Timo Soini, leader dei "Veri finlandesi" |
e le riflessioni di Ernesto Galli Della Loggia
«Clamorosa svolta a destra nella prospera Finlandia. Nel paese chiamato da anni "Nokia republic" ricordando le sue eccellenze globali, l'ultradestra antieuropea trionfa nelle elezioni legislative svoltesi oggi. La giovane premier centrista Mari Kiviniemi, la "piccola Merkel finnica", è la grande sconfitta (il suo partito è diventato il quarto per consensi)». Così la Repubblica del 17 aprile commentava il balzo elettorale al 20% dei populisti reazionari (dal 4% che avevano ottenuto nel 2007) nelle elezioni svoltesi in Finlandia. Un successo ancor più significativo se si tiene conto della più alta affluenza alle urne rispetto a quelle precedenti.
Il Partito dei Veri Finlandesi di Timo Soini ha centrato la sua campagna su due temi: contrasto duro all'immigrazione, con toni apertamente xenofobi, e un'aperta ostilità nazionalista all'Unione europea, soprattutto all'idea di correre in soccorso della Grecia e del resto dei PIIGS. "Prosperosa Finlandia" afferma Repubblica, ma una delle cause dello strepitoso successo della destra nazionalista e populista è certo anche il risultato della crisi economica e sociale, simboleggiata dalle enormi difficoltà di Nokia, che ha scelto la via delle delocalizzazioni e dei tagli per evitare il peggio.
Il successo della estrema destra nazionalista finlandese è solo l'ultimo atto del grande spostamento a destra che attraversa l'Europa e che fa fibrillare gli stessi paesi scandinavi (vedi il successo dei Democratici di Svezia di Jimmie Akesson nel settembre scorso). Contro ogni facile ottimismo sugli esiti e gli sbocchi della crisi storico-sistemica, i risultati finlandesi danno ragione a chi parla di "un flusso reazionario preponderante" e quindi della necessità di attrezzarsi ad una difficile resistenza, almeno nel breve medio periodo.
Anche la Finlandia dunque, di dice due cose essenziali: la crisi continua delle sinistre storiche, in ogni loro variante, e quella dell'orizzonte e dell'assetto europeisti. Le due cose si tengono assieme, visto che la crisi dell'Unione europea —che non è solo l'effetto della crisi economica— trascina anzitutto le sinistre che hanno fatto dell'europeismo cosmopolitico e della moneta unica la loro bandiera.
Siamo solo agli inizi di uno smottamento sociale e politico destinato a mutare radicalmente non solo il quadro politico nei singoli paesi, ma quello stesso dell'Unione. Un fenomeno sul quale chiunque pretenda di fare politica deve interrogarsi e dare risposte chiare.
Per questo suggeriamo di leggere con la dovuta attenzione l'analisi che Galli Della Loggia ha svolto il 20 aprile scorso sulle colonne del Corriere della Sera. Un'analisi arguta che si sofferma sulla "frattura culturale tra i verici e la base delle società europee," tra le grandi masse popolari e le élite politiche. Una frattura, aggiungiamo, che non è solo culturale, ma che è al contempo, sociale, nonché profondamente politica, poiché è anche una scissione tra i cittadini e le istituzioni, oramai irreversibilmente oligarchiche e tecnocratiche.
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NUOVI POPULISMI EUROPEI
La frattura culturale
di Ernesto Galli Della Loggia*
Per quanto tempo ancora le classi dirigenti europee adagiate nella vulgata europeistareggeranno alla pressione dei cambiamenti sempre più impetuosi che vanno manifestandosi tra le grandi masse dei loro Paesi? È questa la domanda che pongono le elezioni di domenica scorsa in Finlandia. La strepitosa affermazione del partito populista-antieuropeista dei «Veri Finlandesi », balzato al terzo posto con il 20 per cento dei voti, è l’ultimo campanello d’allarme, infatti, dopo quelli già risuonati in Italia, in Olanda, in Danimarca, in Ungheria; mentre a Parigi il Front National di Marine Le Pen già arriva nei sondaggi a insidiare il presidente Sarkozy.
L’Europa è oggi teatro di una grande, progressiva frattura culturale tra i vertici e la base delle sue società. E il nuovo populismo, di cui tanti lamentano i successi, appare né più né meno che come una sorta di nemesi che si abbatte su classi dirigenti che hanno cessato da tempo di essere «popolari», cioè di essere in sintonia con i sentimenti, gli umori, le paure e le speranze delle grandi masse. Da tempo, infatti, tutte le élite europee — in testa gli intellettuali e incluse quelle economiche — agiscono e parlano come pietrificate in una visione immobile del mondo, dominata da un pugno di principi guida: l’internazionalismo, l’espansione illimitata dell’individualismo e dei suoi diritti, l’idolatria del proceduralismo consensualistico, l’idea che l’economia rappresenti il regolatore supremo delle collettività umane.
