Serge Latouche |
«In difesa del marxismo»
in risposta a Latouche, Badiale e Bontempelli
di Domenico Moro*
Condivisibili molte delle critiche ai teorici della Decrescita. Purtroppo esse vengono svolte nel quadro di una difesa formale di un "marxismo ortodosso" il quale, alla luce dell'evoluzione storica, ha mostrato sostanziali aporie.
La crescita è così diventata il “cancro dell’umanità”. I teorici della decrescita non si limitano, dunque, a raccomandare maggiore attenzione al risparmio energetico, e ad eliminare sprechi e consumi inutili. I decrescisti propongono una visione complessiva della società, la “società della decrescita”, in alternativa non solo alla società attuale, ma anche alla prospettiva di una società socialista e al marxismo. Il fatto è che tale società della decrescita non solo non risolve il problemi che dovrebbe risolvere, essendo del tutto campata per aria, ma, mistificando le ragioni della presente crisi epocale, risulta addirittura funzionale alla conservazione dell’attuale assetto sociale. Dal momento che molti si fermano ad una conoscenza superficiale della teoria della decrescita, che sembra renderla sensata, è bene andare ai suoi fondamenti.
1. Pastorale decrescista, piccolo, agricolo e locale è bello
Il francese Serge Latouche, il più famoso e autorevole dei “decrescisti”, si produce in uno sforzo di definire l’ideale di società della decrescita. Un quadro invero idillico.
Il primo principio della decrescita è il recupero dei valori borghesi tradizionali, a partire dal ritorno al localismo o “rilocalizzazione”, in evidente opposizione alla globalizzazione. La società dovrebbe diventare una municipalità fatta di piccole municipalità autorganizzate in “bioregioni”, autonome dal punto di vista alimentare e successivamente economico e finanziario. Ci dovrà essere una restaurazione dell’economia contadina, con il ritorno all’agricoltura e all’orticoltura, che saranno la base dell’economia di ogni regione. La produzione sarà locale: “… produrre in massima parte a livello locale i prodotti necessari a soddisfare i bisogni della popolazione, in imprese locali finanziate dal risparmio collettivo raccolto localmente.”[2] Allo stesso modo, gli scambi dovranno essere limitati e locali:“… i movimenti di merci e di capitali devono essere limitati all’indispensabile”[3] e “bisognerà incoraggiare il commercio locale”[4]. Inoltre, “per mantenere il potere d’acquisto degli abitanti, i flussi monetari dovrebbero rimanere il più possibile nella regione e anche le decisioni economiche devono essere prese il più possibile al livello regionale.”[5] A questo punto a che serve una moneta nazionale? A nulla, infatti “bisogna pensare a inventare della monete bioregionali”[6], che sostituiscano le monete nazionali, eliminandone il monopolio statale.
Non vi ricorda niente tutto questo? Se a qualcuno ricorda «l’economia senza sbocchi»[7] del peggiore periodo medioevale, non si deve preoccupare, perché Latouche assicura che non sta proponendo l’autarchia, visto che si può (bontà sua!) commerciare con altre regioni, purché, beninteso, “abbiano fatto la stessa scelta [decrescista]”[8]. Non solo, si costituirà anche “una Organizzazione mondiale della localizzazione, il cui slogan deve essere «proteggere il locale globalmente»"[9].
Il secondo concetto su cui si dovrà basare la società della decrescita è quello di limitazione del consumo. Latouche se la prende in primis con il consumo turistico, l’emblema dello spreco. Citando Revel, il nostro rimpiange il bel tempo antico, quando sapevi quando partivi, ma non quando (e soprattutto se) ritornavi e quando “la maggior parte del tempo si rimaneva nello stesso posto, con i piedi ben piantati per terra. Un campanile al centro e l’orizzonte tutto intorno delimitano un territorio sufficiente per la vita di un uomo. (…) Non è necessario muoversi perché l’immaginazione spieghi le ali.”[10]. Tuttavia, poco male, eventualmente si può dare un aiutino tecnologico alla fantasia con la tecnologia, visto che si può “viaggiare virtualmente senza muoversi da casa”[11]. Quindi, per il futuro niente Ibiza o Rimini, al massimo un collegamento via internet. Subito dopo il nostro decrescista se la prende con le scarpe: “Innanzi tutto si tratta di stabilire se il benessere richiede necessariamente che si possiedano dieci paia di scarpe, spesso di cattiva qualità, piuttosto che due paia di buona qualità.” Ma chi e come risolverà il dilemma di decidere quante paia di scarpe a persona sono il giusto? Sarà la comunità stessa: “Io rispondo che i bisogni potrebbero essere stabiliti dall’insieme della comunità, la municipalità. Un’assemblea può dire: «due paia di scarpe bastano. Non avete bisogno di dieci paia».”[12]
Dopo la via assembleare al socialismo, ecco qui la via assembleare alla riduzione dei bisogni. Pensiamo a un’assemblea che, facciamo per dire, a Prato o a Canicattì decida non solo quante scarpe ma quanto di tutte le migliaia di prodotti di cui oggi disponiamo siano il giusto per ogni singolo e che soprattutto decida su quali bisogni siano giusti e quali no. Esilarante! Qualche dubbio sulla fattibilità della proposta si affaccia anche alla mente del genio decrescista, che si chiede “Bisogna arrivare al razionamento?”[13] E rammenta il caso di “un paese democratico, Il Regno Unito, che in condizioni d’emergenza è stato in grado di accettare un programma di lacrime e sangue.”[14] Una prospettiva democratica davvero…
Il terzo concetto su cui si basa la società della decrescita è quello di riduzione della durata del tempo di lavoro. Qui Latouche fa un po’ di confusione. In un punto dice che tutti gli aumenti di produttività devono essere convertiti in riduzioni del tempo di lavoro. Il che è logico. Tuttavia, il decrescista si rende conto che il modello di società che auspica, fondato su produzione e scambio su basi ristrette e sulla riduzione drastica dei consumi, implica la riduzione della produttività, allungando il tempo di lavoro medio necessario alla realizzazione dei prodotti.[15] Allora come arrivare alla riduzione del tempo di lavoro? È semplice, disintossicandosi “dalla dipendenza da lavoro”[16], prendendo la strada dell’autoproduzione, cosa che “alcuni sono già riusciti a realizzare individualmente”. In definitiva, “lavorare meno e diversamente può voler dire ritrovare il gusto del tempo libero, recuperare l’abbondanza perduta delle società di raccoglitori-cacciatori …”[17] Se prima il modello era l’economia feudale ora, decrescendo decrescendo, siamo arrivati al neolitico, dove come ognun sa i nostri progenitori sguazzavano nell’abbondanza. Ma lavorare meno non basta, bisogna anche poter cambiare attività a seconda dei periodi della congiuntura o della vita personale. Quanto a questo, siamo informati con sollievo da Latouche che, grazie alle agenzie interinali, siamo sulla buona strada: “«Anche se attualmente esiste un atteggiamento comprensibilmente ostile dei sindacati nei confronti delle agenzie interinali, che sono invece popolari sia presso gli imprenditori sia presso molti lavoratori – nel caso di questi ultimi proprio per la diversità dei lavori che propongono – queste agenzie sono un passo nella direzione giusta.»Basterebbe solo concepirle in modo diverso”.[18] I precari non hanno di che lamentarsi.
