«Accoglienza e regolarizzazione generalizzata per tutti»
di Moreno Pasquinelli
Si è svolta a Roma, il 17 ottobre scorso, una manifestazione nazionale contro il razzismo il cui successo è stato determinato non solo dalla massiccia partecipazione di immigrati, ma anche grazie all’impegno di tanti organismi di base della sinistra politica, sindacale e sociale. L’appello, dopo una sacrosanta premessa che riporta alla drammatica situazione che i migranti soffrono in Italia, quelli scampati alla morte nel Canale di Sicilia, snocciolava diverse rivendicazioni, la maggior parte assolutamente sacrosante, un paio decisamente discutibili: «Accoglienza per tutti» e dunque «Regolarizzazione generalizzata di tutti».
Etica e politica
É evidente che ogni politica, cioè ogni visione politica, non solo esprime degli interessi sociali, ma implica anche una base etica, dei fondamenti valoriali morali. A premessa: non c’è alcuna meccanica corrispondenza, né alcuna coincidenza, tra determinati interessi sociali e giudizi valoriali o aspirazioni etiche. L’esser poveri non necessariamente produce una coscienza politica egualitaria anticapitalista, come l’esser ricchi non predetermina una coscienza morale egoistica o antiproletaria.
In secondo luogo: il sicuro legame tra il livello politico e quello etico-morale non giustifica tuttavia la confusione tra i due. Facciamo un esempio tra i tanti: c’è qualcuno che possa mettere in discussione che i rivoluzionari, quale che sia la loro parrocchia, anelano ad una società senza guerre, senza violenza e senza conflitti di classe? Con tutta evidenza no, tant’è che l’argomento forte dei “realisti” è che il comunismo e/o l’anarchia sarebbero impossibili e i loro seguaci sarebbero degli inguaribili utopisti. Tuttavia, com’è noto, sono capisaldi del programma politico sia dei comunisti che degli anarchici: non solo la lotta di classe, non solo l’idea della necessità dell’uso giusto e rivoluzionario della violenza, ma pure il ricorso alla guerra ove essa fosse necessaria per la vittoria della causa emancipatrice.
C’è una contraddizione tra questi due livelli? Tra il nobile obbiettivo ultimo e l’uso di mezzi eticamente meno nobili per raggiungerlo? Non c’è, e non c’è per la semplice ragione che la lotta per il nobile obbiettivo ultimo non si svolge nel paese dei balocchi, ma in quello reale, segnato dal dominio dei pre-potenti, i quali non solo non vogliono togliere il disturbo ma, decisi a conservare la loro supremazia, sono protetti da ciclopiche cinte murarie statuali e non esitano ad ricorrere al terrore, alla repressione, alla guerra civile e alle dittature più spietate pur di restare in cima alla scala sociale.
Gli oppressi, se vogliono emanciparsi, se vogliono vincere, debbono togliere di mezzo gli oppressori con la loro panoplia difensiva, e non possono farlo che coniugando il più ampio consenso col ricorso alla forza.
Certo che dev’esserci coerenza tra fine e mezzi, che il fine deve vivere nei mezzi, che ogni azione politica dev’essere fondata su basi etiche, ma questo non inficia che la politica in quanto tale è l’arte con cui gli uomini, nelle circostanze date, realizzano gli obbiettivi che si sono posti.
Il duplice carattere della questione nazionale
Sono giuste in linea di principio le rivendicazioni «Accoglienza per tutti» e dunque «Regolarizzazione generalizzata di tutti»? Ovvero: è giusto difendere il diritto universale d’ogni essere umano a spostarsi e risiedere ove desidera e quindi a varcare liberamente le frontiere? Sì, in linea di principio è sacrosanto. Tuttavia, un diritto giusto in linea di principio, cioè sul piano etico-morale, non è detto che sia opportuno dal punto di vista politico. Politicamente parlando l’esercizio del diritto di ognuno a spostarsi e risiedere dove desidera o ritiene necessario, ove non si tratti dell’al di là o del mondo auspicabile del futuro, significa di fatto abolire gli Stati, i confini giuridicamente fissati di una nazione. Nell’al di qua, nel mondo odierno, gli stati-nazione esistono, e ad essi è riconosciuta potestà giurisdizionale entro le loro frontiere, quindi anche la facoltà di assecondare o avversare l’emigrazione o l’immigrazione di cittadini stranieri.
E’ del tutto evidente che le rivendicazioni, «Accoglienza per tutti» e «Regolarizzazione generalizzata di tutti», non sottendono solo un giudizio etico ma implicano un principio politico: la condanna degli stati-nazione come illegittimi e la loro negazione qui e ora. Chiediamoci: è nell’interesse del movimento rivoluzionario e antimperialista mondiale battersi per sopprimere gli stati-nazione? Forse che non dobbiamo distinguere tra stati imperialisti dominanti e stati semicoloniali dominati? Non è forse vero che le grandi potenze imperialistiche tendono proprio esse a spazzare vie le barriere nazionali per meglio esercitare la loro supremazia sui paesi più deboli? E non è forse altrettanto vero che questi ultimi hanno il diritto di difendersi dal saccheggio e dalla globalizzazione e quindi esercitare le loro prerogative di stati-nazione?
