domenica 13 marzo 2011

Intervista sul comunismo


Karl Marx
Marx al di la di Marx


Pubblichiamo qui sotto il primo capitolo di una lunga intervista che Moreno Pasquinelli concesse a Yuri Colombo nell'estate del 2004. 


L'intervista uscì come libro nel novembre dello stesso anno col titolo «Politicamente scorretto. I comunisti nella guerra imperialista di civiltà»



Yuri Colombo: Per lungo tempo, e forse soprattutto dopo la cesura storica del 1989-1991,  ho  pensato che il crollo dello stalinismo potesse significare un ritorno a una sorta di “età aurea” del marxismo rappresentata – in sostanza – dalla tradizione bolscevica non ancora stravolta dalla controrivoluzione staliniana. In molti dopo di allora ci sono reso conto  che un semplice «restaurazione» al marxismo si presentava impossibile, proprio per i limiti intriseci del marxismo stesso. Per esempio la concezione positivistica derivante da una concezione del processo rivoluzionario socialista direttamente collegato allo sviluppo delle forze produttive del capitalismo.
Pensi che il marxismo possa essere riformato o si debba approdare al suo “abbandono”?
Moreno Pasquinelli: Il fatto curioso è che in tutti e  due i campi, fatta eccezione per coloro che abbandoneranno,
sic et simpliciter, l’orizzonte rivoluzionario, si fece largo un’illusione: quella che sarebbe tornato in auge il “vero marxismo”. Ritornò di moda la tesi inossidabile del ritorno a Marx – che ha effettive radici religiose, dato che tutte le religioni, non solo monoteiste, covano al loro interno correnti a cavallo tra l’ortodossia e l’eresia le quali concepiscono la storia circolarmente e dunque, dopo la degenerazione e il distacco dalla “retta via dei maestri”, ci sarebbe inevitabile una rivoluzione nel senso etimologico e copernicano del termine, ovvero una restaurazione del “vero” ordine delle cose.
Per le verità fummo in pochi a perorare un ritorno a Lenin, dato che la tendenza dominante (vedi Rifondazione) era quella di “bypassare” Lenin e l’esperienza bolscevica, considerati come anticamera dello stalinismo. Fenomeno quest’ultimo, alquanto controverso, che trovo sbagliato liquidare come controrivoluzionario – se così fosse, se fosse stato semplicemente un fenomeno controrivoluzionario,  il crollo del 1989-’91 non sarebbe, com’è stato in effetti, un evento epocale, ma il mero assestamento di una controrivoluzione avvenuta a monte, negli anni Trenta.
Sta di fatto che quella del
ritorno a Marx era una pia illusione, un’illusione che ritardò una riflessione teorica radicale, che noi iniziammo a metà degli anni Novanta e che ci ha portato a convincerci della necessità di un ripensamento teorico più profondo, a porci il problema  degli ossimori, delle aporie e delle contraddizioni presenti già nello stesso impianto teorico marxiano originario. Per noi fu decisivo rompere con quella che tu chiami “concezione positivistica”, l’idea della storia come evoluzione razionale e rettilinea verso il progresso (che si sposa benissimo con lo storicismo hegeliano); la tesi che i fatti sociali ubbidiscano a leggi evolutive come quelle naturali, che dunque l’approccio al trapasso dal capitalismo al socialismo debba essere come quello di un entomologo che studia la metamorfosi di una crisalide in farfalla. L’idea di processi oggettivi meccanicamente determinati, di un rapporto invariante e incessante causa-effetto. Se ci fossimo fermati a questo, tuttavia, avremmo ritenuto sufficiente il ritorno a Lenin, dato che fu il rivoluzionario russo a spezzare nella pratica questa “grande narrazione” e, sul piano teorico, a dare corpo e sangue alla teoria della rivoluzione permanente (che in Trotsky restava una formulazione viziata da un costitutivo astrattismo), postulando una concezione multilineare e non più eurocentrica della storia, la possibilità del passaggio al socialismo senza attendere che il capitalismo dispiegasse ovunque e pienamente le sue forze produttive.
Riguardo alla questione se il marxismo debba essere riformato o abbandonato penso che non debba essere abbandonato, per due ragioni essenziali. La prima è che il socialismo, modernamente ripensato, resta la sola alternativa globale al capitalismo (ogni tentativo di costruire una terza via è infatti fallito e destinato a fallire); la seconda è che le
fondamenta teoriche del marxismo sono ancora solide, così che spazzate via le macerie è ben possibile costruirvi sopra un edificio radicalmente nuovo.