Dopo aver delineato l’ideale società dell’avvenire, Latouche si chiede: la decrescita è facile o difficile da attuare, è riformista o rivoluzionaria? Di destra o di sinistra? Anche qui la confusione regna sovrana. Prima il nostro riconosce che “tutti i governi sono funzionari del capitale”[19] e che – citando ad esempio la vicenda di Allende – “l’uomo politico che cominciasse ad applicarlo [il programma decrescista], sarebbe assassinato nel giro di una settimana.”[20], visto che “spingendo alle estreme conseguenze queste misure un gran numero di attività non sarebbero più redditizie: il sistema si bloccherebbe. Si realizzerebbe così una vera e propria rivoluzione”.[21] Poi sostiene che “il passaggio può avvenire in modo indolore: l’importante è non transigere sugli obiettivi” e che, sebbene ci siano poche possibilità di mettere in pratica il programma decrescista senza un sovvertimento dell’esistente, si può operare per una “transizione dolce con misure molto progressive finalizzate alle riduzioni necessarie.”[22]
Del resto, le misure riformiste della decrescita “in linea di principio sono compatibili con la teoria economica ortodossa: l’economista liberista Cecil Pigou ne ha enunciato i fondamenti già all’inizio del XX secolo!”[23] Successivamente, con profonda saggezza, riconosce che compito del politico è la ricerca del male minore e “contenere il male all’interno dell’orizzonte del bene comune”. Latouche è – come Veltroni – un teorico del “ma anche”. La decrescita è difficile ma anche facile ad attuarsi, rivoluzionaria ma anche riformista, visto che la decrescita è compatibile con l’economia liberista. Allo stesso modo è ambigua la posizione sulla distinzione destra-sinistra, che colloca la teoria della decrescita all’interno di quel filone di pensiero che tende a superarne la distinzione. Sebbene Latouche dichiari che il buon decrescista preferisce la Royal a Sarkozy, Prodi a Berlusconi, Schröder alla Merkel e Blair alla Thatcher, riconosce che “la critica radicale della destra alla modernità si è spinta più avanti a destra che a sinistra”. Su questo non c’è dubbio, visto che il pensiero di estrema destra (e fascista) da deMaistre in poi ha attaccato la modernità, a partire da quell’obbrobrio modernista che è stata, a partire dalla Rivoluzione francese, la democrazia di massa. La decrescita, per l’appunto, “è un «superamento, se possibile senza eccessivi traumi, della modernità”.[24] Al contrario, il difetto della sinistra estrema e del marxismo in particolare, secondo i decrescisti, sarebbe di aver accettato la modernità.
2. La decrescita, teoria regressiva e mistificante
La teoria della decrescita è un guazzabuglio contraddittorio che, se preso sul serio, propugnerebbe una regressione della società a livelli primitivi. Regressioni di questi livelli sono avvenute nella storia solo in occasione di grandi stravolgimenti traumatici, come nel caso della caduta dell’Impero romano d’Occidente. Pensiamo, infatti, che lo sviluppo della società è legato allo sviluppo della divisione del lavoro, che implica la creazione di branche di produzione differenziate in rapporto tra di loro, e l’ampliamento del commercio tra paesi diversi. Ciò ha permesso la riduzione del tempo necessario alla produzione dei beni che consumiamo (non solo quelli superflui ma anche quelli necessari) e quindi la loro maggiore disponibilità, grazie alla quale milioni di individui sono usciti dalla povertà e hanno ampliato i loro bisogni al di là della semplice sussistenza. Un’economia sostanzialmente agricola e locale, basata sull’autosufficienza, e con scambi limitati al suo interno non produrrebbe una società che consuma di meno, determinerebbe soprattutto il collasso demografico e sociale. Come potrebbero centinaia di milioni di europei accettare la riduzione non solo del consumo ma addirittura dei bisogni come prospettato da Latouche?