La riposta a queste domande è una soltanto: di contro alla devastante potenza penetrativa (economica, politica e militare) dei paesi imperialistici quelli più deboli e oppressi non solo possono ma debbono resistere, tra l’altro difendendo la loro sovranità nazionale.
Vediamo adesso la cosa dal lato dei paesi imperialistici. La musica evidentemente cambia, nel senso che gli stati-nazione-Golia o dominanti, ove non sono costitutivamente prigioni per popoli oppressi ai quali non è riconosciuta dignità nazionale e il loro diritto all’autodeterminazione (due casi su tutti: i baschi e i nordirlandesi), sono comunque nazioni imperialistiche, ovvero involucri statuali per mezzo dei quali esse sottopongo altri popoli e paesi al loro predominio. In questi casi i rivoluzionari non possono ergersi a paladini dello stato-nazione, non possono difendere in linea di principio lo stato-nazione. Strategicamente essi sono anzi disfattisti, dato che è nell’interesse delle resistenze antimperialiste indebolire le fortezze imperiali, quelle nordamericana ed europea anzitutto.
Ma anche qui corre il dovere di distinguere il grano dal loglio, la tattica dalla strategia. L’imperialismo non è un tutt’uno indistinto, ma un blocco mondiale, all’interno del quale ogni nazione ha un suo rango. Nella odierna gerarchia imperialistica, se gli U.S.A. rappresentano una potenza super-imperialistica, i sodali che come l’Italia svolgono il ruolo di comprimari sono potenze sub-imperialistiche.
In questi casi l’approccio, positivo o negativo riguardo alla difesa dello stato-nazione, non può essere deciso a priori, ma viene a dipendere da chi porta l’attacco, sia esso effettuale o simbolico.
Come in Iraq anche in Afghanistan gli antimperialisti non hanno avuto e non hanno dubbi a sostenere le Resistenze, anche quando esse hanno colpito le truppe italiane a tutti gli effetti d’occupazione. Così come è giusto difendere certe rivendicazioni libiche relative ai tempi dell’occupazione italiana. Nei casi in cui l’Italia rappresenta un simbolo di oppressione non c’è altra possibilità che essere “anti-italiani”.
Il discorso cambia quando, al contrario, ci sono di mezzo le relazioni di signoraggio con gli Stati Uniti o rispetto all’Unione Europea. E’ giusto o è sbagliato chiedere la chiusura di tutte le basi militari USA e NATO in Italia? E giusto, per due ragioni. La prima è che la chiusura delle basi americane e l’eventuale uscita dell’Italia dalla NATO sarebbero un colpo letale al blocco imperialistico che domina il mondo, e tale indebolimento sarebbe senza dubbio nell’interesse della lotta rivoluzionaria. In secondo luogo, riconsegnare all’Italia la piena potestà su ogni lembo del suo territorio, dal momento che ciò sarebbe possibile solo grazie ad una rottura che porrebbe fine alla sudditanza verso l’imperialismo USA, sarebbe una sconfitta irreparabile delle classi dominanti, vera cinghia di trasmissione di questa subalternità.
D’altra parte è giusto chiedere l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea, anche in base al criterio per cui il popolo, visto il diabolico e oligarchico marchingegno contenuto nel Trattato di Lisbona, riotterrebbe così, anche se solo formalmente, le sue facoltà sovrane.
Un atteggiamento di indifferenza o addirittura di ostilità davanti ai sentimenti nazionali o patriottici di italianità, nei casi in cui essi siano progressivi, sarebbe da parte dei rivoluzionari un errore politico imperdonabile.
Contrastare il sinistrismo
Ritenere a priori “reazionaria” ogni istanza nazionale o peggio, ogni difesa della comunità nazionale è dunque una colossale stupidaggine.
Ci sono invece in giro dei radicaloidi da salotto che considerano “reazionarie” e antidiluviane addirittura le lotte nazionali dei palestinesi o degli afghani. Questi non ne vogliono sapere che se i popoli oppressi rivendicano il loro diritto ad una nazione la ragione è che questi popoli riconoscono nella nazione non solo un diritto, vi vedono il simbolo stesso del loro considerarsi una medesima comunità. Quest’ostilità, di ascendenza anarchica e per nulla comunista, verso lo stato-nazione e ogni forma di patriottismo, o parte dal pregiudizio che la nazione in quanto tale sia un prodotto storico mostruoso oppure, vedi le fascinazioni negriane, abbraccia deliberatamente il missionarismo imperiale nordamericano. La sinistra che evoca la distruzione dello stato-nazione mentre avanza lo schiacciasassi globalista e imperialista, non fa che scavarsi la propria fossa.
L’Italia in quanto nazione è un prodotto storico complesso, risultato di grandi battaglie politiche che hanno avuto per protagonisti anche i rivoluzionari del tempo, non è solo il frutto di una “macchinazione” della borghesia. Il capitale dice Italia ma intende una fetta di mercato in cui spadroneggiare, ma l’Italia è anche diventata una comunità nazionale, per quanto forti siano stati e possano essere i suoi conflitti interni. Non scomodiamo Marx o la storiografia moderna per dimostrare che l’epoca della formazione degli stati nazionali europei è stata un’epoca rivoluzionaria e che la costituzione della nazione come comunità è stata un grande evento progressivo, anche a tutela degli oppressi, fino a prima vessati come semi-schiavi dai feudatari. E’ con la nascita della nazione che si è lentamente affermato lo “stato di diritto”, il principio che “la legge è uguale per tutti” del diritto di cittadinanza.
