Nicholas Sterne aveva ragione a caratterizzare la crisi climatica come «il più grande fallimento del mercato nella storia umana»[1]. Così, quando Kishan Khoday, un responsabile delle Nazioni Unite, scrive di recente che «c’è uno spirito crescente di cittadinanza ambientalista globale, un desiderio di parlare del cambiamento climatico come di una questione che preoccupa l’umanità intera»[2], bisogna dare il giusto peso ai termini «cittadinanza globale» e «preoccupazione comune» – essi sembrano, infatti, esprimere la necessità di istituire un’organizzazione politica globale e di dar vita a un impegno che, neutralizzando e incanalando i meccanismi di mercato, sia espressione di una prospettiva propriamente comunista.
Il riferimento al «comune» ci permette di far resuscitare la nozione di comunismo, perché ci fa vedere che la progressiva «recinzione» del comune è un processo di proletarizzazione di coloro che, subendola, sono esclusi dalla loro stessa sostanza. L’odierna situazione storica non solo non ci costringe ad abbandonare la nozione di proletariato o di posizione proletaria – ma, al contrario, ci impone di radicalizzarla a un livello esistenziale che va ben oltre l’immaginazione di Marx. Abbiamo bisogno di una nozione più radicale del soggetto proletario, un soggetto che rischia di essere ridotto al punto evanescente del cogito cartesiano, privato del suo contenuto sostanziale.
Per questa ragione, la nuova politica di emancipazione non sarà più l’atto di un particolare agente sociale, ma una combinazione esplosiva di agenti differenti. Ciò che ci unisce è che, a differenza della classica immagine dei proletari che non hanno «nulla da perdere se non le loro catene», noi rischiamo di perdere tutto: il pericolo è di essere ridotti a un soggetto cartesiano vuoto e astratto, privati di ogni contenuto sostanziale, spossessati della nostra sostanza simbolica, con la nostra base genetica pesantemente manipolata, costretti a vegetare in un ambiente invivibile. Questa triplice minaccia al nostro intero essere ci rende tutti proletari allo stesso modo, ridotti a una «soggettività senza sostanza», come Marx scrive nei Grundrisse. La figura dei «parte senza-parte» ci mette di fronte alla verità della nostra posizione, e la sfida etico-politica sta nel riconoscerci in questa figura – perché, in un certo senso, siamo tutti esclusi, tanto dalla natura quanto dalla nostra sostanza simbolica. Oggi, tutti siamo, potenzialmente, un homo sacer e l’unico modo per difenderci dal diventarlo davvero è agire preventivamente.
Questa proletarizzazione da sola, comunque, non è sufficiente se vogliamo essere considerati comunisti. La continua recinzione del comune concerne tanto i rapporti del popolo con le condizioni oggettive del loro processo vitale quanto i rapporti tra persone: i «commons» sono privatizzati a discapito della maggioranza proletarizzata. Nondimeno, c’è uno scarto tra questi due aspetti – il comune potrebbe essere restituito all’umanità intera anche senza comunismo, per esempio in un regime comunitario e autoritario; il soggetto de-sostanzializzato, «sradicato», privato del suo contenuto sostanziale, potrebbe essere neutralizzato anche attraverso il comunitarismo, e trovare così il suo posto in una nuova comunità sostanziale. In questo senso preciso, Negri era nel giusto col suo titolo anti-socialista Goodbye Mr. Socialism: il comunismo deve opporsi al socialismo che, in luogo di un collettivo ugualitario, offre una comunità solidale e organica – il Nazismo fu un nazional-so-cialismo, non un nazional-comunismo. Ci può essere un anti-semitismo socialista, ma non ce ne può essere uno comunista (le cose, a volte, sembra non stiano così, come dimostrano gli ultimi anni di Stalin, ma ciò è solo l’indicatore della mancanza di fedeltà all’evento rivoluzionario). Eric Hobsbawm ha pubblicato di recente un editoriale dal titolo: «Il socialismo ha fallito, il capitalismo è in bancarotta. Cosa viene dopo?» La risposta è: il comunismo. Il socialismo vuol risolvere il primo dei tre antagonismi senza il quarto, senza l’universalità singolare del proletariato. L’unico modo per il sistema capitalistico globale di sopravvivere al suo antagonismo di lungo termine ed evitare, simultaneamente, la soluzione comunista, sarà quello di reinventare qualche tipo di socialismo – sottoforma di comunitarismo, di populismo, di capitalismo asiatico o di qualcos’altro. Il futuro sarà comunista... o socialista.