Qui, c’è addirittura una confusione tra consumo e bisogno. Il nutrirsi è un bisogno, soddisfare tale bisogno attraverso un piatto di pasta al sugo o ingozzandosi di hot dog ipercalorici è consumo. Pensare di comprimere l’universalità dei bisogni vuol dire comprimere lo sviluppo degli individui per come si è storicamente evoluto. Più che di un’utopia, siamo in presenza di un pensiero antistorico e regressivo. E niente affatto nuovo se guardiamo al “socialismo reazionario”, ideologia della piccola borghesia, così definito da Marx nel 1848: “Tuttavia, quanto al suo contenuto positivo, questo socialismo o vuole restaurare gli antichi mezzi di produzione e di traffico, e con essi i vecchi rapporti di proprietà e la vecchia società, o vuole rinchiudere di nuovo, con la forza, entro i limiti degli antichi rapporti di proprietà i mezzi moderni di produzione e di traffico, che li han fatti saltare in aria, che non potevano non farli saltare per aria. In entrambi i casi esso è insieme reazionario e utopistico. Corporazioni nella manifattura e economia patriarcale nelle campagne: ecco la sua ultima parola”.[25]
Perché allora il successo trasversale della teoria della decrescita e quali interessi rappresenta più o meno dichiaratamente? Dal punto di vista ideologico, la teoria decrescista si inserisce in quella parte del filone ecologista, affermatosi negli ultimi trenta anni in Europa occidentale, che alla centralità del rapporto/sfruttamento dell’uomo sull’uomo sostituisce quella del rapporto/sfruttamento dell’uomo sulla natura. Dal punto di vista sociale, la teoria decrescista rappresenta idealmente sia settori di piccola borghesia intellettuale sia settori di piccola e media proprietà capitalistica e di lavoro autonomo messi in difficoltà dalle trasformazioni dell’economia capitalistica degli ultimi lustri. L’insistenza da parte di Latouche sul piccolo commercio distrutto dalla grande distribuzione, sulla piccola produzione e soprattutto sulla agricoltura locale – ricordiamo la forza politica degli agricoltori in Francia –, messe in difficoltà dalla globalizzazione, è significativa.
Nello stesso tempo la teoria decrescita è innocua se non addirittura funzionale al capitale. In primo luogo, la rivendicazione della necessità della riduzione dei consumi risulta a dir poco curiosa in un periodo storico in cui settori sempre più larghi di classe salariata dei paesi cosiddetti ricchi stanno già subendo da almeno vent’anni una decrescita dei loro consumi, dovuta alla riduzione del salario reale, per la perdita di potere negoziale nei confronti del capitale.[26] Una decrescita questa tutt’altro che spontanea, ma determinata dal meccanismo di funzionamento del capitale e dall’attacco al salario condotto dalle imprese. Con la crisi è piovuto sul bagnato. Secondo l’Istat i poveri in Italia nel 2009 erano 7,8 milioni, pari al 13,1% dell’intera popolazione.[27] Secondo Eurostat 81 milioni di europei (17% del totale Ue a 27) nel 2008 erano al di sotto della soglia minima di povertà, in Spagna il 19,6% della popolazione, nel Regno Unito il 18,8%, in Italia il 18,7%, in Germania il 15,2%, in Francia il 13,1%. A questi si aggiungono 42 milioni di europei (4%) che non sono in grado di pagare le bollette dei servizi essenziali.
Le prospettive future, specie per le prossime generazioni sono pessime, visto che per la prima volta da almeno un secolo a questa parte il progresso generazionale si è interrotto, e i figli saranno più poveri dei genitori. Con la novità che oggi non si è poveri soltanto se non si ha lavoro, si è poveri spesso anche se lo si ha. Un dato di fatto che i giovani scesi in piazza a Roma, Londra, Parigi e Atene hanno ben chiaro. Le parole di Napolitano, rivolte l’ultimo dell’anno proprio ai giovani, appaiono un mesto invito a rassegnarsi a una inevitabile decrescita dei consumi, o, più precisamente, della soddisfazione dei bisogni: “Il sogno di un continuo progredire del benessere, ai ritmi e ai modi del passato è per noi occidentali non più possibile”. La “decrescita” è dunque già in atto nei paesi avanzati, Europa Occidentale in primis, che da un decennio o crescono lentamente o decrescono. Il punto è che i profitti continuano ad esserci e i ricchi sono sempre più ricchi, consumando sempre di più. Se questo accade è proprio perché il salario diretto (in busta paga) e indiretto (il welfare state) è ridotto a favore del profitto e la soddisfazione dei bisogni è impedita a milioni di salariati. Perché il prezzo della forza lavoro, il salario, viene compresso al di sotto del valore della forza lavoro stessa, cioè al di sotto dell’insieme dei prodotti che rientrano nei livelli di consumo standard del lavoratore.
Soltanto per poter mantenere il livello precedente bisogna lavorare più a lungo e più intensamente, sempre che il lavoro, con i tassi di disoccupazione che aumentano, ci sia. In un quadro siffatto la liberazione dal lavorismo e dall’eccesso di consumo dei decrescisti acquista il sapore amaro di una beffa. Dunque, il problema non è la crescita in astratto ma a favore di chi va questa crescita. Non è il quanto si produce ma il come e a quale scopo si produce ad essere centrale. L’errore decrescista sta alla base. Nel capitalismo la produzione di merci è subordinata alla produzione di profitto. Non la produzione di merci, ma la produzione e l’appropriazione privata di profitto è lo scopo e il motore di tutto il meccanismo. A dover essere messo sotto osservazione è, quindi, il modo di produzione, ovvero il modo in cui gli uomini entrano in rapporto tra di loro per garantire la propria riproduzione, dividendosi in due classi, una che produce un'eccedenza non retribuita, il plusvalore, e l’altra che si appropria di tale eccedenza.
