Il petrolio non è solo una indispensabile materia prima per il Capitale, ma uno dei fondamentali asset finanziari |
di Antonio Dai Pra*
«L’incertezza sulla reale carenza di petrolio a livello internazionale è giustificata non solo dalla crescente domanda delle economie asiatiche, ma anche dalla funzione dell’“oro nero” come grande asset finanziario – e non solo carburante. Il sempre maggiore interesse dei fondi d’investimento per il petrolio ne ha aumentato esponenzialmente la speculazione, causando una notevole volatilità nel prezzo del greggio e rallentando gli investimenti in nuovi siti di estrazione. La ricerca di nuovi pozzi, la manutenzione degli esistenti e lo sviluppo di nuove infrastrutture di trasporto richiedono infatti elevati capitali d’investimento».
Le rivolte nel mondo arabo e la crisi libica hanno spaventato i mercati mondiali, causando un repentino aumento del prezzo del petrolio. La decisione di ENI e Repsol, i due gruppi petroliferi più attivi in Libia, di fermare in parte le loro attività di estrazione nel paese, e i continui episodi di instabilità nel resto della regione, hanno confermato i timori degli investitori e spinto agli attuali rincari.
L’attuale prezzo oltre i 110 dollari risulta essere superiore di un quinto rispetto alle aspettative degli esperti. Tale situazione è per certi versi paragonabile a quella della prima guerra del Golfo nel 1991 o alla rivoluzione islamica in Iran nel 1979, ma con una differenza sostanziale: sia Iraq che Iran erano (e sono tuttora) fra i maggiori produttori mondiali di petrolio, mentre la Libia ha una quota della produzione mondiale di poco inferiore al 2%. In ogni caso, oggi come allora l’Arabia Saudita ha dato la propria disponibilità ad aumentare la produzione di greggio per stabilizzarne il prezzo sui mercati. Tale mossa è giustificata soprattutto dal timore che nel medio termine le industrie che fanno grande consumo di petrolio sviluppino tecnologie più efficienti, finendo per ridurre globalmente la domanda di greggio.
Nonostante la disponibilità saudita, gli investitori non sembrano particolarmente convinti, e il prezzo del petrolio ha infatti continuato a crescere nelle ultime settimane. Il problema è che gli analisti intravedono la possibilità di un’estensione del contagio delle rivolte proprio alla stessa Arabia Saudita. È precisamente per scongiurare questa eventualità che Riad ha deciso di investire oltre trenta miliardi di dollari per rilanciare la propria economia.
Anche a prescindere da possibili proteste nel breve termine, l’Arabia Saudita non potrà comunque mantenere una produzione così elevata a tempo indefinito. Infatti, la necessità di soddisfare la propria crescente domanda interna obbligherà molto probabilmente Riad a ridurre le esportazioni per sostenere lo sviluppo dell’industria petrolchimica. Se fra il 2005 e il 2009 la popolazione saudita ha consumato in media circa 2,3 milioni di barili al giorno, permettendo al paese di esportare 8,3 milioni, la rapida crescita della domanda interna ha portato la compagnia nazionale petrolifera Aramco a prevedere che nel 2028 i consumi domestici si attesteranno oltre gli 8 milioni di barili al giorno.
Intanto, nè l’Iraq – la cui principale raffineria è stata colpita da un attacco terroristico il 21 febbraio – nè l’Iran – stante il suo persistente isolamento politico internazionale – sembrano in grado di poter aumentare in misura massiccia la loro produzione negli anni a venire.
I mancati investimenti in nuovi pozzi, la scarsità di tecnologia e l’instabilità politica in Algeria, associata al montante fermento delle masse popolari nel Golfo, fanno prevedere che difficilmente in queste aree si avrà un aumento considerevole della produzione di greggio nei possimi mesi. I maggiori gruppi stranieri saranno restii ad investire a fronte dell’elevata incertezza politica.
Non considerando le riserve saudite, a livello mondiale si stima che vi siano siti di estrazione inesplorati in grado di garantire sei milioni di barili al giorno in aggiunta alla produzione attuale – un quantitavito decisamente elevato se lo si paragona ai dati del passato.
L’incertezza sulla reale carenza di petrolio a livello internazionale è giustificata non solo dalla crescente domanda delle economie asiatiche, ma anche dalla funzione dell’“oro nero” come grande asset finanziario – e non solo carburante. Il sempre maggiore interesse dei fondi d’investimento per il petrolio ne ha aumentato esponenzialmente la speculazione, causando una notevole volatilità nel prezzo del greggio e rallentando gli investimenti in nuovi siti di estrazione. La ricerca di nuovi pozzi, la manutenzione degli esistenti e lo sviluppo di nuove infrastrutture di trasporto richiedono infatti elevati capitali d’investimento.
