Perché il default della Grecia è all'ordine del giorno
di Vladimiro Giacchè
Come già più volte accaduto nel corso della tempesta che dalla primavera scorsa infierisce sul debito sovrano dei Paesi europei, il governo tedesco ha affidato il compito di testare le reazioni alle sue nuove proposte alle “indiscrezioni” rilanciate dal settimanale “Der Spiegel”: una sorta di Merkeleaks. Questa volta si tratta delMeccanismo Europeo di Stabilità, una specie di Fondo Monetario Europeo, con una potenza di fuoco complessiva di 500 miliardi di euro.
Ad esso dovrebbero contribuire i Paesi membri della zona euro, in proporzione alla quota di partecipazione alla Banca Centrale Europea (quindi con un rilevante contributo italiano). Questa proposta, presentata come una grande concessione ai Paesi in crisi, è accompagnata dalla consueta lista della spesa delle cose da fare: abolire la scala mobile (abbiamo scoperto che essa è ancora in vigore in diversi Stati europei, e che alcuni governi la ritengono essenziale per motivi di equità e di stabilità sociale), alzare l’età pensionistica, mettere in costituzione il divieto di deficit pubblici, e soprattutto accettare un meccanismo automatico di sanzioni (non previsto dal Trattato di Maastricht) per chi non rientra rapidamente da debiti pubblici eccessivi.
Tutti provvedimenti assai opinabili.
Il problema, però, è che non funziona neppure la parte positiva della proposta, ossia il Fondo che dovrebbe prestare soldi ai paesi in difficoltà. Ma i prestiti, per definizione, servono soltanto a risolvere le crisi di liquidità e non quelle di solvibilità. Possono, in altre parole, risolvere soltanto condizioni di difficoltà momentanee di un Paese nell’approvvigionamento di denaro sui mercati dei capitali: quando, ad esempio, i titoli di Stato si deprezzano bruscamente a causa di un attacco puramente speculativo.
Purtroppo, però, la situazione dei Paesi europei che oggi sono nell’occhio del ciclone non è questa. La loro crisi è infatti una cronica crisi di solvibilità, perché hanno un deficit strutturale nei confronti dell’estero (ossia consumano da anni più di quanto producono). Finché si ha un deficit del genere, è inevitabile che una o più categorie di agenti economici di quel Paese accumuli debiti: si può trattare del settore privato (famiglie e imprese) o si può trattare del settore pubblico, o anche di entrambi.
Ma quali Paesi si trovano in questa situazione?
L’elenco contiene qualche sorpresa: vi troviamo infatti non soltanto Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, ma anche Francia e Regno Unito.
Tutti questi Paesi sono caratterizzati da uno scarso peso dell’industria e un peso rilevante di settori non rivolti all’esportazione (commercio al dettaglio, edilizia, trasporti, servizi al consumo e simili); in particolare, è bassa la loro quota di esportazioni verso paesi a crescita elevata.
Il cenno a Francia e Regno Unito è utile perché ci fa capire che il problema degli squilibri strutturali nei conti con l’estero non interessa soltanto i Paesi che oggi sono nell’occhio del ciclone, ma è molto più generale e potenzialmente dirompente: non è un caso che il Regno Unito vanti il record mondiale del debito complessivo (469% del Pil) e che quello francese evidenzi una preoccupante accelerazione.
Concentriamoci ora sugli Stati già investiti dalla crisi. È abbastanza chiaro che nessun prestito da parte del Fondo di salvataggio europeo potrà risolvere il problema sottostante all’indebitamento del loro settore pubblico, ossia la loro crisi di solvibilità.
Anzi, potrà solo aggravarlo: per almeno due motivi.
Il primo è ovvio: i prestiti devono essere restituiti, e perdipiù con gli interessi. Quindi, se i deficit strutturali non migliorano, i prestiti ricevuti non faranno che peggiorare la situazione.
Il secondo motivo è rappresentato dalle condizioni che accompagnano questi prestiti. Esse prevedono una forte stretta alla spesa pubblica e l’incitamento a riequilibrare i propri conti con l’estero, migliorando la competitività delle proprie merci e simili.
Il guaio è che la prima richiesta comporta una forte riduzione della domanda interna se i tagli riguardano le spese sociali, e un peggioramento in prospettiva della competitività di sistema se riguardano invece gli investimenti (ad esempio quelli in ricerca e sviluppo tecnologico, o in formazione, o in infrastrutture).