Né lo Stato è solo una banda armata a difesa dei dominanti. Esso ha anche un contenuto democratico, contiene conquiste sostanziali che gli oppressi hanno ottenuto a prezzo di dure e prolungate lotte. Contenuto e conquiste che infatti i dominanti percepiscono come lacci e impicci di cui vorrebbero sbarazzarsi. Non è forse vero che ogni movimento popolare difende i diritti conquistati? Non è forse vero che i movimenti contro la guerra così come altri fanno appello al rispetto della Costituzione? E’ forse sbagliato che davanti ad ogni ondata repressiva che calpesti i diritti fondamentali ogni movimento d’opposizione chieda il rispetto dello Stato di diritto? Non solo non è sbagliato, sarebbe suicida se non fosse così!
Imperialismo e immigrazione
Le due rivendicazioni «Accoglienza per tutti» e «Regolarizzazione generalizzata di tutti», pur condivisibili in linea di principio, vanno giudicate non solo dal punto di vista etico dunque, ma anche da quello della strategia rivoluzionaria, ovvero dal lato di ciò che fa gioco alla rivoluzione italiana (salvo che non si creda più o non si voglia fuoriuscire dal capitalismo). «Accoglienza per tutti» e «Regolarizzazione generalizzata di tutti» sono da questo punti di vista due rivendicazioni sbagliate in linea di fatto. Esse traducono in cattiva linea politica il giusto sentimento di disprezzo verso il razzismo, e quello etico di solidarietà umana per tutti i diseredati che cercano salvezza in Occidente. Esse rivelano il grave errore di chi schiaccia la sfera politica su quella etica, di chi riduce la lotta politica antisistemica ad astratta disputa valoriale.
Sul piano dell’analisi, pur senza fare la spocchia al desiderio di ascesa sociale di tanti disperati del sud del mondo, è chiaro come siano l’imperialismo e la globalizzazione, ammassando in un polo la ricchezza e nell’altro miseria, a causare le colossali e drammatiche ondate migratorie, obbligando milioni di diseredati a cercare un rifugio per sopravvivere nei luoghi di un’opulenza sempre più dissestata. L’emigrazione massiccia, al pari del libero flusso di capitali e merci (e per il capitale l’uomo è anzitutto forza-lavoro per la sua riproduzione) è una necessità dell’imperialismo giunto al massimo della sua tracotanza e della sua crisi di valorizzazione. Pur di alimentare i propri voraci appetititi, un pugno di giganti dell’economia, allo scopo di dilagare, di spadroneggiare, di sottomettere tutte le sfere sociali, comunitarie e di vita alla logica del capitale, chiede di spingere all’estremo la globalizzazione, agisce per spazzare via le comunità nazionali e abbattere le loro ultime barriere difensive.
Sul piano strategico è evidente che nessuna rivoluzione sociale sarà in Italia possibile senza la mobilitazione di milioni di cittadini, anzitutto degli strati più umili della società, di quegli strati che la crisi storico-sistemica del capitalismo tende a riprodurre su larga scala, a proletarizzare e a radicalizzare.
Il fatto che sia finita l’epoca delle vacche grasse, dell’opulenza diffusa, cioè che siamo entrati in un periodo storico di declino del capitalismo occidentale, getta una luce sinistra sul fenomeno dell’immigrazione. Quando il sistema economico creava ricchezza e opportunità di ascesa sociale, il razzismo e l’ostilità verso gli immigrati non erano destinati a diventare un fattore dirompente. Lo diventano oggigiorno che la crisi getta nell’esclusione sociale vaste fette del ceto medio e riproletarizza, ovvero pauperizza, lo stesso proletariato “bianco”, illusosi che il proprio imborghesimento fosse irreversibile. E’ un fatto autoevidente che questo precipitare verso il basso della scala sociale da parte di milioni di persone (siano essi dipendenti o meno), dove essi incontrano milioni di immigrati ancor più poveri di loro e per questo disposti a vendersi ad un prezzo più basso, è oggigiorno un fattore decisivo di instabilità e fibrillazione sociale. Questo incontro verso il basso, determinato dalla crisi sistemica e dalle politiche capitalistiche, non può che creare attriti sociali tra poveri, che assumono la forma repellente della xenofobia e dell’etnicismo, e che potrebbe sfociare in un vero e proprio conflitto su linee razziali.
Non è un caso che questo scivolamento o impoverimento determinino un’avanzata delle destre, più o meno populiste, sentimenti sicuritari e dunque il razzismo. Questo slittamento a destra delle masse popolari “bianche” è forse solo un antipasto, l’inizio di una vera e propria mobilitazione reazionaria extraparlamentare delle masse. Un’epoca di guerre civili potrebbe essere ineluttabile, con linee divisorie infernali, una guerra reazionaria di miserabili, facili prede tutti dei demagoghi e degli avventurieri di turno.