Questo è il motivo per cui dovremo insistere sulla differenza qualitativa tra l’ultimo antagonismo (il quarto), cioè lo scarto che separa gli Esclusi dagli Inclusi, e gli altri tre: è solo il riferimento agli Esclusi che giustifica il termine comunismo. Non c’è nulla di più «privato» di uno Stato-comunità che considera gli Esclusi una minaccia e che si preoccupa di tenerli a debita distanza. In altre parole, l’antagonismo tra Inclusi ed Esclusi è, tra i quattro, quello cruciale: senza di esso, tutti gli altri perdono il loro potenziale sovversivo. L’ecologia si trasforma in un problema di sviluppo sostenibile, la proprietà intellettuale in una complessa sfida giuridica, la biogenetica in una questione etica. Si può combattere con onestà per tutelare l’ambiente, per difendere una nozione più ampia di proprietà intellettuale, per opporsi alla privatizzazione del codice genetico, e lo si può fare anche senza affrontare l’antagonismo tra Inclusi ed Esclusi. Ma c’è di più: alcune di queste lotte si possono esprimere anche in modo tale che gli Inclusi risultano minacciati dagli Esclusi che, per esempio, inquinano. In questo modo, non abbiamo alcuna vera universalità, ma solo preoccupazioni «private» nel senso kantiano del termine. Multinazionali come Whole Foods e Starbucks continuano a ricevere consensi tra i progressisti, nonostante i loro comportamenti antisindacali; l’imbroglio sta nel fatto che vendono prodotti che sembrano progressisti: si compra caffè fatto con chicchi comprati rispettando i prezzi del mercato equo e solidale, si guida un veicolo ibrido, si compra da compagnie che offrono una buona assistenza al loro staff e ai loro clienti (secondo gli standard delle stesse multinazionali) ecc. In breve, senza l’antagonismo tra Inclusi ed Esclusi, potremmo trovarci in un mondo in cui Bill Gates è il più grande dei filantropi, in lotta contro povertà e malattie, e Rupert Murdoch il più grande degli ambientalisti, capace di mobilitare centinaia di milioni di persone grazie al suo impero mediatico.
Per queste ragioni, è cruciale insistere sull’Idea comunista, emancipatrice e ugualitaria, e insistervi nel preciso senso marxiano: ci sono gruppi sociali che, non avendo un posto determinato nell’ordine «privato» della gerarchia sociale, rappresentano direttamente l’universalità; sono coloro che Rancière chiama «la parte dei senza-parte» del corpo sociale. Ogni politica davvero emancipatrice è generata dal corto circuito tra l’universalità dell’«uso pubblico della ragione» e l’universalità della «parte dei senza-parte» – questo era già il sogno comunista del giovane Marx: congiungere l’universalità della filosofia e l’universalità del proletariato. Dall’antica Grecia, abbiamo un nome per indicare l’intrusione degli Esclusi nello spazio politico e sociale: democrazia. La nostra domanda, oggi, è: la democrazia è ancora un nome appropriato per questa esplosione ugualitaria? Ci sono due estremi: da un lato, il rifiuto superficiale della democrazia in quanto mera forma illusoria della comparsa del suo opposto (la dominazione di classe) e, dall’altro, la rivendicazione che la democrazia che abbiamo, la democrazia realmente esistente, è una distorsione della democrazia vera – sulla falsariga della famosa risposta di Gandhi al giornalista britannico che gli chiedeva cosa pensasse della civiltà occidentale: «Penso che sarebbe una buona idea». Il dibattito che si muove tra questi due estremi mi sembra un po’ troppo astratto e, dunque, bisognerebbe introdurre, come criterio per una risposta più corretta, la questione di come la democrazia si rapporti alla dimensione universale incarnata dagli Esclusi.