Quanto alla richiesta di riequilibrare i conti con l’estero, essendo escluse svalutazioni competitive per i Paesi che hanno adottato l’euro, è evidentemente impossibile in tempi brevi aumentare le esportazioni in misura sufficiente a riequilibrare deficit delle partite correnti che (secondo uno studio di Natixis) ammontano al 50% per la Grecia, al 20% per il Portogallo, e rispettivamente al 12% e all’8% per Francia e Spagna: non resta quindi che ridurre della stessa proporzione le importazioni. Questo significa ridurre la domanda interna in misura anche molto violenta, con l’effetto di deprimere l’economia, e quindi di ridurre le entrate fiscali, finendo con l’accrescere il deficit fiscale dello Stato.
Tutto questo spiega come mai la cura da cavallo imposta nei mesi scorsi ai paesi investiti dalla crisi, a cominciare dalla Grecia, non abbia sino ad oggi sortito gli effetti sperati. Tanto da rendere sempre più probabile quantomeno una ristrutturazione del debito pubblico greco: le probabilità che entro 5 anni la Grecia non sia in grado di onorare il suo debito sono cresciute nell’ultimo trimestre del 2010, ed oggi sono stimate al 58%. Della stessa uscita della Grecia dall’Unione Europea e quindi dall’euro (i trattati disciplinano solo l’uscita dall’Unione Europea) si parla sempre più insistentemente.
In questo modo la Grecia si riapproprierebbe, sia pure a caro prezzo, della propria sovranità monetaria.
Ma il prezzo più caro, a ben vedere, lo pagherebbero gli altri: la zona euro nel suo complesso, per il probabile scatenarsi di un effetto domino che potrebbe minacciare l’esistenza stessa della moneta unica, e comunque per il rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato dei Paesi più deboli.
E ovviamente tutti coloro, a cominciare dalle banche europee e dalla stessa BCE, che hanno in mano titoli di stato greci: le sole banche tedesche hanno in portafoglio obbligazioni greche per circa 37 miliardi di euro. Forse a quel punto qualcuno anche a Berlino e Francoforte comincerà a pentirsi di aver affrontato questa crisi offrendo soltanto prestiti, per di più condizionati all’attuazione di politiche economiche depressive.
di Vladimiro Giacchè
Come già più volte accaduto nel corso della tempesta che dalla primavera scorsa infierisce sul debito sovrano dei Paesi europei, il governo tedesco ha affidato il compito di testare le reazioni alle sue nuove proposte alle “indiscrezioni” rilanciate dal settimanale “Der Spiegel”: una sorta di Merkeleaks. Questa volta si tratta delMeccanismo Europeo di Stabilità, una specie di Fondo Monetario Europeo, con una potenza di fuoco complessiva di 500 miliardi di euro.
Ad esso dovrebbero contribuire i Paesi membri della zona euro, in proporzione alla quota di partecipazione alla Banca Centrale Europea (quindi con un rilevante contributo italiano). Questa proposta, presentata come una grande concessione ai Paesi in crisi, è accompagnata dalla consueta lista della spesa delle cose da fare: abolire la scala mobile (abbiamo scoperto che essa è ancora in vigore in diversi Stati europei, e che alcuni governi la ritengono essenziale per motivi di equità e di stabilità sociale), alzare l’età pensionistica, mettere in costituzione il divieto di deficit pubblici, e soprattutto accettare un meccanismo automatico di sanzioni (non previsto dal Trattato di Maastricht) per chi non rientra rapidamente da debiti pubblici eccessivi.
Tutti provvedimenti assai opinabili.
Il problema, però, è che non funziona neppure la parte positiva della proposta, ossia il Fondo che dovrebbe prestare soldi ai paesi in difficoltà. Ma i prestiti, per definizione, servono soltanto a risolvere le crisi di liquidità e non quelle di solvibilità. Possono, in altre parole, risolvere soltanto condizioni di difficoltà momentanee di un Paese nell’approvvigionamento di denaro sui mercati dei capitali: quando, ad esempio, i titoli di Stato si deprezzano bruscamente a causa di un attacco puramente speculativo.
Purtroppo, però, la situazione dei Paesi europei che oggi sono nell’occhio del ciclone non è questa. La loro crisi è infatti una cronica crisi di solvibilità, perché hanno un deficit strutturale nei confronti dell’estero (ossia consumano da anni più di quanto producono). Finché si ha un deficit del genere, è inevitabile che una o più categorie di agenti economici di quel Paese accumuli debiti: si può trattare del settore privato (famiglie e imprese) o si può trattare del settore pubblico, o anche di entrambi.