Conclusioni
Il problema di come affrontare il fenomeno dell’immigrazione, fuori da questo quadro, sganciato dalla prospettiva anticapitalista, può interessare i tecnici del dominio capitalista o l’esercito cattolico della salvezza delle anime, non i rivoluzionari.
Se è così una linea anticapitalista e antimperialista deve anzitutto rifiutare il campo da gioco simbolico in cui si affrontano le principali frazioni della “borghesia”: «Accoglienza per tutti» e «Tutti a mare» . Se vanno difesi i diritti sacrosanti dei migranti, va anche capito che la sensazione dei proletari “bianchi” — per cui gli immigrati vengono usati per abbassare i loro salari, per gettarli nella miseria e farli tribolare come somari — è comprensibile, oso dire legittima poiché, se non lo fosse, illegittime sarebbero anche, di converso, tutte le rivendicazioni dei medesimi soggetti “bianchi” per aumenti salariali, migliori condizioni di vita, riduzione dello sfruttamento, ecc.
Liquidare questa percezione come ”razzismo” è snobismo borghese, è un crimine politico, condurrà alla sconfitta catastrofica di ciò che resta della sinistra politica e sindacale, e rispetto alla quale, le recenti batoste, saranno ricordate come bazzecole.
Sul piano tattico «Accoglienza per tutti» e «Regolarizzazione generalizzata di tutti» sono dunque slogan suicidari, che contribuiscono a consegnare il proletariato “bianco” tra le braccia della peggiore teppaglia reazionaria. Non è dunque in questa maniera che si contrasta e si sconfigge il razzismo. Così lo si alimenta di sponda, mentre si indebolisce la presa delle forze rivoluzionarie sui loro naturali interlocutori sociali, quella parte di popolo italiana già piombata nell’inferno dell’esclusione sociale e che patisce per prima le conseguenze dell’immigrazione massiccia.
Apparentemente «Accoglienza per tutti» e «Regolarizzazione generalizzata di tutti» sono slogan estremisti e ultraradicali. Nella sostanza sono slogan sbagliati che dietro ad una parvenza etica politicamente corretta incontrano gli interessi della frazione più rapace della borghesia. Una borghesia che non è più borghesia, ma una classe di parassiti ubriaca di americanismo, che dopo avere deliberatamente voluto la corruzione del proletariato per smorzare le sue pulsioni anticapitaliste, ora lo disprezza ancor di più perché non ha più nemmeno quelle e perché si permette di plagiare i suoi stili di vita. Una classe di parassiti che ha perduto ogni etica o valore se non quello del profitto e che per questo, finita la pacchia consumistica, vuole tutti morti di fame e quindi poter liberisticamente disporre di forza-lavoro a prezzi stracciati. Una classe di scrocconi e di leccaculo, che ha perso ogni dignità di classe dirigente, che non ha più né senso storico né senso di responsabilità verso ciò che resta della comunità nazionale e che vorrebbe importare in Europa il modello americanista dei ghetti e del melting-pot.
Un nuovo movimento popolare rivoluzionario dovrà invece non solo far finta di ascoltare i proletari italiani, già precipitati nell’esclusione e della marginalità sociali o sulla strada di precipitarci; dovrà anche andargli incontro, capire le loro paure, decodificarle per dargli uno sbocco anticapitalistico e antisistemico, difendere i loro interessi quando sono legittimi. Dovrà costruire un’alleanza tra gli ultimi e i penultimi, in una lotta frontale non solo contro la ciurmaglia razzista e neofascista e l’incipiente tendenza reazionaria di massa, ma anche in opposizione al cadavere della sinistra sistemica, giustamente percepita come asservita al parassitume dominante. Gli immigrati trattati da schiavi dovranno scegliere: quelli che non accetteranno di esserlo si aggregheranno al movimento popolare, che non potrà non parlare la lingua italiana. Quelli che vorranno restare in ginocchio e comportarsi da schiavi verranno lasciati alla loro sorte.
Ciò deve essere fatto, e si illude che lo si possa fare solo su una base sindacalistica o economicistica. I tempi del minimalismo politico e del relativismo valoriale sono finiti. Grandi masse si metteranno comunque in movimento nel prossimo futuro e ci si metteranno non come pensano i dogmatici e i minimalisti ma aggrappandosi ad idee forti e concrete polarmente opposte a quelle del parassitume dominante. Tra queste risorgerà certo il socialismo, ma pure l’idea di nazione come suo involucro, come comunità popolare basata sulla fratellanza e l’eguaglianza. Contro la globalizzazione si dovranno dunque coniugare in modo rivoluzionario socialismo e identità nazionale. I sinistri discettanti e capziosi, i marxisti amanti delle diavolerie teoriche di certo faranno spallucce, lasceranno che questi simboli siano afferrati dalla demagogia neofascista.
E’ da questa patologica follia che prima di tutto occorre sbarazzarsi.