D. Maximilien Rubel nel suo Karl Marx, sostiene che “se alcuni mutamenti intervenuti nel corso del XX secolo hanno confermato le previsioni di Marx circa le conseguenze nefaste di un immenso sviluppo tecnico, gli «uomini nuovi» ch’egli aveva visto nascere all’alba  dell’età industriale, in compenso, non hanno confortato la sua speranza nella loro volontà d’emancipazione”.

R. Questo discorso richiama due livelli, uno sociologico l’altro antropologico, che evoca subito il problema dei
due Marx che c’erano in Marx. In effetti è stata smentita l’idea del socialismo come “necessità storico naturale”, come risultato obbligato dello sviluppo capitalistico. Il Marx “numero uno” era certo che il progresso tecnico e scientifico avrebbe accentuato la contraddizione tra le forze produttive e i rapporti di produzione. Declinata storicamente questa astrazione concettuale significava che lo sviluppo tecnologico delle forze produttive, portando con sé una socializzazione crescente nella sfera delle produzione materiale (con la formazione di un “lavoratore cooperativo associato” e di un “general intellect”), avrebbe fatto della borghesia una classe esclusivamente parassitaria, un ostacolo sulla via del medesimo sviluppo sociale. D’altra parte proprio la modernizzazione sociale e civile avrebbe sfornato un uomo nuovo, socialista in pectore.
C’era invece un “secondo Marx” a cui non sfuggiva (vedi i Manoscritti del ’44, l’Ideologia tedesca, gli abbozzi sul Macchinismo e certi accenni ne Il Capitale) che scienza e tecnica non sono neutrali, che il loro uso capitalistico poteva condurre anche ad uno sviluppo distruttivo. Se poi consideriamo la tesi centrale dell’alienazione, che Marx non ha mai abbandonato, l’approccio critico-negativo al progresso capitalistico è antropologico, oserei dire ontologico.
Lo sviluppo capitalistico non solo non lascia intatta la natura umana che prende in consegna dalla storia, la plasma, la ristruttura. Ferme restando certe costanti antropologiche il tipo umano medio occidentale moderno è più lontano dal socialismo di quanto non fosse anche solo un secolo fa. In altre parole non abbiamo bisogno di più progresso capitalistico, ma di meno progresso.
Tornando a Marx, non si tratta di negare che il suo pensiero avesse un lato positivista ed economicista, ma è un fatto che saranno la
Neue Zeit kautskiana, il secondinternazionalismo, ad espungere il lato critico-rivoluzionario di Marx, per affermare solo quello positivo-economicista.
Noi sappiamo oggi non soltanto che il capitalismo non cessa di sviluppare le sue forze produttive, sappiamo che la borghesia non è diventata
ex abrupto una classe parassitaria. Sappiamo che il progresso capitalistico, soprattutto nei punti alti di sviluppo, lungi dal generare una crescente socializzazione e cooperazione, produce un’atomizzazione della produzione e una verticalizzazione delle funzioni e delle decisioni per cui non abbiamo la formazione di un “general intellect” ma di un management che non solo accentra tutte le potenze mentali della produzione ma le separa dal cosmo della produzione materiale.
Sappiamo poi che il capitalismo ha fatto un uso accorto della maggiore ricchezza disponibile, al fine di integrare i lavoratori salariati nel proprio universo sistemico, rimuovendo quelle strozzature e quelle condizioni che spingevano il proletariato sul sentiero di guerra.
Se e quando il capitalismo non sarà più in grado di produrre sviluppo economico e distribuire ricchezza, quando non sarà più capace di migliorare le condizioni di vita e le aspettative crescenti della maggioranza della popolazione, di dare loro una speranza, allora e solo allora la sua civilizzazione conoscerà una crisi d’egemonia e la faccenda si farà seria, ovvero larghe masse sentiranno l’esigenza di trovare e una via d’uscita e si sbarazzeranno del loro conservatorismo.
In atre parole: il socialismo è un portato della crisi sistemica del capitalismo, non del suo sviluppo. Dove il concetto di crisi sistemica va inteso globalmente,  non economicisticamente, come melting pot che travolge struttura e sovrastruttura. Dovremo assistere a un collasso della concezione del mondo di cui la borghesia è portatrice, concezione etico-morale che si basa su tre pilastri: che la ricchezza dei popoli si misuri in denaro, che la bramosia del massimo profitto individuale sia la molla del progresso di tutti, che la “mano invisibile del mercato” sia infallibile non solo come allocatrice della ricchezza, ma come giudice che decide ciò che sia giusto o sbagliato.
È vero che senza una crisi generale del sistema non ci sarà crisi rivoluzionaria della società, ma la rivoluzione socialista è solo uno sbocco possibile della crisi rivoluzionaria, e questo sbocco dipende appunto da due fattori: dal fatto che si è andata affermando una coscienza sociale (Weltanscauung) socialistica e dalla potenza politica e organizzativa del movimento di massa. La miscela del pauperismo è certamente esplosiva, ma in assenza di questi due fattori essa può spingere larghe masse anche nelle braccia della reazione.

