Geronzi: il banchiere più indagato d'Italia |
Di Piemme
La defenestrazione di Cesare Geronzi, da solo un anno Presidente delle Generali, occupa le prime pagine dei giornali generalisti di oggi, molte di più quelle dedicate dai giornali economici-finanziari, non solo italiani.Geronzi se ne va con una buonuscita di 16,65 milioni. A conti fatti, dato il breve periodo di reggenza, farebbero 48mila euro al giorno. Un po’ meno di quanto venne elargito allo stesso Geronzi quattro anni fa, quando uscì da UniCredit-Capitalia: 20 milioni, ma allora il “premio” coronava 25 anni di servizio. Molto? Moltissimo se paragonato alla liquidazione di un operaio che abbia lavorato una vita, pochino se si pensa alla buonuscita da Fiat di Cesare Romiti: 101,5 milioni.
Cesare Geronzi, un banchiere dalla lunga gavetta, passato per Bankitalia e assurto a guru della finanza italiana, con il sostegno Vaticano e la copertura politica della Dc andreottiana. Uno per le cui mani sono passati i dossier più scottanti del capitalismo italiano, il banchiere più potente e indagato d’Italia: crack Cirio, bancarotta di Parmalat, crack Italcase-Bagaglino. Uno che la sa lunga sulla guerra intestina che ha segnato la storia della finanza italiana negli ultimi decenni e i vizi e le virtù dei suoi protagonisti.
Il “ribaltone” alle Generali non occupa per caso le prime pagine. Siamo parlando di una vera e propria cassaforte della finanzia italiana, della prima multinazionale, della seconda compagnia assicurativa europea dopo Axa e avanti a Zurich e Allianz, con interessi colossali che giungono fino in Cina (si dice che sia la prima compagnia assicurativa di Polizze vita nel Celeste Impero).
“Contrasti tra la nuova generazione di finanzieri e il navigato banchiere romano in seno al Consiglio di amministrazione”, sostengono tutti i commentatori. Ma contrasti su che? Non è così facile rispondere a questa domanda, visto che il mondo dell’alta finanza rassomiglia ad una setta esoterica, i cui iniziati mantengono il più stretto riserbo sui loro dissidi e sulle loro mosse. C’è materiale a bizzeffe per la complottologia.
Due tuttavia a noi paiono le principali chiavi interpretative.
La prima, più evidente, è di natura politica. Non è un segreto infatti quanto sia profonda la simbiosi tra il mondo dell’alta finanza e quello politico. Contrariamente alla vulgata questa simbiosi è diventata quanto mai stringente con l’avvento del neoliberismo, in special modo in Italia. Il ciclo di colossali privatizzazioni, avviate proprio dal centro-sinistra negli anni ’90, ha gettato sul “mercato”, leggi dato in pasto alla finanza, i piatti più succulenti che la storia patria abbia mai conosciuto. Un giro di affari colossale, che ha consentito, anzitutto alle banche di crescere per dimensioni e fatturati (casi UniCredit e Intesa) e ai gruppi assicurativi di fare profitti senza precedenti (vedi lo scardinamento del tradizionale sistema previdenziale e il business delle polizze vita). Senza l’ausilio dei governi (della politica e dei politicanti di entrambi gli schieramenti) non sarebbe stato possibile ai pescecani papparsi piatti tanto succulenti. Il principale segno distintivo della cosiddetta “Seconda Repubblica” è stato proprio questo: il sodalizio tra la casta politica e l’alta finanza, banche e assicurazioni. Cesare Geronzi è stato un grande architetto del nuovo capitalismo italiano, quello figliato dal ciclo neoliberista, il trait d’union tra casta, curia cattolica e i pescecani del capitalismo. Dall’alto delle sue funzioni di primo banchiere d’Italia, Geronzi ha fatto politica, poiché prestare denaro è nel capitalismo la forma più efficace e diabolica di fare politica. E non si pensi che Geronzi si adoprò a coprire le spalle a Berlusconi e Mediaset. Attraverso Banca di Roma Geronzi agì come baricentro della nascente “Seconda Repubblica”, ad esempio ristrutturò l’ingente debito dell’ex-PCI (Ds), ma salvò pure dalla bancarotta sia l’Unità che Il manifesto. Per questa sua funzione di relais tra politica, chiesa e finanza si dice di Geronzi che egli sia stato teorico del “capitalismo relazionale”. Ognuno capisce cosa questo significhi.
