Bengasi: prima... |
di Militant*
Ampiamente condivisibile questo intervento, di radicale critica a chi, a sinistra anzitutto, giustifica, se non addirittura sostiene, l'intervento a gamba tesa di NATO e USA in Libia, che così si conclude: «Qualche giorno fa un compagno palestinese, intervenendo alla nostra iniziativa sulla Libia ha detto: ma davvero un’insurrezione può chiedere l’intervento straniero per bombardare il proprio paese? Io sono palestinese ma se Arafat m’avesse detto “voglio chiamare gli americani”, io gli avrei risposto, ma vaffanculo!” Ecco, appunto, ma vaffanculo!». Il problema è che semmai Arafat avesse chiesto l'intervento americano, affanculo occorreva certo mandare lui, non tutta l'Intifada. Non è ammissibile confondere la rivolta popolare con i capi che gli si sono messi alla testa —intendiamo il Consiglio nazionale provvisorio di Bengasi, che certo è un organismo di servi dell'imperialismo, espressione di una frazione della borghesia burocratica che vuole togliere di mezzo Gheddafi per sfamare i suoi appetiti di classe. Né tantomeno, per causa di questi servi, si può giungere a ritenere che mezzo popolo libico siano un esercito di agenti imperialisti, o che la sanguinosa repressione di Gheddafi fosse giustificata.
Confessiamo di rimanere ogni giorno sempre più ammirati di fronte alla capacità che ha certa sinistra nell’eseguire capriole e piroette logiche pur di riuscire a darsi sempre e comunque ragione. Anche quando la realtà (mannaggia a lei) si ostina irriverente a non piegarsi di fronte alle teorie di cotanta intellettualità. Avevamo lasciato molti di questi soloni e dirigenti politici ad irridere quegli indios semianalfabeti di latinoamericani con le loro fisime antimperialiste, e a pontificare urbi et orbi dai loro pulpiti che non ci sarebbe stato alcun intervento militare in Libia e che il petrolio questa volta non c’entrava assolutamente niente. Perché Gheddafi era un uomo dell’occidente, perché era amico di Berlusconi, perché comprava armi da Francia e Inghilterra, perché riforniva l’Europa di gas e petrolio e perché, aggiungiamo noi, evidentemente le 4 guerre umanitarie degli ultimi 20 anni non hanno insegnato proprio nulla. Si legga, ad esempio, quanto scritto a tal proposito da Immanuel Wallerstein: il secondo punto che è sfuggito a Hugo Chavez nella sua analisi è che non ci sarà nessun significativo intervento militare del resto del mondo in Libia. Le ringhiose dichiarazioni pubbliche dei governi sono tutte intese a fare effetto sull’opinione pubblica nazionale. Non ci sarà una risoluzione del Consiglio di Sicurezza perché Russia e Cina non ci staranno. Non ci sarà risoluzione NATO perché la Germania e qualche altro paese non ci staranno. Perfino l’atteggiamento militante anti-Gheddafi di Sarkozy sta incontrando resistenze in Francia. Siamo sicuri che neanche il mago Otelma sarebbe riuscito a toppare una previsione in questo modo, e la cosa tragicomica è che quest’articolo è uscito sulle pagine del Manifesto il 18 marzo (leggi), ovvero poche ore dopo che la risoluzione ONU 1973 era stata votata aprendo di fatto la strada all’intervento bellico.
Bengasi dopo |
Capirete dunque che quando i primi Tomahawk hanno iniziato ad abbattersi su Tobruk ci saremmo aspettati quantomeno una pausa di riflessione, così, giusto per ricalibrare il tiro. E invece no. Fai una giravolta, falla un’altra volta, guarda in su, guarda in giù, dai un bacio a chi vuoi tu, ed ecco uscire dal cilindro il nuovo coniglio: la guerra, in realtà, non sarebbe contro Gheddafi ma, udite udite, contro la rivoluzione libica. Anche in questo caso prendiamo in prestito le parole di un altro intellettuale che evidentemente c’ha visto lungo: per il primo aspetto, va detto con chiarezza che Odyssey Dawn non è l’aiuto orribile, malintenzionato ma necessario alla sopravvivenza della rivoluzione. No, nel suo calcolato ritardo è stato un attacco complessivo alla rivoluzione che stava montando nei territori sensibili dell’alleato strategico saudita e un aiuto mirante a incatenare alle (contrastanti) cause occidentali i soli insorti di Benghazi (leggi). Su questa nuova linea di pensiero sembrano ora attestarsi un bel po’ di compagni: quelli sicuri di aver visto le moltitudini assediare i palazzi dell’impero insieme a quelli che hanno scorto masse arabe sollevarsi contro il Rais, quelli convinti che ci si trovi di fronte ad una rivolta generazionale partorita su twitter fino a quelli che sono certi che sia in corso la rivoluzione del proletariato libico (sic). Tutti concordi, al di la delle sfumature, col fatto che si debba stare con i ribelli di Bengasi senza se e senza ma… e senza neanche preoccuparsi troppo, come fa qualcuno (leggi), di citare a cazzo addirittura Lenin e il treno tedesco con cui rientrò in Russia. Nella fretta di darsi ragione da soli c’è stato chi ha persino tirato