È una visione del mondo specialmente forte nell’Europa occidentale ma che agli occhi delle popolazioni europee appare ormai sempre più incongrua rispetto ai nuovi scenari interni e internazionali. Le oscure prospettive della crescita economica; il calo demografico e l’invecchiamento con il dubbio futuro dei sistemi pensionistici; l’immigrazione; l’avvento di universi culturali, come quello elettronico- telematico, inediti e pervadenti, profondamente spaesanti; la messa in crisi degli antichi paradigmi della sessualità, della procreazione e della genitorialità: tutto contribuisce a diffondere nella massa dei meno istruiti, dei più anziani, dei soggetti deboli—cioè nella maggioranza —, un clima di inquietudine, di timori oscuri, di ricerca non tanto di sicurezza quanto di certezze, di valori stabili e riconosciuti.
È, al fondo, un’indistinta ma fortissima domanda di politica che si leva dalle viscere delle società europee. Una domanda di nuovi traguardi pratici, di nuove mobilitazioni collettive e insieme di nuovi orizzonti ideali: che le élite sembrano però incapaci di intendere e ancor più di soddisfare. Queste non si rendono conto che negli ultimi decenni, sia pure inavvertitamente, hanno privato le masse popolari della sola cultura che insieme al socialismo era valsa ad integrare le masse suddette nell’universo della modernità e nella prospettiva dell’emancipazione: la cultura della nazione. Cioè la cultura che dopo la fine del socialismo/ comunismo era l’unica in cui quelle masse erano abituate storicamente a riconoscersi. Le quali masse, adesso, sono sul punto, addirittura, di vedersi obbligate a rinunciare più o meno anche al Welfare. E dunque di restare davvero come integralmente nude di fronte alla storia.
Non è un caso se è l’Europa l’ambito dove la frattura culturale tra masse ed élite si manifesta più clamorosamente. Tutta la costruzione europea è stata portata avanti, infatti, sulla base di una drammatica sottovalutazione della politica; sulla base della convinzione che l’economia rappresentasse la dimensione decisiva, che l’economia fosse in grado di produrre la politica. Laddove, se qualcosa aveva dimostrato il Novecento, era esattamente il contrario, e cioè che deve essere la politica a comandare. Per la salvezza della stessa economia.
Così come è sempre la costruzione europea l’ambito dove il democratismo economicistico post-nazionale delle élite del vecchio continente ha avuto e ha modo, logicamente, di dispiegarsi con maggiore ampiezza. E dunque è naturale che sia regolarmente l’Unione europea quella chiamata a pagare oggi il prezzo più alto per le scelte delle élite di cui sopra. Perché mai gli elettori finlandesi o quelli di qualunque altro Paese dovrebbero mostrarsi solidali con le disastrate finanze di Grecia o Portogallo? Si può essere solidali davvero solo con coloro a cui ci sentiamo legati da vincoli di comune appartenenza, nei confronti dei quali esiste la convinzione di «stare nella stessa barca» dal momento che condividiamo con essi un’origine e un destino: e cioè, per esempio, perché siamo abitanti di una stessa patria politica. Avere una medesima moneta, invece, è tutt’altra faccenda e di ben minore valore: in nome della quale si può al massimo rinunciare a qualche vantaggio, non già fare sacrifici realmente tali. E se qualcuno si mette in testa d’imporli, come meravigliarsi se allora la terra comincia a tremare sotto i piedi, se dovunque prendono a crescere i partiti dell’atavismo, della chiusura nel comunitarismo, nel caldo della «Heimat», e infine dell’esclusione e dell’odio?
La frattura culturale
di Ernesto Galli Della Loggia*
Per quanto tempo ancora le classi dirigenti europee adagiate nella vulgata europeistareggeranno alla pressione dei cambiamenti sempre più impetuosi che vanno manifestandosi tra le grandi masse dei loro Paesi? È questa la domanda che pongono le elezioni di domenica scorsa in Finlandia. La strepitosa affermazione del partito populista-antieuropeista dei «Veri Finlandesi », balzato al terzo posto con il 20 per cento dei voti, è l’ultimo campanello d’allarme, infatti, dopo quelli già risuonati in Italia, in Olanda, in Danimarca, in Ungheria; mentre a Parigi il Front National di Marine Le Pen già arriva nei sondaggi a insidiare il presidente Sarkozy.