D.  Ma se così non è, il marxismo non cessa forse di essere “teorica scientifica” e tornare al rango di utopia tanto quanto il comunismo baluginato da Campanella, Bakunin o Blanqui?
R. Il marxismo è stato un’utopia o una scienza? Così impostata la domanda svela un approccio scientistico, neopositivistico (la classica frattura empiristica tra
giudizio di fatto e giudizio di valore) nonché una concezione cartesiana, cioè primitiva, della scienza. Non esiste una muraglia invalicabile tra utopia (gettare lo sguardo oltre l’esistente) e scienza (l’analisi rigorosa della realtà fattuale). Marx era sia un utopista, poiché immaginava il socialismo in un futuro più o meno lontano, ma anche uno scienziato dal momento che ha costruito ex-novo dei protocolli d’indagine, una metodologia analitica e una fisiologia del capitalismo, quindi scoperto alcune leggi di movimento del sistema. E per fortuna che Marx era anche un utopista! Egli ha demolito teoricamente, grazie al materialismo storico, la tesi dell’eternità del capitalismo, ma lo ha potuto fare solo grazie al sacrosanto sostrato utopistico che lo animava, che lo portava non solo a detestare il capitalismo in fasce ma a trascenderlo.
Anche nel campo delle cosiddette scienze naturali non ci sarebbe stata evoluzione senza gli scienziati “utopisti”, coloro che hanno spinto la loro immaginazione e la loro ricerca oltre i luoghi comuni, i modelli e i paradigmi tradizionali. Ciò è tanto più valido nel campo delle scienze sociali
Il fatto che alcune leggi si siano rivelate errate inficia la natura scientifica del marxismo? Questa obiezione viene comunemente dai liberali o dai neofiti del liberalismo i quali separano seccamente
i giudizi di fatto da quelli di valore e che sono tutti, a vario titolo, sostenitori di Popper e della sua teoria della “società aperta”. Dimenticano che proprio in base alla teoria epistemologica popperiana, detta della falsificazione (la falsificabilità e non la verificabilità caratterizzerebbe le teorie scientifiche) il marxismo è una scienza per eccellenza. Possiamo negare che Pitagora abbia dato un contributo straordinario alla matematica solo perché si scoprirà l’incommensurabilità tra il lato e la diagonale del quadrato? O affermare che la geometria euclidea sia spazzatura perché è stata smentita la validità universale dell’assioma secondo cui la somma degli angoli di un triangolo è di 180°? O negare le straordinarie scoperte di Newton perché successivamente il suo modello cosmologico dello spazio e  del tempo assoluti verrà superato?
Fatta questa difesa d’ufficio dell’utopismo ritengo in effetti che nel marxismo ce ne sia troppo e che occorra sbarazzarsi di questa zavorra. Mi riferisco anzitutto alla tesi dell’estinzione totale dello Stato nel comunismo, tesi che rimanda alla sua filiazione anarchica e chiliastica che a noi pare, effettivamente, del tutto priva di fondamenta scientifiche.
D: L’estinzione dello Stato rappresenta un architrave non solo del marxismo ma di tutta la teoria comunista. Vorrei che non si facesse confusione: l’idea di Stato rimanda a una struttura amministrativa  militare separata dal complesso della comunità. Lo Stato è una forma storicamente determinata dell’organizzazione sociale. A me sembra che dobbiamo invece liberarci di un’idea di una società senza più alcun potere. Non esistono società senza potere perché non esistono società senza conflitti. E la democrazia non può limitarsi alla rappresentazione ma deve essere partecipata.