È proprio su questo terreno che la teoria decrescista si rifiuta pervicacemente di andare. Coerentemente con la sua natura antistorica, la decrescita nega l’esistenza di un soggetto “agente” del capitale: “In realtà oggi dare un volto all’avversario è problematico, perché le realtà economiche come le imprese multinazionali, che detengono il vero potere, sono per natura nell’impossibilità di esercitare questo potere direttamente.”[28] E altrettanto nega l’esistenza di un soggetto che possa trasformare la realtà: “non è più necessaria una classe rivoluzionaria (…) la lotta di classe è finita, i lavoratori salariati non costituiscono (più) una classe rivoluzionaria”.[29]
Di conseguenza, il punto non è il capitalismo: “«uscire dal capitalismo» questa è una formula comoda per indicare un processo storico che è tutto tranne che semplice: l’eliminazione dei capitalisti, l’interdizione della proprietà privata dei mezzi di produzione (…) precipiterebbe la società nel caos e sarebbero realizzabili soltanto con un terrorismo generalizzato …”[30]. Se la teoria della decrescita nega che il capitalismo sia superabile, allo stesso tempo sostiene che il socialismo non è auspicabile: “capitalismo più o meno liberista e socialismo produttivista sono due varianti di uno stesso progetto di società della crescita, fondato sullo sviluppo delle forze produttive …”.[31] Marx si sarebbe occupato soltanto di predicare una diversa distribuzione dei frutti della crescita, e non ne avrebbe considerato i limiti ecologici: “Il marxismo si inserisce nella tradizione occidentale e cristiana di un rapporto non armonioso tra l’uomo e l’ambiente vivente e non vivente.”[32]
La solita e falsa critica di certi ecologisti, che basta una lettura seria de Il capitale per smentire: “… ogni progresso compiuto nell’agricoltura capitalistica equivale a un progresso non solo nell’arte di derubare l’operaio, ma anche in quella di spogliare la terra, ogni progresso che aumenta la sua fertilità in un certo lasso di tempo equivale a un progresso nella distruzione delle costanti sorgenti di tale fertilità.”[33] E ancora: “La grande industria e la grande agricoltura (…) più tardi si danno la mano, in quanto il sistema industriale nella campagna succhia l’energia anche degli operai e l’industria e il commercio, dal canto loro, procurano all’agricoltura i mezzi per depauperare la terra.”[34] Il socialismo non è considerato solo un modo per eliminare lo sfruttamento dell’uomo, ma anche per costruire un diverso ed equo rapporto dell’uomo con la natura.
Lo sviluppo dei bisogni umani è concepibile solo entro queste condizioni: “La libertà in questa sfera [lo sviluppo dei bisogni nel socialismo] può consistere solo in ciò che l’uomo socializzato, vale a dire i produttori associati, regolano in maniera razionale questo ricambio organico con la natura, lo controllano in comune invece di essere dominati come forza cieca; che essi svolgono la loro funzione con lo spreco quanto più basso di energia e nelle condizioni più adatte alla loro natura umana e ad essa più conformi.”[35] Il marxismo è la forma più conseguente di ecologismo, perché va alla radice comune dello sfruttamento dell’uomo e dell’ambiente, unificandone la critica e le modalità di superamento. Viceversa la teoria della decrescita appare funzionale al capitalismo nella misura in cui toglie il capitale dal centro della scena economico-sociale sostituendolo con la decrescita. Nella pratica la montagna decrescista produce il topolino delle “tecnologie della decrescita”, “una rivoluzione ed un salto culturale”, secondo Pallante, presidente del movimento della decrescita felice, sicuramente una felice occasione di nuovo profitto per le imprese.[36]
3. I decrescisti italiani e il “recupero” di Marx
L’Italia si è spesso dimostrata pronta nell’accogliere le buone idee d’oltralpe, e anche nel caso della decrescita c’è stato chi s’è dato da fare. Tra questi si sono distinti per l’originalità del loro contributo Massimo Bontempelli e Marino Badiale (d’ora in avanti B&B), il quale ultimo ha già avuto modo di dimostrare le sue alte capacità dialettiche dichiarando l’inattualità dell’antifascismo e la necessità di un dialogo tra le minoranze antisistema, tra comunisti e fascisti.[37] Creativi come solo noi italiani sappiamo essere, B&B non si sono certo limitati a prendere le teoria della decrescita così com’è, ma hanno pensato di effettuare una sintesi tra Marx e la decrescita, visto che: “coloro che seguono le teorie della decrescita hanno bisogno della decrescita, la decrescita ha bisogno di Marx.”[38] Per farlo i nostri si sono prodotti, più che in un recupero di Marx, in un impegno più arduo, la revisione dell’intero pensiero di Marx. Infatti, il loro lavoro più che teso alla diffusione delle idee decresciste, appare coraggiosamente concentrato nell’esercizio di alcune critiche, per la verità già note, al barbuto di Treviri e ai suoi amici e seguaci.
La prima è quella secondo cui il marxismo – come movimento ideologico e politico – sarebbe il prodotto di Engels più che di Marx, caratterizzandosi per una impostazione antidialettica, positivista e scientista. Ma anche con Marx non è che vada tutto liscio. Il suo pensiero viene diviso in tre parti: materialismo storico, teoria del modo di produzione capitalistico, e teoria della rivoluzione comunista.