Ma quali Paesi si trovano in questa situazione?
L’elenco contiene qualche sorpresa: vi troviamo infatti non soltanto Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, ma anche Francia e Regno Unito.
Tutti questi Paesi sono caratterizzati da uno scarso peso dell’industria e un peso rilevante di settori non rivolti all’esportazione (commercio al dettaglio, edilizia, trasporti, servizi al consumo e simili); in particolare, è bassa la loro quota di esportazioni verso paesi a crescita elevata.
Il cenno a Francia e Regno Unito è utile perché ci fa capire che il problema degli squilibri strutturali nei conti con l’estero non interessa soltanto i Paesi che oggi sono nell’occhio del ciclone, ma è molto più generale e potenzialmente dirompente: non è un caso che il Regno Unito vanti il record mondiale del debito complessivo (469% del Pil) e che quello francese evidenzi una preoccupante accelerazione.
Concentriamoci ora sugli Stati già investiti dalla crisi. È abbastanza chiaro che nessun prestito da parte del Fondo di salvataggio europeo potrà risolvere il problema sottostante all’indebitamento del loro settore pubblico, ossia la loro crisi di solvibilità.
Anzi, potrà solo aggravarlo: per almeno due motivi.
Il primo è ovvio: i prestiti devono essere restituiti, e perdipiù con gli interessi. Quindi, se i deficit strutturali non migliorano, i prestiti ricevuti non faranno che peggiorare la situazione.
Il secondo motivo è rappresentato dalle condizioni che accompagnano questi prestiti. Esse prevedono una forte stretta alla spesa pubblica e l’incitamento a riequilibrare i propri conti con l’estero, migliorando la competitività delle proprie merci e simili.
Il guaio è che la prima richiesta comporta una forte riduzione della domanda interna se i tagli riguardano le spese sociali, e un peggioramento in prospettiva della competitività di sistema se riguardano invece gli investimenti (ad esempio quelli in ricerca e sviluppo tecnologico, o in formazione, o in infrastrutture).
Quanto alla richiesta di riequilibrare i conti con l’estero, essendo escluse svalutazioni competitive per i Paesi che hanno adottato l’euro, è evidentemente impossibile in tempi brevi aumentare le esportazioni in misura sufficiente a riequilibrare deficit delle partite correnti che (secondo uno studio di Natixis) ammontano al 50% per la Grecia, al 20% per il Portogallo, e rispettivamente al 12% e all’8% per Francia e Spagna: non resta quindi che ridurre della stessa proporzione le importazioni. Questo significa ridurre la domanda interna in misura anche molto violenta, con l’effetto di deprimere l’economia, e quindi di ridurre le entrate fiscali, finendo con l’accrescere il deficit fiscale dello Stato.
Tutto questo spiega come mai la cura da cavallo imposta nei mesi scorsi ai paesi investiti dalla crisi, a cominciare dalla Grecia, non abbia sino ad oggi sortito gli effetti sperati. Tanto da rendere sempre più probabile quantomeno una ristrutturazione del debito pubblico greco: le probabilità che entro 5 anni la Grecia non sia in grado di onorare il suo debito sono cresciute nell’ultimo trimestre del 2010, ed oggi sono stimate al 58%. Della stessa uscita della Grecia dall’Unione Europea e quindi dall’euro (i trattati disciplinano solo l’uscita dall’Unione Europea) si parla sempre più insistentemente.
In questo modo la Grecia si riapproprierebbe, sia pure a caro prezzo, della propria sovranità monetaria.
Ma il prezzo più caro, a ben vedere, lo pagherebbero gli altri: la zona euro nel suo complesso, per il probabile scatenarsi di un effetto domino che potrebbe minacciare l’esistenza stessa della moneta unica, e comunque per il rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato dei Paesi più deboli.
E ovviamente tutti coloro, a cominciare dalle banche europee e dalla stessa BCE, che hanno in mano titoli di stato greci: le sole banche tedesche hanno in portafoglio obbligazioni greche per circa 37 miliardi di euro. Forse a quel punto qualcuno anche a Berlino e Francoforte comincerà a pentirsi di aver affrontato questa crisi offrendo soltanto prestiti, per di più condizionati all’attuazione di politiche economiche depressive.
1 commento:
non c'è altra soluzione: bisogna uscire dall'euro alla svelta!
l'euro serve solo alle multinazionali europee per poter delocalizzare (e quindi licenziare in europa). per tutti gli altri, comprese tutte le imprese nazionali, è una DISGRAZIA apocalittica.
antonio.
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