R: La centralità della questione dello Stato è direttamente proporzionale alla sua complessità. Per una comprensione delle nostre concezioni rimando alla lettura del saggio  Libertà e Comunità, pubblicato in due parti nei numeri  31 e 32 di Praxis, rivista che animo da qualche anno con altri compagni. In buona sostanza noi riteniamo che la tesi dell’ineluttabile estinzione dello Stato, perorata da Marx, Engels e Lenin, sia debole nelle sue fondamenta sia filosofiche e fallace in quelle scientifiche. Filosoficamente parlando quest’idea recupera una concezione provvidenzialistica e religiosa della storia, per cui il comunismo appare come una specie di paradiso terrestre dopo il giudizio universale, un paese della Cuccagna e dell’abbondanza dove regnano l’armonia e la felicità. In Stato e rivoluzione Lenin, riprendendo a spada tratta un noto passaggio di Engels nell’AntiDühring, immagina l’estinzione dello Stato come “un processo di storia naturale”, per cui il comunismo sarebbe la necessitata conseguenza della stessa evoluzione capitalistica. Al provvidenzialismo si aggiunge quindi una dose massiccia di evoluzionismo darwiniano.
Siamo alle prese con un evidente paradosso. Da Marx a Lenin si insiste che non si debbono cucinare le ricette del futuro, che non si possono fare congetture su quel che non si può sapere, e non si avvedono che la idea dell’estinzione dello Stato è, tra le congetture e le ricette, la più enorme.
Cosa affermavano in estrema sintesi i nostri maestri? Essi enunciavano il più classico dei sillogismi aristotelici per cui, date due premesse non si può che avere una conclusione e una sola. La prima proposizione o premessa è che lo Stato sorge solo ove esistano conflitti antagonistici; la seconda è che lo Stato è principalmente, se non esclusivamente, una banda armata a difesa degli interessi della classe dominante. Da queste due premesse discende logicamente la tesi conclusiva: che una volta eliminate le cause di questi conflitti non ci sarebbe più stato bisogno di un’entità politico-statuale. È evidente il carattere assiomatico e logico-formale di questo teorema, dove la tesi è l’inevitabile risultato delle premesse. Ma allora, se mostrassimo che le premesse sono fallaci, crollerebbe anche la soluzione.
Anzitutto è semplicistica l’idea che lo Stato sia una mera sovrastrutturaconsista e consista esclusivamente nell’apparato repressivo della classe dominante, che quindi esso sorga solo ove la comunità sia spezzata in due classi antagoniste. Un’attenta analisi storica mostra invece che le società umane, una volta uscite dalla pura economia di sussistenza, ad un dato sviluppo delle forze produttive e della divisione del lavoro, debbono fissare regole di convivenza e quindi degli strumenti affinché esse siano rispettate. Pur in assenza di classi antagonistiche le comunità dovevano quindi autoamministrarsi e autogovernarsi. Dopo una lenta e complessa evoluzione questo processo sfocia nella separazione tra amministrati e amministratori, tra governati e governanti, selezionando una casta sociale, spesso sacerdotale, preposta all’esercizio del potere politico. Lo Stato, pur in forma primitiva, sorse dunque ben prima della frattura della comunità in vere e proprie classi antagoniste. Lo Stato ha una sua storia, non è comparso bello che fatto.
In conclusione, anche rimosse le cause economiche delle ineguaglianze sociali, anche spariti i conflitti di classe, non per questo la comunità cessa di aver bisogno di regole, di amministrazione, di governo. Poiché una comunità vivente, per quanto comunista, deve pur prendere delle decisioni sociali, adottare misure politiche piuttosto che altre. Avremo quindi un confronto, una dialettica di posizioni e anche dei conflitti. A meno che non si pensi che nel comunismo ogni cosa sia miracolosamente decisa all’unanimità (l’agostiniana era aurea o della beatitudine) , avremo maggioranze e minoranze, quindi la necessità che queste accettino le decisioni prese a maggioranza, e ove esse decidano legittimamente di contrastare queste decisioni, la maggioranza ha il diritto-dovere di applicarle. Ciò implica che lungi dall’abolire la democrazia, il comunismo la realizzerà compiutamente. Siamo ben lontani dunque da ogni anarchismo o illusione chiliastica.