Qui, comunque, incontriamo un problema ricorrente: il passaggio dai giacobini a Napoleone, dalla Rivoluzione d’ottobre a Stalin, dalla Rivoluzione culturale di Mao al capitalismo di Deng Xiaoping. Come dobbiamo leggere questo passaggio? La seconda fase (Termidoro) della rivoluzione è la «verità» della prima fase rivoluzionaria (come talvolta Marx sembra affermare)? O si tratta solo del fatto che la serie degli eventi rivoluzionari si è esaurita? Focalizziamoci brevemente sulla Rivoluzione culturale, che possiamo leggere a due livelli diversi. Se la leggiamo come parte di una realtà storica (esistenza), allora la si può facilmente sottoporre a un’analisi «dialettica», che concepisce il risultato finale di un processo storico come la sua «verità»: il fallimento definitivo della Rivoluzione culturale testimonia l’interna inconsistenza dell’autentico progetto («nozione») della Rivoluzione culturale, perché è l’attualizzazione, lo sviluppo e l’esplicazione delle sue inconsistenze (così come, per Marx, la volgare e per nulla eroica vita quotidiana del capitalista in cerca di profitto è la «verità» dell’eroismo rivoluzionario dei giacobini).
Se, invece, l’analizziamo come un Evento, come un’attuazione dell’Idea eterna della Giustizia ugualitaria, allora, il risultato definitivo, fattuale, della Rivoluzione culturale, il suo fallimento catastrofico e il suo capovolgimento nella recente esplosione capitalistica, non esaurisce il reale della Rivoluzione culturale: l’eterna Idea della Rivoluzione culturale sopravvive alle sue sconfitte in una realtà storica e sociale, e continua a guidare la vita spettrale e sotterranea dei fantasmi delle utopie fallite, fantasmi che ossessionano le generazioni future e aspettano pazientemente la loro prossima resurrezione. [...]
Oggi più che mai si dovrebbe insistere su ciò che Badiou chiama l’Idea «eterna» del comunismo o anche le «invarianti» comuniste – i «quattro fondamentali concetti» al lavoro da Platone in poi attraverso le rivolte millenaristiche medioevali fino al giacobinismo, al leninismo e al maoismo: una giustizia fermamente ugualitaria, un terrore capace di disciplinare, un volontarismo politico e la fiducia nel popolo. Questa matrice non è «sostituita» da nessuna nuova dinamica postmoderna, postindustriale o post-qualunque-altra-cosa vogliate. Comunque, fino a ora, fino al presente momento storico, quest’Idea eterna funziona precisamente come un’Idea platonica che perdura, ritornando ripetutamente dopo ogni sconfitta. Ciò che sta mancando – per dirla in termini filosofici – è il legame privilegiato dell’Idea con un singolare momento storico (allo stesso modo che, nel cristianesimo, l’intero edificio eterno e divino si erge e cade con l’evento contingente della nascita e della morte di Cristo)».
Note:
[1] Citato da «Time», 24 dicembre 2007, p. 2.
[2] Ibidem.
* Questo testo è stato estratto dall'intervento pronunciato in occasione di una conferenza tenutasi a Londra nel maggio 2009 al Birbeck Institute, per iniziativa di Alain Badiou e Slavoj Žižek, dal titolo On the idea of Communism. Gli atti di questo incontro, che hanno visto la partecipazione di alcuni dei principali filosofi contemporanei, sono stati raccolti in un libro che ha visto la pubblicazione in Francia, Spagna e Inghilterra. In Italia, con il titolo L’idea di comunismo, lo stesso libro sarà disponibile nel mese di aprile nel catalogo delle edizioni DeriveApprodi. Segnaliamo che il testo qui riportato non rappresenta la versione integrale dell'intervento.
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