Il materialismo storico è “una metafisica senza fondamento”. B&B da tempo (ma da quando? Boh!) hanno capito, grazie ad una lunga ricognizione storica, che non solo il proletariato ma nessuna classe sfruttata della storia ha potuto determinare il passaggio da un modo di produzione all’altro. Schiavi, contadini, servi della gleba al massimo hanno fatto delle belle ribellioni, ma niente di più. Per i moderni proletari è lo stesso. Il loro essere sfruttati implica la lotta economica ma non il superamento del modo di produzione. Tuttavia, niente paura. C’è ancora chi combatte per il superamento del capitalismo. Di chi si tratta? Si tratta delle “proteste popolari contro le grandi opere che devastano il territorio”, che per B&B sarebbero esempi di lotta contro lo sviluppo e per la decrescita. Purtroppo, ammettono B&B, nulla è perfetto e anche tra tali movimenti c’è chi si ostina a non avere una coscienza antisistema e “aderisce alla lotta per motivi puramente «locali»”, esprimendo quella che viene definita “sindrome Nimby” (not in my backyard). Ma a tutto c’è rimedio e “il compito di una forza politica anticapitalista sarebbe quello di collegare e coordinare tali lotte.” Del resto, “occorre distinguere, come sempre si è fatto nella tradizione marxista, tra potenziale oggettivo delle lotte e coscienza soggettiva dei protagonisti stessi”.
Ma perché quest’intervento politico e ideologico dall’esterno nelle lotte dovrebbe funzionare per chi lotta contro l’alta velocità o gli inceneritori e non per chi viene licenziato o sfruttato in fabbrica? Ecco qui che salta fuori la scoperta di B&B: il “capitalismo assoluto”, nel quale “tutte la sfere della società sono sussunte alla logica dell’accumulazione capitalistica”. Di conseguenza, tutte le lotte di cui sopra “hanno un contenuto oggettivamente anticapitalistico…mettono in discussione l’accumulazione del plusvalore e quindi la sostanza dell’accumulazione”. Al contrario delle lotte tradizionali dei lavoratori, “le resistenze alle quali facciamo riferimento tendono fin dal loro primo manifestarsi a contestare immediatamente lo sviluppo capitalistico.” Inoltre, “Le lotte anticapitalistiche del passato erano strettamente collegate ad una classe sociale. (…) Nelle resistenze capitalistiche attuali … Il soggetto antagonista … si costituisce in una prassi trasversale a diversi gruppi sociali … la resistenza capitalistica è oggi «resistenza umana»”.
Se il materialismo storico è una mistica, con la teoria della rivoluzione andiamo ancora peggio. “Si tratta di una irrealtà di cui non vale neanche la pena di discutere”, che solo “pochi sacerdoti del Vero Comunismo chiusi nelle loro sette” si ostinano a perseguire. In Occidente “la rivoluzione comunista non esiste come prospettiva reale da circa ottant’anni a questa parte”, tagliano corto B&B. Ma allora il PCI? “Partiti come il PCI, comunisti di nome, non avevano nulla a che fare con la prospettiva di rivoluzione comunista”. Ma se Atene piange Sparta non ride. Anche i riformisti socialdemocratici non devono illudersi. Una politica “riformista” centrata sui consumi popolari richiederebbe di spezzare un forte coagulo di forze. “Questo equivale a un grande sconvolgimento sociale”, per il quale “non sono disponibili forze sociali, (…) i lavoratori sono ricattati dalle delocalizzazioni, messi in concorrenza con la forza lavoro immigrata …”. Inoltre il modello riformista di una lotta per i consumi popolari “si basa sullo sviluppo” e questo va contro la decrescita …
Passiamo ora alla teoria del modo di produzione. Se c’è qualche sacerdote del Vero Comunismo che sta leggendo e che a questo punto pensi di rilassarsi, se lo scordi. Sebbene B&B abbiano assicurato che all’interno del pensiero di Marx “solo la teoria del modo di produzione capitalistico ha oggi una valenza”, non tutto va bene. Infatti, anche qui c’ha messo lo zampino quel briccone di Engels, che, avendo curato la pubblicazione del libro II e III del Capitale dopo la morte dell’amico, avrebbe “costruito” l’esposizione della teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto, a cui viene fatto risalire quella che sarebbe erroneamente la contraddizione fondamentale, quella tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione capitalistici. Interpreti del vero Marx, B&B ritengono viceversa che “il capitale non produce affatto la stagnazione dello sviluppo delle forze produttive, ma produce al contrario il loro sviluppo”, determinando di conseguenza un eccesso di produzione da cui deriva una scarsità di domanda, la quale produrrebbe le crisi di sovrapproduzione come quella del ‘29. Oggi però “esistono i mezzi che permettono di aggirare questo problema.” Quali? Il consumo crescente di merci, che determina la devastazione della natura, il cui sfruttamento è “condizione per la creazione del plusvalore”. Ecco perché le lotte contro la devastazione della natura e contro le grandi opere “rappresentano l’esplicitarsi della contraddizione fondamentale del capitalismo.” E soprattutto ecco perché “la decrescita rappresenta l’unica prospettiva odierna di lotta anticapitalistica nei paesi occidentali”. Una decrescita che si fondi sulla sviluppo della manutenzione del Paese, sull’estensione della piccola produzione indipendente, su una politica di estesi servizi pubblici. A questo punto qualcuno comincerà a chiedersi quale sarebbe il contributo che Marx darebbe alla decrescita. Secondo B&B starebbe nel fatto che l’affermazione della futura società dei manutentori non sarà né serena né felice, perché chi detiene il potere economico vi si opporrà ferocemente. Su come risolvere questa quisquilia i nostri non ci dicono nulla. A parte il fatto che la lotta per la decrescita disarticolerà l’intera società.
4. Socialismo versus decrescita
B&B, rivelando una notevole ignoranza del marxismo, ne fanno una caricatura, che risulta deleteria non tanto per l’ortodossia quanto – ed è molto più importante – per una effettiva comprensione della realtà e per la definizione di una prassi anticapitalista efficace. Ma cerchiamo di rispondere alle critiche di B&B sui vari punti sollevati.