Ne consegue che nessun gruppo energetico intende finanziare tali operazioni senza avere la certezza che il prezzo del greggio resti a livelli tali da permettere un rientro degli investimenti in un lasso temporale accettabile. Questo problema è chiaramente visibile in Europa: la corsa allo sviluppo dei gasdotti che dovrebbero collegare l’Unione Europa con l’Asia centrale si è bloccata nel corso degli ultimi due anni a causa del crollo nel prezzo del petrolio e conseguentemente di quello del gas (essendo questo indicizzato al prezzo del greggio).
Intanto, l’industria petrolifera mondiale paga ancora i mancati investimenti che dovevano essere operati negli anni Ottanta e Novanta. Allora, un prezzo medio del barile inferiore ai trenta dollari indusse I gruppi energetici a non investire in nuovi giacimenti, cercando soltanto di coprire la domanda momentanea. Con il boom economico delle economie asiatiche emergenti, di colpo i gruppi energetici si sono trovati a dover recuperare il tempo perso, investendo rapidamente nello sviluppo di nuovi siti e infrastrutture di trasporto per il petrolio. La combinazione tra l’esplosione nella domanda e i mancati investimenti hanno così portato il prezzo del petrolio oltre i centocinquanta dollari al barile.
Su questo sfondo, la regione mediorientale resterà sempre centrale negli anni a venire, grazie a riserve di petrolio stimate in circa due terzi di quelle rimanenti a livello globale. Il dipartimento dell’energia americano calcola infatti che Medio Oriente e Nord Africa saranno in grado di soddisfare il 43% della domanda mondiale di petrolio nel 2035 contro il 37% del 2007.
Un altro punto da tenere in considerazione è il possibile revival del “nazionalismo petrolifero” in Medio Oriente. Circa il 75% delle risorse presenti nella regione sono gestite dai gruppi energetici statali, i quali operano sovente secondo logiche politiche piuttosto che di mercato. Questo aspetto è da sempre un’incognita per l’industria mondiale, che oltre a non poter disporre di dati ufficiali circa il valore reale delle riserve nella regione, è costantemente soggetta alle problematiche politiche che affliggono l’area.
Come è ben noto da tempo, sono dunque molte, e molto valide, le ragioni per sviluppare quanto prima tecnologie più efficienti per ridurre i livelli di consumo, e cambiare gradualmente il mix energetico.
Le rivolte nel mondo arabo e la crisi libica hanno spaventato i mercati mondiali, causando un repentino aumento del prezzo del petrolio. La decisione di ENI e Repsol, i due gruppi petroliferi più attivi in Libia, di fermare in parte le loro attività di estrazione nel paese, e i continui episodi di instabilità nel resto della regione, hanno confermato i timori degli investitori e spinto agli attuali rincari.
L’attuale prezzo oltre i 110 dollari risulta essere superiore di un quinto rispetto alle aspettative degli esperti. Tale situazione è per certi versi paragonabile a quella della prima guerra del Golfo nel 1991 o alla rivoluzione islamica in Iran nel 1979, ma con una differenza sostanziale: sia Iraq che Iran erano (e sono tuttora) fra i maggiori produttori mondiali di petrolio, mentre la Libia ha una quota della produzione mondiale di poco inferiore al 2%. In ogni caso, oggi come allora l’Arabia Saudita ha dato la propria disponibilità ad aumentare la produzione di greggio per stabilizzarne il prezzo sui mercati. Tale mossa è giustificata soprattutto dal timore che nel medio termine le industrie che fanno grande consumo di petrolio sviluppino tecnologie più efficienti, finendo per ridurre globalmente la domanda di greggio.
Nonostante la disponibilità saudita, gli investitori non sembrano particolarmente convinti, e il prezzo del petrolio ha infatti continuato a crescere nelle ultime settimane. Il problema è che gli analisti intravedono la possibilità di un’estensione del contagio delle rivolte proprio alla stessa Arabia Saudita. È precisamente per scongiurare questa eventualità che Riad ha deciso di investire oltre trenta miliardi di dollari per rilanciare la propria economia.