E' QUESTA LA SOLUZIONE?
di Moreno Pasquinelli
I recenti sviluppi legati agli sbarchi di migranti a Lampedusa, ha riproposto al centro dell'attenzione la questione dell'immigrazione. Una questione complessa, visto che si tratta di un flusso che ha cause sociali e demografiche di carattere strutturale e di lungo periodo e che attengono agli squilibri connaturati al sistema capitalistico. Una questione controversa, non solo perché i media mettono in scena ogni volta uno psico-dramma collettivo (alimentando sentimenti xenofobi tra i "bianchi nativi"). E' sul come "porre rimedio" al dramma che le opinioni divergono. Proponiamo questo contributo di Pasquinelli (che venne pubblicato originariamente nell'ottobre 2009), controverso anch'esso e che non mancò infatti di suscitare delle critiche.
Si è svolta a Roma, il 17 ottobre scorso, una manifestazione nazionale contro il razzismo il cui successo è stato determinato non solo dalla massiccia partecipazione di immigrati, ma anche grazie all’impegno di tanti organismi di base della sinistra politica, sindacale e sociale. L’appello, dopo una sacrosanta premessa che riporta alla drammatica situazione che i migranti soffrono in Italia, quelli scampati alla morte nel Canale di Sicilia, snocciolava diverse rivendicazioni, la maggior parte assolutamente sacrosante, un paio decisamente discutibili: «Accoglienza per tutti» e dunque «Regolarizzazione generalizzata di tutti».
Etica e politica
É evidente che ogni politica, cioè ogni visione politica, non solo esprime degli interessi sociali, ma implica anche una base etica, dei fondamenti valoriali morali. A premessa: non c’è alcuna meccanica corrispondenza, né alcuna coincidenza, tra determinati interessi sociali e giudizi valoriali o aspirazioni etiche. L’esser poveri non necessariamente produce una coscienza politica egualitaria anticapitalista, come l’esser ricchi non predetermina una coscienza morale egoistica o antiproletaria.
In secondo luogo: il sicuro legame tra il livello politico e quello etico-morale non giustifica tuttavia la confusione tra i due. Facciamo un esempio tra i tanti: c’è qualcuno che possa mettere in discussione che i rivoluzionari, quale che sia la loro parrocchia, anelano ad una società senza guerre, senza violenza e senza conflitti di classe? Con tutta evidenza no, tant’è che l’argomento forte dei “realisti” è che il comunismo e/o l’anarchia sarebbero impossibili e i loro seguaci sarebbero degli inguaribili utopisti. Tuttavia, com’è noto, sono capisaldi del programma politico sia dei comunisti che degli anarchici: non solo la lotta di classe, non solo l’idea della necessità dell’uso giusto e rivoluzionario della violenza, ma pure il ricorso alla guerra ove essa fosse necessaria per la vittoria della causa emancipatrice.
C’è una contraddizione tra questi due livelli? Tra il nobile obbiettivo ultimo e l’uso di mezzi eticamente meno nobili per raggiungerlo? Non c’è, e non c’è per la semplice ragione che la lotta per il nobile obbiettivo ultimo non si svolge nel paese dei balocchi, ma in quello reale, segnato dal dominio dei pre-potenti, i quali non solo non vogliono togliere il disturbo ma, decisi a conservare la loro supremazia, sono protetti da ciclopiche cinte murarie statuali e non esitano ad ricorrere al terrore, alla repressione, alla guerra civile e alle dittature più spietate pur di restare in cima alla scala sociale.
Gli oppressi, se vogliono emanciparsi, se vogliono vincere, debbono togliere di mezzo gli oppressori con la loro panoplia difensiva, e non possono farlo che coniugando il più ampio consenso col ricorso alla forza.
Certo che dev’esserci coerenza tra fine e mezzi, che il fine deve vivere nei mezzi, che ogni azione politica dev’essere fondata su basi etiche, ma questo non inficia che la politica in quanto tale è l’arte con cui gli uomini, nelle circostanze date, realizzano gli obbiettivi che si sono posti.
Il duplice carattere della questione nazionale
Sono giuste in linea di principio le rivendicazioni «Accoglienza per tutti» e dunque «Regolarizzazione generalizzata di tutti»? Ovvero: è giusto difendere il diritto universale d’ogni essere umano a spostarsi e risiedere ove desidera e quindi a varcare liberamente le frontiere? Sì, in linea di principio è sacrosanto. Tuttavia, un diritto giusto in linea di principio, cioè sul piano etico-morale, non è detto che sia opportuno dal punto di vista politico. Politicamente parlando l’esercizio del diritto di ognuno a spostarsi e risiedere dove desidera o ritiene necessario, ove non si tratti dell’al di là o del mondo auspicabile del futuro, significa di fatto abolire gli Stati, i confini giuridicamente fissati di una nazione. Nell’al di qua, nel mondo odierno, gli stati-nazione esistono, e ad essi è riconosciuta potestà giurisdizionale entro le loro frontiere, quindi anche la facoltà di assecondare o avversare l’emigrazione o l’immigrazione di cittadini stranieri.
E’ del tutto evidente che le rivendicazioni, «Accoglienza per tutti» e «Regolarizzazione generalizzata di tutti», non sottendono solo un giudizio etico ma implicano un principio politico: la condanna degli stati-nazione come illegittimi e la loro negazione qui e ora. Chiediamoci: è nell’interesse del movimento rivoluzionario e antimperialista mondiale battersi per sopprimere gli stati-nazione? Forse che non dobbiamo distinguere tra stati imperialisti dominanti e stati semicoloniali dominati? Non è forse vero che le grandi potenze imperialistiche tendono proprio esse a spazzare vie le barriere nazionali per meglio esercitare la loro supremazia sui paesi più deboli? E non è forse altrettanto vero che questi ultimi hanno il diritto di difendersi dal saccheggio e dalla globalizzazione e quindi esercitare le loro prerogative di stati-nazione?