A) La concezione materialistica della storia. A differenza di quanto pretendono B&B, tale concezione non dice che nella storia le classi sfruttate hanno preso il potere abolendo il sistema di sfruttamento vigente. Dice qualcosa di un po’ diverso, e cioè che l’esistenza delle classi sociali e quindi lo sfruttamento e il dominio non possono essere eliminati finché sono funzionali allo sviluppo delle forze produttive della società. E dice anche che è solo con l’avvento del capitalismo che si determinano le basi materiali affinché la classe sfruttata possa abolire lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Inoltre, va precisato che il marxismo non ha mai inteso dire che sulla base della semplice condizione di sfruttamento economico si potesse avviare una presa di coscienza del superamento del sistema capitalistico. Come evidenzia Lenin, spontaneamente la classe lavoratrice sviluppa una coscienza di tipo sindacalistico, parziale e difensiva delle proprie condizioni di vita. La coscienza politica di classe è portata “dall’esterno della lotta economica, dall’esterno dei rapporti tra padroni e operai. Il campo dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi.”[39] Lenin sviluppa la riflessione di Marx, che, al momento della fondazione dell’Internazionale, ricordava: “la conquista del potere politico è divenuta il grande dovere della classe operaia”[40]. Solo con la conquista dello Stato si possono trasformare i rapporti di produzione e di proprietà. Lo Stato, espressione concentrata del potere nella società, è invece completamente ignorato nelle elaborazioni decresciste. Ma è tutta la questione del potere ad essere ignorata, compresa la necessità di modificare i rapporti di forza tra classi subalterne e capitale anche all’interno dello stato di cose presenti.
B) La teoria della rivoluzione. La lotta passa da economica, e cioè parziale, a politica, e cioè generale, quando attacca e modifica i rapporti di forza complessivi fra le classi, investendo anche lo Stato e le sue leggi. Per questa ragione non è possibile parlare di lotte parziali che siano immediatamente anticapitalistiche. E questo vale anche per le lotte in difesa del territorio o contro le grandi opere. A questo proposito, la concezione di B&B sembra una riedizione fuori tempo massimo dell’”operaismo” degli anni ’70, allorché erano le lotte operaie ad essere considerate immediatamente rivoluzionarie. L’invenzione di un “capitalismo assoluto”, che giustificherebbe l’immediato anticapitalismo delle lotte contro lo sfruttamento naturale, si basa su una inesistente centralità dello sfruttamento della natura nella produzione del plusvalore e quindi del profitto. La natura, oggi come trenta anni fa, non produce plusvalore, è l’uomo, nella fattispecie il salariato impiegato dal capitale, a produrlo. Di conseguenza, se non si coinvolgono i lavoratori, non c’è possibilità di sovvertimento del capitalismo. Come l’operaismo anche i nostri decrescisti sottovalutano la necessità del partito, che è invece centrale sia perché la lotta avviene sul terreno politico, sia perché solo il partito può collegare e permettere che le diverse lotte parziali assumano una comune direzione.
Definire insignificante la storia dei partiti comunisti dei paesi occidentali negli ultimi ottanta anni, come fanno B&B, vuol dire non conoscere la storia. Partiti comunisti di massa si sono affermati in Occidente non solo in Italia, dove il PCI nel dopoguerra è stato il secondo partito per decenni, ma anche in Germania, dove il DKP fu prima distrutto dal nazismo (per i suoi militanti furono inaugurati i campi di sterminio) e poi messo fuori legge dal governo della Germania “democratica”e in Francia, dove il PCF fu decisivo per la vittoria del “fronte popolare” nel ’36 e subito dopo la Seconda guerra mondiale fu il primo partito, per essere successivamente messo all’angolo da leggi antidemocratiche e dal colpo di stato gollista[41]. Partiti comunisti sono stati importanti e sono tutt’ora presenti in modo consistente in Giappone, Grecia, Portogallo, Repubblica Ceca, ecc. Superficiale, poi, è la lettura della lunga e complessa storia del PCI, giudicato come partito comunista solo di nome, non considerando che il partito finale di Occhetto era diverso da quello di Berlinguer, e che questo a sua volta era diverso dal PCI di Longo e di Togliatti. Il PCI poi era da considerarsi talmente poco comunista, da renderlo oggetto di una conventio ad excludendum tale da arrivare fino a “Gladio”, alla “strategia della tensione” e a una lunga serie di stragi sanguinose, ancora oggi impunite. La spinta anticapitalista delle classi subalterne in Occidente è stata molto forte in diversi momenti degli ultimi ottanta anni, rendendo necessario allo Stato e alla classe dominante fare appello a tutte le risorse e ai metodi legali e illegali possibili, per farvi fronte.