L’Europa è oggi teatro di una grande, progressiva frattura culturale tra i vertici e la base delle sue società. E il nuovo populismo, di cui tanti lamentano i successi, appare né più né meno che come una sorta di nemesi che si abbatte su classi dirigenti che hanno cessato da tempo di essere «popolari», cioè di essere in sintonia con i sentimenti, gli umori, le paure e le speranze delle grandi masse. Da tempo, infatti, tutte le élite europee — in testa gli intellettuali e incluse quelle economiche — agiscono e parlano come pietrificate in una visione immobile del mondo, dominata da un pugno di principi guida: l’internazionalismo, l’espansione illimitata dell’individualismo e dei suoi diritti, l’idolatria del proceduralismo consensualistico, l’idea che l’economia rappresenti il regolatore supremo delle collettività umane.
È una visione del mondo specialmente forte nell’Europa occidentale ma che agli occhi delle popolazioni europee appare ormai sempre più incongrua rispetto ai nuovi scenari interni e internazionali. Le oscure prospettive della crescita economica; il calo demografico e l’invecchiamento con il dubbio futuro dei sistemi pensionistici; l’immigrazione; l’avvento di universi culturali, come quello elettronico- telematico, inediti e pervadenti, profondamente spaesanti; la messa in crisi degli antichi paradigmi della sessualità, della procreazione e della genitorialità: tutto contribuisce a diffondere nella massa dei meno istruiti, dei più anziani, dei soggetti deboli—cioè nella maggioranza —, un clima di inquietudine, di timori oscuri, di ricerca non tanto di sicurezza quanto di certezze, di valori stabili e riconosciuti.
È, al fondo, un’indistinta ma fortissima domanda di politica che si leva dalle viscere delle società europee. Una domanda di nuovi traguardi pratici, di nuove mobilitazioni collettive e insieme di nuovi orizzonti ideali: che le élite sembrano però incapaci di intendere e ancor più di soddisfare. Queste non si rendono conto che negli ultimi decenni, sia pure inavvertitamente, hanno privato le masse popolari della sola cultura che insieme al socialismo era valsa ad integrare le masse suddette nell’universo della modernità e nella prospettiva dell’emancipazione: la cultura della nazione. Cioè la cultura che dopo la fine del socialismo/ comunismo era l’unica in cui quelle masse erano abituate storicamente a riconoscersi. Le quali masse, adesso, sono sul punto, addirittura, di vedersi obbligate a rinunciare più o meno anche al Welfare. E dunque di restare davvero come integralmente nude di fronte alla storia.
Non è un caso se è l’Europa l’ambito dove la frattura culturale tra masse ed élite si manifesta più clamorosamente. Tutta la costruzione europea è stata portata avanti, infatti, sulla base di una drammatica sottovalutazione della politica; sulla base della convinzione che l’economia rappresentasse la dimensione decisiva, che l’economia fosse in grado di produrre la politica. Laddove, se qualcosa aveva dimostrato il Novecento, era esattamente il contrario, e cioè che deve essere la politica a comandare. Per la salvezza della stessa economia.
Così come è sempre la costruzione europea l’ambito dove il democratismo economicistico post-nazionale delle élite del vecchio continente ha avuto e ha modo, logicamente, di dispiegarsi con maggiore ampiezza. E dunque è naturale che sia regolarmente l’Unione europea quella chiamata a pagare oggi il prezzo più alto per le scelte delle élite di cui sopra. Perché mai gli elettori finlandesi o quelli di qualunque altro Paese dovrebbero mostrarsi solidali con le disastrate finanze di Grecia o Portogallo? Si può essere solidali davvero solo con coloro a cui ci sentiamo legati da vincoli di comune appartenenza, nei confronti dei quali esiste la convinzione di «stare nella stessa barca» dal momento che condividiamo con essi un’origine e un destino: e cioè, per esempio, perché siamo abitanti di una stessa patria politica. Avere una medesima moneta, invece, è tutt’altra faccenda e di ben minore valore: in nome della quale si può al massimo rinunciare a qualche vantaggio, non già fare sacrifici realmente tali. E se qualcuno si mette in testa d’imporli, come meravigliarsi se allora la terra comincia a tremare sotto i piedi, se dovunque prendono a crescere i partiti dell’atavismo, della chiusura nel comunitarismo, nel caldo della «Heimat», e infine dell’esclusione e dell’odio?
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