La riposta a queste domande è una soltanto: di contro alla devastante potenza penetrativa (economica, politica e militare) dei paesi imperialistici quelli più deboli e oppressi non solo possono ma debbono resistere, tra l’altro difendendo la loro sovranità nazionale.
Vediamo adesso la cosa dal lato dei paesi imperialistici. La musica evidentemente cambia, nel senso che gli stati-nazione-Golia o dominanti, ove non sono costitutivamente prigioni per popoli oppressi ai quali non è riconosciuta dignità nazionale e il loro diritto all’autodeterminazione (due casi su tutti: i baschi e i nordirlandesi), sono comunque nazioni imperialistiche, ovvero involucri statuali per mezzo dei quali esse sottopongo altri popoli e paesi al loro predominio. In questi casi i rivoluzionari non possono ergersi a paladini dello stato-nazione, non possono difendere in linea di principio lo stato-nazione. Strategicamente essi sono anzi disfattisti, dato che è nell’interesse delle resistenze antimperialiste indebolire le fortezze imperiali, quelle nordamericana ed europea anzitutto.
Ma anche qui corre il dovere di distinguere il grano dal loglio, la tattica dalla strategia. L’imperialismo non è un tutt’uno indistinto, ma un blocco mondiale, all’interno del quale ogni nazione ha un suo rango. Nella odierna gerarchia imperialistica, se gli U.S.A. rappresentano una potenza super-imperialistica, i sodali che come l’Italia svolgono il ruolo di comprimari sono potenze sub-imperialistiche.
In questi casi l’approccio, positivo o negativo riguardo alla difesa dello stato-nazione, non può essere deciso a priori, ma viene a dipendere da chi porta l’attacco, sia esso effettuale o simbolico.
Come in Iraq anche in Afghanistan gli antimperialisti non hanno avuto e non hanno dubbi a sostenere le Resistenze, anche quando esse hanno colpito le truppe italiane a tutti gli effetti d’occupazione. Così come è giusto difendere certe rivendicazioni libiche relative ai tempi dell’occupazione italiana. Nei casi in cui l’Italia rappresenta un simbolo di oppressione non c’è altra possibilità che essere “anti-italiani”.
Il discorso cambia quando, al contrario, ci sono di mezzo le relazioni di signoraggio con gli Stati Uniti o rispetto all’Unione Europea. E’ giusto o è sbagliato chiedere la chiusura di tutte le basi militari USA e NATO in Italia? E giusto, per due ragioni. La prima è che la chiusura delle basi americane e l’eventuale uscita dell’Italia dalla NATO sarebbero un colpo letale al blocco imperialistico che domina il mondo, e tale indebolimento sarebbe senza dubbio nell’interesse della lotta rivoluzionaria. In secondo luogo, riconsegnare all’Italia la piena potestà su ogni lembo del suo territorio, dal momento che ciò sarebbe possibile solo grazie ad una rottura che porrebbe fine alla sudditanza verso l’imperialismo USA, sarebbe una sconfitta irreparabile delle classi dominanti, vera cinghia di trasmissione di questa subalternità.
D’altra parte è giusto chiedere l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea, anche in base al criterio per cui il popolo, visto il diabolico e oligarchico marchingegno contenuto nel Trattato di Lisbona, riotterrebbe così, anche se solo formalmente, le sue facoltà sovrane.
Un atteggiamento di indifferenza o addirittura di ostilità davanti ai sentimenti nazionali o patriottici di italianità, nei casi in cui essi siano progressivi, sarebbe da parte dei rivoluzionari un errore politico imperdonabile.
Contrastare il sinistrismo
Ritenere a priori “reazionaria” ogni istanza nazionale o peggio, ogni difesa della comunità nazionale è dunque una colossale stupidaggine.
Ci sono invece in giro dei radicaloidi da salotto che considerano “reazionarie” e antidiluviane addirittura le lotte nazionali dei palestinesi o degli afghani. Questi non ne vogliono sapere che se i popoli oppressi rivendicano il loro diritto ad una nazione la ragione è che questi popoli riconoscono nella nazione non solo un diritto, vi vedono il simbolo stesso del loro considerarsi una medesima comunità. Quest’ostilità, di ascendenza anarchica e per nulla comunista, verso lo stato-nazione e ogni forma di patriottismo, o parte dal pregiudizio che la nazione in quanto tale sia un prodotto storico mostruoso oppure, vedi le fascinazioni negriane, abbraccia deliberatamente il missionarismo imperiale nordamericano. La sinistra che evoca la distruzione dello stato-nazione mentre avanza lo schiacciasassi globalista e imperialista, non fa che scavarsi la propria fossa.