C) Teoria del modo di produzione. La cantonata maggiore B&B la prendono sulla teoria del modo di produzione e nella fattispecie nella spiegazione delle crisi. Per loro la crisi è dovuta a sottoconsumo, o, in altri termini, a una sovrapproduzione di merci. Il capitalismo, teso verso l’accumulazione senza limiti, produrrebbe troppe merci che non riescono ad essere assorbite dal mercato. Secondo B&B questa contraddizione si sarebbe risolta con la crescita dei consumi, che determina l’esaurimento delle risorse naturali che, in questo modo, diverrebbe la contraddizione fondamentale. Peccato che tale interpretazione cozza con la realtà, visto che negli ultimi anni si sono prodotte crisi sempre più profonde fino a quella del 2008, che per intensità è stata paragonata a quella del ’29, nonostante il forte sostegno artificiale alla domanda, che ha prodotto un enorme debito privato delle famiglie in tutti i paesi capitalisticamente più avanzati. Il vero punto debole del meccanismo dell’accumulazione, infatti, non è la scarsità della domanda, ma il declino della redditività degli investimenti, che si manifesta nella tendenza alla caduta del saggio di profitto. La produzione capitalistica può anche estendersi quantitativamente quanto si vuole, nel tentativo di supplire a tale caduta, ma ciò non impedisce che ogni capitale aggiuntivo investito abbia un rendimento decrescente. In poche parole, la crisi non deriva da una sovrapproduzione (o sottoconsumo) di merci. Deriva viceversa da una sovrapproduzione di capitale. Come dice Marx: “Il vero limite della produzione capitalistica è proprio il capitale, cioè è che il capitale e la sua auto valorizzazione si presentano come punto di partenza e punto di arrivo (…) che la produzione è produzione per il capitale, e non invece i mezzi di produzione sono semplice mezzi per l’allargamento del processo vitale per la società dei produttori (… ) Lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali entra costantemente in conflitto con lo scopo limitato, la valorizzazione del capitale esistente. Se dunque, il modo di produzione capitalistico è un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale … è allo stesso tempo la costante contraddizione tra questo suo scopo dato dalla storia e i rapporti di produzione sociali ad esso corrispondenti.”[42] Se lo sviluppo delle forze produttive e l’aumento del salario reale e quindi del benessere non si coniugano più è proprio perché nel tentativo di compensare la caduta del saggio di profitto i salari vengono tagliati e i lavoratori vengono espulsi dalla produzione. Solo una distruzione di capitale massiccia può permettere, una volta che si sia arrivati ad un certo livello di sovrapproduzione di capitale, di riprendere un ciclo d’accumulazione generale. Infatti, sono state le immani distruzioni causate dalla Seconda guerra mondiale ad aver permesso di ristabilire le basi dell’accumulazione capitalistica, fino a quando, a partire dalla crisi del ’73-‘74, il fenomeno della sovrapproduzione ha cominciato a ripresentarsi.[43]
Dunque, è scorretto, nell’ambito del capitalismo, identificare spinta all’accumulazione (di capitale e di profitto) con spinta alla crescita (della quantità di merci e del Pil) o allo sviluppo (delle forze produttive e della produttività). Il movimento del capitale non è teso univocamente allo sviluppo e alla crescita. Le innovazioni tecnologiche e le nuove macchine sono introdotte non per alleviare le fatiche fisiche del lavoratore ma solo per aumentarne lo sfruttamento e la produzione di profitto.[44] Quando c’è sovrapproduzione di capitale, è il capitale stesso a imporre la regressione delle condizioni di lavoro, ad esempio dismettendo le macchine automatiche e reintroducendo il lavoro e la fatica fisica. Ma soprattutto, quando cade il saggio di profitto, l’accumulazione di capitale tende a saltare la fase della produzione di merci per rifugiarsi nella finanziarizzazione.
Il movimento del capitale è, quindi, più complesso, in quanto, essendo dialettico, vi sono presenti contemporaneamente due tendenze in contrasto tra di loro, quella verso lo sviluppo e quella verso la negazione dello sviluppo. La contraddizione tra queste due tendenze produce le crisi, durante le quali le forze produttive appaiono incontrollabili da parte della società, come fossero forze naturali. È tale dialettica che i decrescisti non capiscono. Allo stesso modo non colgono l’evidenza che lo sviluppo capitalistico presenta insieme una valenza positiva e una negativa. Quella negativa consiste nel depauperamento sia dell’uomo sia della natura. Quella positiva è lo sviluppo della forza produttiva dell’uomo, sia mediante l’impiego sempre più massiccio della scienza e della tecnologia nella produzione sia mediante la concentrazione delle imprese, ovvero mediante la sostituzione della piccola con la grande impresa.
Ma perché per i marxisti l’aumento della produttività del lavoro umano è positivo? Perché grazie a questo aumento si riduce il tempo necessario alla produzione dei beni, creando non solo la possibilità della soddisfazione e dell’ampliamento dei bisogni umani, ma anche la possibilità della liberazione di tempo vitale dal lavoro. Ma nel capitalismo l’aumento della produttività è teso ad altri fini, dal momento il capitale “non ha per suo scopo il soddisfacimento dei bisogni umani, ma la produzione di profitto, e dato che ciò si può ottenere unicamente tramite metodi che regolano la quantità dei prodotti in base alla scala della produzione e non viceversa.”[45]
Inoltre, la produzione, mentre nelle singole fabbriche è razionale e pianificata, nell’insieme delle varie branche industriali, essendo basata sull’anarchia della concorrenza, è irrazionale. Quindi, la soluzione non sta nel negare la crescita delle forze produttive ma nel ricondurre tale crescita sotto il controllo dei lavoratori liberamente associati secondo un piano razionale, che regoli la produzione complessiva in base ai bisogni e non il contrario. Solo una pianificazione democraticamente organizzata, il socialismo, può eliminare l’impoverimento e lo sfruttamento delle risorse sia umane sia naturali, permettendo allo stesso tempo il raggiungimento della vera ricchezza, che non è altro “se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti delle forze produttive, ecc. degli individui (…) se non l’estrinsecazione assoluta delle doti creative dell’uomo”.[46]
A questo punto torniamo all’oggi. Il capitalismo attuale è entrato in una crisi epocale che, da una parte, divarica le sue contraddizioni ad un livello insolubile mentre, dall’altra, produce le condizioni materiali del suo superamento.
In primo luogo, il mercato mondiale, ovvero lo sviluppo delle forze produttive a livello mondiale, come avvertiva Marx, “è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe [nel caso in cui i lavoratori tentassero di superare la divisione in classi] solo la miseria e, quindi, col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda …”.[47] Ed è questa la ragione per cui né nei modi di produzioni precedenti né in una ipotetica “società delle decrescita” può essere realizzata alcuna società di liberi ed eguali.