Il “ribaltone” in Generali sembra porre fine ad un ciclo, al periodo del “capitalismo relazionale”, come se l’alta finanza, diventata maggiorenne, volesse sbarazzarsi del fardello o del peso della casta politica, in concreto di una politica il cui dominus è Silvio Berlusconi, che è anche, non si dimentichi mai, uno dei protagonisti dell’alta finanza. Per questo alcuni commentatori non hanno esitato a parlare di “sconfitta del Cavaliere”, mentre altri si attendono addirittura, e a breve, pesanti ripercussioni politiche del “ribaltone” nelle Generali. Che quest’ultimo fosse pienamente inserito nel sistema di potere berlusconiano non c’è infatti alcun dubbio.
Il fatto è che la defenestrazione di Geronzi, come segnalano i beninformati, non può essere avvenuta senza il lasciapassare, o quantomeno la neutralità, di Giulio Tremonti. Di qui l’ipotesi che quanto accaduto in Generali sia da leggere anche in chiave di destrutturazione nell’ambito del centro-destra. E siccome Tremonti è uomo della Lega Nord di nuovo, come per il caso UniCredit-Profumo, si insinua che un peso rilevante l’abbiano avuto le pulsioni anti-romane, nonché il dissidio crescente tra Tremonti e il grosso dell’accozzaglia berlusconiana.
Tuttavia non meno importanti debbono essere stati i dissidi, in seno al Consiglio di amministrazione di Generali, tra Geronzi e i suoi avversari, anzitutto l’Ad Perissinotto. Ma che tipo di dissidi? Qui tutti gli analisti fanno riferimento alla “intervista della discordia”, che Geronzi ha rilasciato al Financial Times del 16 febbraio scorso. In questa intervista Geronzi affermava che Generali avrebbe dovuto investire di più nelle banche italiane. Apriti cielo! Generali che sarebbe dovuta correre in soccorso delle banche italiane? Manco per sogno! hanno risposto a maggioranza il resto dei soci. Non è un dissidio da poco, visto l’incerto stato di salute del sistema bancario italiano, che ha in pancia circa il 55% dei tioli pubblici emessi dal Ministero dell’Economia. Un sistema traballante che, come Draghi non perde occasione di dire, abbisogna di forti ricapitalizzazioni, di iniezioni di liquidità buona, anche in vista dell’applicazione delle nuove direttive europee.
Di mezzo, data la grande liquidità di Generali, c’è quindi la valutazione del rischio di questo soccorso al sistema bancario. Un investimento a perdere secondo chi ha defenestrato Geronzi. Tanto più perché la recente cosiddetta sottoperformance di Generali nell’ultimo periodo rispetto ai suoi diretti concorrenti europei, è anzitutto dipesa dall’effetto dei titoli di stato italiani, che rappresentano una buona parte degli investimenti della compagnia triestina.
E qui siamo dunque al cuore del problema: la grande crisi del capitalismo occidentale, ed europeo in particolare, con l’Italia anello debole della catena, il cui debito sovrano rischia di soccombere sotto i colpi di una speculazione internazionale che dopo Islanda, Grecia e Irlanda, sta in questi giorni colpendo duro il Portogallo. I flussi di danari euripei possono giungere fino a Lisbona, non riusciranno a risalire il Tago fino a Madrid. Se viene giù il sistema bancario spagnolo, la speculazione travolgerà il debito pubblico italiano, e se ciò accadrà le banche tricolori salteranno come birilli, malgrado siano, per raccolta di risparmio, prime d’Europa. Risparmi che verranno immolati e polverizzati dal crollo.
Il “ribaltone” nelle Generali è un altro scricchiolio che annuncia il terremoto prossimo venturo. Ognuno per sé e Dio per tutti, questa è la massima che segue la grande finanza multinazionale davanti al rischio di crollo dei debiti sovrani. E Generali è anzitutto una potente multinazionale, per la quale le italiche formichine risparmiatrici sono solo polli da spennare alla bisogna, e che vadano al macello, se tutto viene giù, assieme al debito pubblico italiano.
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