D: Marx ed Engels sostenevano non solo che “il proletariato ha una missione storica” da compiere ma anche il capitale: esso deve spazzare via i residui precapitalsitici nei paesi arretrati. Sostenevano l’idea che il comunismo si avvicinava tanto più le rotaie della Western Union & Pacific avanzavano distruggendo le comunità dei pellerossa, che il colonialismo britannico distruggendo le vecchie strutture sociali dell’India svolgeva un ruolo progressivo. Oggi sappiamo, dalla moderna antropologia, che la qualità di vita nelle società “primitive” o “arretrate” non era poi peggiore di quella nelle società industriali.
R: L’idea che la storia abbia un
senso, sia esso la libertà hegeliana o il progresso comtiano, è stata smentita dall’esperienza storica come dalla critica filosofica. Sono gli uomini che danno un senso alla storia, che altrimenti non ne avrebbe alcuno. Non c’è dubbio che Marx ed Engels (più il secondo del primo) adottarono la filosofia della storia hegeliana (entificazione della storia), l’idea per cui essa ubbidirebbe ad un piano provvidenziale inesorabile.
Marx prima invertì il soggetto ponendo l’uomo al posto dello Spirito Assoluto poi, allontanandosi da Feuerbach, sostituì il proletariato all’uomo. Non andremo da nessuna parte se non portiamo fino alle estreme conseguenze la rottura con lo storicismo, rottura che lo stesso Marx abbozzò nelle geniali Tesi su Feuerbach. Quando critichi come idealistica la tesi della “missione del proletariato”, quando spieghi che il proletariato non è un ente metafisico, quando prendi atto del fatto che esso non possiede come costitutiva la capacità di costruire il socialismo (fatto dimostrato chiaramente dalla dissoluzione dell’URSS, dove i proletari non hanno alzato un dito né per rovesciare la camarilla burocratica prima né per fermare la restaurazione capitalistica dopo), gran parte dei rivoluzionari, in assoluta buona fede, ti attaccano con l’argomento per cui, se non ci fosse più un “soggetto rivoluzionario” la lotta comunista non avrebbe più alcuna solida base d’appoggio e tutto andrebbe a rotoli.
Ma è ovvio che per abbattere il capitale e costruire il socialismo occorrono imponenti forze sociali! Però atteniamoci ai fatti. Se guardiamo alla storia di tutte le rivoluzioni sociali del Novecento nessuna di esse è stata fatta da un “soggetto” monoclassista. Nonostante la vulgata, nemmeno quella russa ha visto la classe operaia come forza motrice fondamentale: nel 1917 i bolscevichi erano una minoranza tra gli operai, e lo sono restati anche dopo. In Cina e in altri paesi le forze motrici della  rivoluzione sono state addirittura le classi contadine. Le rivoluzioni sono una cosa seria, sono anzitutto grandi rotture storiche in cui moltitudini entrano nell’arena della lotta politica. Pensare che questo protagonismo sia determinato solo dalla operaistica “composizione di classe” è una tesi destituita di ogni fondamento. Per dirla in un altro modo, è sbagliato pensare che sia la composizione del capitale dei tempi di sviluppo a determinare la composizione del movimento rivoluzionario in tempi di crisi. Ogni crisi rivoluzionaria sconvolge la formazione sociale, polverizza il suo tessuto, scompone e ridisloca ogni gruppo sociale, per cui avremo un precipitato rivoluzionario gioco forza eterogeneo, come diceva Lenin: “un fiume in piena che raccoglie mille rivoli”.