L’Italia in quanto nazione è un prodotto storico complesso, risultato di grandi battaglie politiche che hanno avuto per protagonisti anche i rivoluzionari del tempo, non è solo il frutto di una “macchinazione” della borghesia. Il capitale dice Italia ma intende una fetta di mercato in cui spadroneggiare, ma l’Italia è anche diventata una comunità nazionale, per quanto forti siano stati e possano essere i suoi conflitti interni. Non scomodiamo Marx o la storiografia moderna per dimostrare che l’epoca della formazione degli stati nazionali europei è stata un’epoca rivoluzionaria e che la costituzione della nazione come comunità è stata un grande evento progressivo, anche a tutela degli oppressi, fino a prima vessati come semi-schiavi dai feudatari. E’ con la nascita della nazione che si è lentamente affermato lo “stato di diritto”, il principio che “la legge è uguale per tutti” del diritto di cittadinanza.
Né lo Stato è solo una banda armata a difesa dei dominanti. Esso ha anche un contenuto democratico, contiene conquiste sostanziali che gli oppressi hanno ottenuto a prezzo di dure e prolungate lotte. Contenuto e conquiste che infatti i dominanti percepiscono come lacci e impicci di cui vorrebbero sbarazzarsi. Non è forse vero che ogni movimento popolare difende i diritti conquistati? Non è forse vero che i movimenti contro la guerra così come altri fanno appello al rispetto della Costituzione? E’ forse sbagliato che davanti ad ogni ondata repressiva che calpesti i diritti fondamentali ogni movimento d’opposizione chieda il rispetto dello Stato di diritto? Non solo non è sbagliato, sarebbe suicida se non fosse così!
Imperialismo e immigrazione
Le due rivendicazioni «Accoglienza per tutti» e «Regolarizzazione generalizzata di tutti», pur condivisibili in linea di principio, vanno giudicate non solo dal punto di vista etico dunque, ma anche da quello della strategia rivoluzionaria, ovvero dal lato di ciò che fa gioco alla rivoluzione italiana (salvo che non si creda più o non si voglia fuoriuscire dal capitalismo). «Accoglienza per tutti» e «Regolarizzazione generalizzata di tutti» sono da questo punti di vista due rivendicazioni sbagliate in linea di fatto. Esse traducono in cattiva linea politica il giusto sentimento di disprezzo verso il razzismo, e quello etico di solidarietà umana per tutti i diseredati che cercano salvezza in Occidente. Esse rivelano il grave errore di chi schiaccia la sfera politica su quella etica, di chi riduce la lotta politica antisistemica ad astratta disputa valoriale.
Sul piano dell’analisi, pur senza fare la spocchia al desiderio di ascesa sociale di tanti disperati del sud del mondo, è chiaro come siano l’imperialismo e la globalizzazione, ammassando in un polo la ricchezza e nell’altro miseria, a causare le colossali e drammatiche ondate migratorie, obbligando milioni di diseredati a cercare un rifugio per sopravvivere nei luoghi di un’opulenza sempre più dissestata. L’emigrazione massiccia, al pari del libero flusso di capitali e merci (e per il capitale l’uomo è anzitutto forza-lavoro per la sua riproduzione) è una necessità dell’imperialismo giunto al massimo della sua tracotanza e della sua crisi di valorizzazione. Pur di alimentare i propri voraci appetititi, un pugno di giganti dell’economia, allo scopo di dilagare, di spadroneggiare, di sottomettere tutte le sfere sociali, comunitarie e di vita alla logica del capitale, chiede di spingere all’estremo la globalizzazione, agisce per spazzare via le comunità nazionali e abbattere le loro ultime barriere difensive.
Sul piano strategico è evidente che nessuna rivoluzione sociale sarà in Italia possibile senza la mobilitazione di milioni di cittadini, anzitutto degli strati più umili della società, di quegli strati che la crisi storico-sistemica del capitalismo tende a riprodurre su larga scala, a proletarizzare e a radicalizzare.
Il fatto che sia finita l’epoca delle vacche grasse, dell’opulenza diffusa, cioè che siamo entrati in un periodo storico di declino del capitalismo occidentale, getta una luce sinistra sul fenomeno dell’immigrazione. Quando il sistema economico creava ricchezza e opportunità di ascesa sociale, il razzismo e l’ostilità verso gli immigrati non erano destinati a diventare un fattore dirompente. Lo diventano oggigiorno che la crisi getta nell’esclusione sociale vaste fette del ceto medio e riproletarizza, ovvero pauperizza, lo stesso proletariato “bianco”, illusosi che il proprio imborghesimento fosse irreversibile. E’ un fatto autoevidente che questo precipitare verso il basso della scala sociale da parte di milioni di persone (siano essi dipendenti o meno), dove essi incontrano milioni di immigrati ancor più poveri di loro e per questo disposti a vendersi ad un prezzo più basso, è oggigiorno un fattore decisivo di instabilità e fibrillazione sociale. Questo incontro verso il basso, determinato dalla crisi sistemica e dalle politiche capitalistiche, non può che creare attriti sociali tra poveri, che assumono la forma repellente della xenofobia e dell’etnicismo, e che potrebbe sfociare in un vero e proprio conflitto su linee razziali.