In secondo luogo, l’affermazione del monopolio e delle imprese giganti entra in contraddizione con la stessa proprietà privata capitalistica, favorendo il passaggio ulteriore verso l’espropriazione da parte della società di tutti i capitalisti.[48] In terzo luogo, l’estensione dell’intervento del credito e dello Stato permettono già oggi ai capitalisti la produzione privata senza impiego di capitali privati, bensì mediante quelli che gli vengono messi a disposizione dalla società. Tutte queste rappresentano già in nuce “forme di passaggio dal modo di produzione capitalistico a quello associato”.[49] Concludendo, parlare di decrescita, di localismo e di piccola produzione vuol dire, oggi molto più che nell’epoca di Marx, voler innestare una impossibile marcia indietro al movimento della storia. Mentre è proprio al socialismo che il movimento reale della società riconsegna l’attualità storica.
[1] Secondo Breda, qurinalista del Corriere della Sera, dietro alcune affermazioni, che riporto più avanti, del discorso di fine anno 2010 del Presidente Napolitano ci sarebbe l’influenza della teoria della decrescita.
[2] Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p.49.
[3] Ibidem.
[4] S. Latouche, op. cit., p.62.
[5] S. Latouche, op. cit., p.63.
[6] Ibidem.
[7] La definizione è di Pirenne. Vedi Henri Pirenne, Storia dell’Europa dalle invasioni al XVI secolo, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 83. A proposito della regressione economica del periodo carolingio (IX secolo) P. scrive: “[La proprietà] non potendo regolare la produzione in vista dell’esportazione e della vendita all’esterno, la regola in funzione della distribuzione e del consumo interno. Il suo scopo è che la proprietà basti a se stessa e si mantenga con le proprie risorse, senza vendere niente e senza acquistare niente.”
[8] S. Latouche, op. cit., p.62.
[9] S. Latouche, op. cit., p.64.
[10] S. Latouche, op. cit., p.52.
[11] Ibidem.
[12] S. Latouche, op. cit., p.68.
[13] S. Latouche, op. cit., p.70.
[14] S. Latouche, op. cit., p.71.
[15] S. Latouche, op. cit., p.96.
[16] S. Latouche, op. cit., p.53.
[17] S. Latouche, op. cit., p.100.
[18] S. Latouche, op. cit., p. 53. Qui Latouche cita fra virgolette Willem Hoogendik.
[19] S. Latouche, op. cit., p. 83.
[20] S. Latouche, op. cit., p. 91
[21] S. Latouche, op. cit., p. 90.
[22] S. Latouche, op. cit., p. 93.
[23] S. Latouche, op. cit., p.90.
[24] S. Latouche, op. cit., p. 109.
[25] K. Marx, Il Manifesto del partito comunista, Newton & Compton editori, Roma 1994, p.40.
[26] In Gran Bretagna, ad esempio il divario tra le classi sociali è il più ampio mai registrato dalla Seconda guerra mondiale. Secondo la London school of economics il 10% più ricco della popolazione ha redditi 100 volte quelli del 10% più povero. L. Maisano, Il Sole 24 ore, 28 gennaio 2010.
[27] Istat, Comunicato stampa, La povertà in Italia nel 2009, 15 luglio 2010.
[28] S. Latouche, op. cit., p. 107.
[29] S. Latouche, op. cit., p. 81.
[30] S. Latouche, op. cit., p. 110.
[31] S. Latouche, op. cit., p. 108.
[32] S. Latouche, op. cit., p. 123.
[33] K. Marx, Il Capitale, Newton Compton editori, Roma 1996, libro I, cap. XIII, p. 370. Il corsivo è mio.
[34] K. Marx, Il Capitale, op.cit, libro III, cap. LXVII, p. 1463.
[35] K. Marx, Il Capitale, op.cit, libro III, cap. LXVIII, p. 1468. Il corsivo è mio.
[36] Maurizio Pallante, Lettera aperta al Presidente della Repubblica Napolitano. Vi si cita l’esempio del cogeneratore, per fornire energia alle case, prodotto dalla Volkswagen sulla base del motore della Golf.
[37] Marino Badiale, Per una nuova radicalità antisistema (né rossi né bruni: una proposta politico culturale alle minoranza antisistema). Suciviumlibertas.blogspot.com.
[38] Vedi l’articolo-saggio di M. Badiale e M. Bontempelli, Marx e la decrescita. Per un buon uso del pensiero di Marx. Su www.sinsitrainrete.info. Da questo articolo sono tratte tutte le citazioni fra virgolette che seguono.
[39] Lenin, “Che fare?” in Lenin, Trockij, Luxemburg, Rivoluzione e polemica sul partito, Newton Compton Editori, Roma 1976, p.113.
[40] K. Marx, “Indirizzo inaugurale della prima Internazionale (1864)”, in L’internazionale operaia, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 14. Il corsivo è mio.
[41] Su la Germania e la Francia del secondo dopoguerra vedi L. Canfora, Democrazia storia di una ideologia, Laterza, Bari 2006, cap. 14.
[42] K. Marx, op. cit., p. 1083.
[43] Cfr. Andrew Kliman, “The Destruction of Capital” and the Current Economic Crisis. E “On the roots of the current economic crisis and some proposed solutions”. Sul sito dell’autore all’indirizzo www.aklimansquarespace.com.
[44] Cfr. K. Marx, “Macchine e grande industria”, cap. XIII del libro I de Il capitale, op. cit., in particolare vedi a p. 276.
[45] K. Marx, op. cit., p. 1088.
[46] K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Scandicci 1997, Vol. II, p. 112.
[47] K. Marx, L’ideologia tedesca, Editori riuniti, Roma 1979, p.25.
[48] Sull’espropriazione degli espropriatori v. K. Marx, Il capitale, Newton & Compton editori, Roma 1996, Libro I, pp. 547-548.
[49] Sul ruolo del credito v. K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1983, Libro III, pp. 522-524.
Fonte: resistenze.org
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