Anche a prescindere da possibili proteste nel breve termine, l’Arabia Saudita non potrà comunque mantenere una produzione così elevata a tempo indefinito. Infatti, la necessità di soddisfare la propria crescente domanda interna obbligherà molto probabilmente Riad a ridurre le esportazioni per sostenere lo sviluppo dell’industria petrolchimica. Se fra il 2005 e il 2009 la popolazione saudita ha consumato in media circa 2,3 milioni di barili al giorno, permettendo al paese di esportare 8,3 milioni, la rapida crescita della domanda interna ha portato la compagnia nazionale petrolifera Aramco a prevedere che nel 2028 i consumi domestici si attesteranno oltre gli 8 milioni di barili al giorno.
Intanto, nè l’Iraq – la cui principale raffineria è stata colpita da un attacco terroristico il 21 febbraio – nè l’Iran – stante il suo persistente isolamento politico internazionale – sembrano in grado di poter aumentare in misura massiccia la loro produzione negli anni a venire.
I mancati investimenti in nuovi pozzi, la scarsità di tecnologia e l’instabilità politica in Algeria, associata al montante fermento delle masse popolari nel Golfo, fanno prevedere che difficilmente in queste aree si avrà un aumento considerevole della produzione di greggio nei possimi mesi. I maggiori gruppi stranieri saranno restii ad investire a fronte dell’elevata incertezza politica.
Non considerando le riserve saudite, a livello mondiale si stima che vi siano siti di estrazione inesplorati in grado di garantire sei milioni di barili al giorno in aggiunta alla produzione attuale – un quantitavito decisamente elevato se lo si paragona ai dati del passato.
L’incertezza sulla reale carenza di petrolio a livello internazionale è giustificata non solo dalla crescente domanda delle economie asiatiche, ma anche dalla funzione dell’“oro nero” come grande asset finanziario – e non solo carburante. Il sempre maggiore interesse dei fondi d’investimento per il petrolio ne ha aumentato esponenzialmente la speculazione, causando una notevole volatilità nel prezzo del greggio e rallentando gli investimenti in nuovi siti di estrazione. La ricerca di nuovi pozzi, la manutenzione degli esistenti e lo sviluppo di nuove infrastrutture di trasporto richiedono infatti elevati capitali d’investimento.
Ne consegue che nessun gruppo energetico intende finanziare tali operazioni senza avere la certezza che il prezzo del greggio resti a livelli tali da permettere un rientro degli investimenti in un lasso temporale accettabile. Questo problema è chiaramente visibile in Europa: la corsa allo sviluppo dei gasdotti che dovrebbero collegare l’Unione Europa con l’Asia centrale si è bloccata nel corso degli ultimi due anni a causa del crollo nel prezzo del petrolio e conseguentemente di quello del gas (essendo questo indicizzato al prezzo del greggio).
Intanto, l’industria petrolifera mondiale paga ancora i mancati investimenti che dovevano essere operati negli anni Ottanta e Novanta. Allora, un prezzo medio del barile inferiore ai trenta dollari indusse I gruppi energetici a non investire in nuovi giacimenti, cercando soltanto di coprire la domanda momentanea. Con il boom economico delle economie asiatiche emergenti, di colpo i gruppi energetici si sono trovati a dover recuperare il tempo perso, investendo rapidamente nello sviluppo di nuovi siti e infrastrutture di trasporto per il petrolio. La combinazione tra l’esplosione nella domanda e i mancati investimenti hanno così portato il prezzo del petrolio oltre i centocinquanta dollari al barile.
Su questo sfondo, la regione mediorientale resterà sempre centrale negli anni a venire, grazie a riserve di petrolio stimate in circa due terzi di quelle rimanenti a livello globale. Il dipartimento dell’energia americano calcola infatti che Medio Oriente e Nord Africa saranno in grado di soddisfare il 43% della domanda mondiale di petrolio nel 2035 contro il 37% del 2007.
Un altro punto da tenere in considerazione è il possibile revival del “nazionalismo petrolifero” in Medio Oriente. Circa il 75% delle risorse presenti nella regione sono gestite dai gruppi energetici statali, i quali operano sovente secondo logiche politiche piuttosto che di mercato. Questo aspetto è da sempre un’incognita per l’industria mondiale, che oltre a non poter disporre di dati ufficiali circa il valore reale delle riserve nella regione, è costantemente soggetta alle problematiche politiche che affliggono l’area.
Come è ben noto da tempo, sono dunque molte, e molto valide, le ragioni per sviluppare quanto prima tecnologie più efficienti per ridurre i livelli di consumo, e cambiare gradualmente il mix energetico.
Fonte: Aspen Institute
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