Non è un caso che questo scivolamento o impoverimento determinino un’avanzata delle destre, più o meno populiste, sentimenti sicuritari e dunque il razzismo. Questo slittamento a destra delle masse popolari “bianche” è forse solo un antipasto, l’inizio di una vera e propria mobilitazione reazionaria extraparlamentare delle masse. Un’epoca di guerre civili potrebbe essere ineluttabile, con linee divisorie infernali, una guerra reazionaria di miserabili, facili prede tutti dei demagoghi e degli avventurieri di turno.
Conclusioni
Il problema di come affrontare il fenomeno dell’immigrazione, fuori da questo quadro, sganciato dalla prospettiva anticapitalista, può interessare i tecnici del dominio capitalista o l’esercito cattolico della salvezza delle anime, non i rivoluzionari.
Se è così una linea anticapitalista e antimperialista deve anzitutto rifiutare il campo da gioco simbolico in cui si affrontano le principali frazioni della “borghesia”: «Accoglienza per tutti» e «Tutti a mare» . Se vanno difesi i diritti sacrosanti dei migranti, va anche capito che la sensazione dei proletari “bianchi” — per cui gli immigrati vengono usati per abbassare i loro salari, per gettarli nella miseria e farli tribolare come somari — è comprensibile, oso dire legittima poiché, se non lo fosse, illegittime sarebbero anche, di converso, tutte le rivendicazioni dei medesimi soggetti “bianchi” per aumenti salariali, migliori condizioni di vita, riduzione dello sfruttamento, ecc.
Liquidare questa percezione come ”razzismo” è snobismo borghese, è un crimine politico, condurrà alla sconfitta catastrofica di ciò che resta della sinistra politica e sindacale, e rispetto alla quale, le recenti batoste, saranno ricordate come bazzecole.
Sul piano tattico «Accoglienza per tutti» e «Regolarizzazione generalizzata di tutti» sono dunque slogan suicidari, che contribuiscono a consegnare il proletariato “bianco” tra le braccia della peggiore teppaglia reazionaria. Non è dunque in questa maniera che si contrasta e si sconfigge il razzismo. Così lo si alimenta di sponda, mentre si indebolisce la presa delle forze rivoluzionarie sui loro naturali interlocutori sociali, quella parte di popolo italiana già piombata nell’inferno dell’esclusione sociale e che patisce per prima le conseguenze dell’immigrazione massiccia.
Apparentemente «Accoglienza per tutti» e «Regolarizzazione generalizzata di tutti» sono slogan estremisti e ultraradicali. Nella sostanza sono slogan sbagliati che dietro ad una parvenza etica politicamente corretta incontrano gli interessi della frazione più rapace della borghesia. Una borghesia che non è più borghesia, ma una classe di parassiti ubriaca di americanismo, che dopo avere deliberatamente voluto la corruzione del proletariato per smorzare le sue pulsioni anticapitaliste, ora lo disprezza ancor di più perché non ha più nemmeno quelle e perché si permette di plagiare i suoi stili di vita. Una classe di parassiti che ha perduto ogni etica o valore se non quello del profitto e che per questo, finita la pacchia consumistica, vuole tutti morti di fame e quindi poter liberisticamente disporre di forza-lavoro a prezzi stracciati. Una classe di scrocconi e di leccaculo, che ha perso ogni dignità di classe dirigente, che non ha più né senso storico né senso di responsabilità verso ciò che resta della comunità nazionale e che vorrebbe importare in Europa il modello americanista dei ghetti e del melting-pot.
Un nuovo movimento popolare rivoluzionario dovrà invece non solo far finta di ascoltare i proletari italiani, già precipitati nell’esclusione e della marginalità sociali o sulla strada di precipitarci; dovrà anche andargli incontro, capire le loro paure, decodificarle per dargli uno sbocco anticapitalistico e antisistemico, difendere i loro interessi quando sono legittimi. Dovrà costruire un’alleanza tra gli ultimi e i penultimi, in una lotta frontale non solo contro la ciurmaglia razzista e neofascista e l’incipiente tendenza reazionaria di massa, ma anche in opposizione al cadavere della sinistra sistemica, giustamente percepita come asservita al parassitume dominante. Gli immigrati trattati da schiavi dovranno scegliere: quelli che non accetteranno di esserlo si aggregheranno al movimento popolare, che non potrà non parlare la lingua italiana. Quelli che vorranno restare in ginocchio e comportarsi da schiavi verranno lasciati alla loro sorte.
Ciò deve essere fatto, e si illude che lo si possa fare solo su una base sindacalistica o economicistica. I tempi del minimalismo politico e del relativismo valoriale sono finiti. Grandi masse si metteranno comunque in movimento nel prossimo futuro e ci si metteranno non come pensano i dogmatici e i minimalisti ma aggrappandosi ad idee forti e concrete polarmente opposte a quelle del parassitume dominante. Tra queste risorgerà certo il socialismo, ma pure l’idea di nazione come suo involucro, come comunità popolare basata sulla fratellanza e l’eguaglianza. Contro la globalizzazione si dovranno dunque coniugare in modo rivoluzionario socialismo e identità nazionale. I sinistri discettanti e capziosi, i marxisti amanti delle diavolerie teoriche di certo faranno spallucce, lasceranno che questi simboli siano afferrati dalla demagogia neofascista.
E’ da questa patologica follia che prima di tutto occorre sbarazzarsi.
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