Intestardirsi, illudersi, che la “classe operaia” sia deputata ad essere motore e cervello della rivoluzione socialista è un’illusione semi-religiosa. Invece il problema reale è costruire l’organizzazione della rivoluzione, ovvero lo strumento con il quale indirizzare quel torrente sociale in piena verso il socialismo; indicare come esso possa guadagnare la maggioranza (egemonia sociale e politica), senza illudersi che il modello russo sia universalizzabile. Non pensiamo, insomma, che le future direzioni rivoluzionarie saranno monopartitiche come fu quella bolscevica e riteniamo che la molteplicità delle forze sociali che scenderanno in campo vorrà essere rappresentata in maniera plurale: per usare una parola desueta, frontista.
Se togliamo al concetto di missione il suo sostrato rmetafisico, se per missione intendiamo l’adempiere ad un determinato compito storico e se assumuimao che questo compito è l’edificazione del comunismo, avremo che esso compete al movimento reale dei comunisti, il quale può vincere solo se trascina e orienta la maggiornza. Che poi entro questa maggioranza debba esserci una forza motrice sociale che per convenzione chiamiamo “proletariato”, è evidente, a patto di non scambiare il proletariato concretamente esistente con quello del Libro, a patto di non confondere il soggetto (la classe) col predicato (la sua missione). L’accento va posto sul movimento politico non sull’elemento sociologico in sé, poiché è questo movimento che lega soggetto e predicato. Invece una certa vulgata immagina che questo legame sia l’inevitabile risultato dell’inasprirsi del conflitto sociale.
Sul carattere “progressista” del colonialismo occorre ristabilire la verità. Non voglio dilungarmi sul piano esegetico e filologico, ma è inoppugnabile che, se non Engels, Marx si sbarazzò dell’illusione sviluppista. Inizialmente Marx sosteneva il colonialismo inglese in India, successivamente si ricredette e simpatizzò, utilizzando argomenti attualissimi, la resistenza anticoloniale cinese. Prima condannò l’indipendentismo irlandese, poi ritenne che la lotta nazionale in Irlanda era addirittura la leva della stessa rivoluzione sociale in Inghilterra. Nel 1848 disprezzava gli slavi del Sud (e i greci) come popoli barbari e pedine della zarismo russo, in seguito aggiustò il tiro. E quando alla fine degli anni Settanta del XIX secolo i populisti gli posero la cruciale domanda: “perché mai il popolo russo per arrivare al socialismo dovrebbe ripercorrere tutte le tragiche e dolorose tappe dell’accumulazione capitalistica primitiva inglese e non piuttosto lanciarsi prima verso il socialismo sfruttando le tradizioni comunitarie dei contadini”?; Marx rispose, inaspettatamente, che il suo modello non era prescrittivo e che in effetti, nel contesto della rivoluzione europea, la Russia avrebbe potuto saltare le tappe e costruire il socialismo anche utilizzando a proprio vantaggio le tradizioni dell’obscina[i]. Che è più o meno quanto accadrà con l’Ottobre, a dispetto dei Plechanov che accusavano Lenin di blanquismo e consigliavano di consegnare il potere alla borghesia aiutandola a fargli sviluppare le forze produttive senza le quali la rivoluzione sarebbe miseramente fallita.