in ballo i partigiani, chi ha fatto dei parallelismi con gli zapatisti dell’EZLN e chi s’è chiesto se non fosse il caso di rimettere addirittura in piedi le brigate internazionali. Certo che se questo è il trend adesso attendiamo con ansia il primo che ci verrà a dire d’aver letto sul Capitale che Marchionne ha più di una ragione dalla sua parte. Ora, sarà anche vero che quella libica è la rivoluzione delle giovanimassearabemoltitudinarieproletarie (così non facciamo torto a nessuno), però a noi più passa il tempo e più ci sembra evidente che la leadership del Consiglio Nazionale di Bengasi sia attualmente in mano ad ex arnesi del regime che hanno fatto il salto della quaglia e a notabili che di rivoluzionario sembrano avere davvero ben poco. Una leadership che, anzi, su molte questioni che giustamente stanno a cuore alla sinistra europea ha opinioni ed intenzioni piuttosto “continuiste” e ben poco rassicuranti. Martedì scorso, tanto per dirne una, intervenendo in diretta a Porta a Porta il presidente del consiglio nazionale di Bengasi Mustafà Abdel Jalil (già ministro della giustizia di Gheddafi, leggi il suo curriculum) ha espressamente “rassicurato” l’Italia sul fatto che la nuova Libia proseguirà nelle politiche di cooperazione con il nostro Paese nella lotta all’immigrazione clandestina (vedi, dal minuto 39.40). Niente di cui stupirsi visto che, del resto, nei giorni scorsi anche alcune testate occidentali avevano acceso i riflettori sul trattamento che viene riservato ai migranti dai rivoluzionari (leggi e leggi) tanto da spingere perfino Al Jazeera a farci un servizio (vedi). E già che ci siamo sarebbe molto interessante andarsi a leggere anche il curriculum (leggi) e le dichiarazioni (leggi) di Ali Tarhouni, il nuovo ministro delle finanze degli insorti a cui spetterà la gestione dei pozzi di petrolio “liberati”. Un altro sincero rivoluzionario forgiato nella fornace delle lotte sociali della Foster School of Business at the University of Washington. Così come Mahmoud Jibril, il probabile successore di Gheddafi appena nominato capo del governo provvisiorio (leggi). Insomma noi, fossimo in questi compagni, qualche “se” e qualche “ma” almeno adesso inizieremmo a porcelo. In parte per alcune dichiarazioni abbastanza inequivocabili che dovrebbero far pensare chi spera in un repulisti dopo la vittoria della “rivoluzione”, come ad esempio quella rilasciata a Parigi dal portavoce degli insorti Mustafa Guiriani «Il Consiglio è politicamente omogeneo, siamo libici, laici e tra noi non ci sono partiti estremisti. Ad esempio non sono rappresentati i comunisti» (leggi). Ma soprattutto per quello che sta accadendo in questi giorni sul campo (ancora questa stramaledettissima realtà tra i piedi). E non è necessario per forza leggersi quello che scrive l’ex comandante dell forze NATO in Kosovo, Fabio Mini, per comprendere che, alla faccia della stessa risoluzione ONU che parlava di protezione dei civili, la coalizione dei volenterosi è diventata di fatto l’aviazione del “rivoluzione”. I caccia occidentali bombardano (e uccidono) e poi, di concerto, i ribelli avanzano e occupano le città liberate inneggiando ad Allah e alla NATO. E quando questo non accade le forze “lealiste” tornano ad avanzare dimostrando, anche ai volenterosi, quanto in realtà sia poco autosufficiente questa insurrezione. Ieri a Londra gli esportatori di democrazia sembrerebbero aver preso pragmaticamente atto della situazione ed hanno deciso, anche formalmente, di cambiare mission. L’obiettivo non è più la protezione dei civili ma la cacciata di Gheddafi attraverso l’intensificazione dei bombardamenti e la fornitura diretta di armi ai ribelli, senza dover più triangolare con l’Egitto e senza essere più costretti alle cover action di queste settimane (leggi e vedi). Fin dall’inizio abbiamo detto chiaro e tondo che noi non stiamo con Gheddafi, ma non chiedeteci nemmeno, in nome di una contortissima idea di rivoluzione, di stare con la NATO. Fino a quando le forze militari occidentali non si ritireranno ogni seppur minimo spiraglio di autodeterminazione del popolo libico sarà impossibile, il governo che nascerà da questa operazione non avrà alcuna autonomia così come non avranno spazio alcuno le spinte di trasformazione sociale. La vittoria della NATO in Libia porrebbe inoltre una serissima ipoteca sui processi in corso in Egitto e, soprattutto, in Tunisia, non comprenderlo ci sembra miope. Qualche giorno fa un compagno palestinese, intervenendo alla nostra iniziativa sulla Libia ha detto: ma davvero un’insurrezione può chiedere l’intervento straniero per bombardare il proprio paese? Io sono palestinese ma se Arafat m’avesse detto “voglio chiamare gli americani”, io gli avrei risposto, ma vaffanculo!” Ecco, appunto, ma vaffanculo!
Fonte: sinistra in rete
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