D:
Potremmo quindi dire che tanto più si sviluppa il capitalismo e tanto più diventa complicato e difficile rovesciarlo?

R: Certo. Almeno dove il capitalismo non si sviluppa in manera sperequata, esso consolida le sue radici, plasma la società attorno a se stesso, incorpora e neutralizza le spinte sovversive, mentre il movimento rivoluzionario, di converso, può svilupparsi solo se e ove il capitalismo non sia in grado di rafforzarsi. Ovvero: siccome sono antitetici, l’uno si nutre dell’altro, l’uno si afferma sulle disgrazie dell’altro. Le teorie, anche le più complesse, sono indispensabili, ma non possono negare l’evidenza e il buon senso politico.
Noi abbiamo usato anni fa una metafora: i paesi arretrati sono più lontani dal socialismo ma più vicini alla rivoluzione, mentre quelli occidentali, sono più lontani dalla rivoluzione ma più vicini al socialismo. Si tratta, beninteso, di un ossimoro che va preso con le molle, ma che esprime una verità.
Scordiamoci l’ipotesi idilliaca che la rivoluzione possa maturare in un paese ricco di risorse produttive e culturali (tali che lo Stato socialista possa facilmente soddisfare le sue promesse di emancipazione sociale) e che veda allo stesso tempo la maggioranza pronta a sbarazzarsi del capitalismo. Scordiamoci le nozze con i fichi secchi. Le masse dei paesi più sviluppati e ricchi, siccome hanno usufruito di consistenti privilegi rispetto alla sterminata massa pauperizzata del mondo sono, almeno in qusto fase storica, indiscutibilmente assimilate nel sistema, i proletari non disprezzano di essere divenuti “ceto medio”, al massimo chiedono delle modeste riforme e si oppongono all’ingordigia dei capitalisti, ai quali rimproverano non il fatto di essere i proprietari dei mezzi di produzione e i demiurghi del mercato ma la mancata equa distribuzione della ricchezza.
È sintomatico che dicendo queste cose veniamo accusati dai marxisti “ortodossi” non di scoprire l’acqua calda ma di bestemmiare. Invece questo processo non era sfuggito a Engels il quale rispose ad un amico, cito a memoria: “Mi chiedi cosa pensano gli operai inglesi del colonialismo. Esattamente ciò che pensano della politica in generale: lo stesso dei borghesi. Gli operai si godono allegramente la loro parte del banchetto delle colonie e del monopolio inglese del mercato mondiale”. Né a Marx il quale nel 1865 lapidariamente disse ad un suo amico: “La classe operaia o è rivoluzionaria o non è nulla”.
Qui in Occidente, la rivoluzione, se ci sarà, se non sarà portata da fuori in punta di baionetta, giungerà dopo una crisi profonda, dopo un lungo periodo di sofferenze sociali che faranno a pezzi l’incantesimo consumistico e progressista e l’accoppiata “prosperità crescente-progresso incessante”. Per essere più precisi: in Occidente avverrà il contrario che in Russia: qui avremo prima le guerre civili e poi, semmai, le rivoluzioni. Bisogna attrezzarsi a questo scenario.

D: Marx ed Engels non hanno avuto la possibilità di conoscere l’opera di Freud e poi l’applicazione della psicoanalisi alla scienza sociale critica (Reich, Fromm, Marcuse, ecc.). Inoltre nel XX secolo lo Stato ha assunto un ruolo, anche economico, gigantesco come del resto l’industria culturale. Il capitale ha anche applicato la psicologia al marketing (il plusvalore non va solo prodotto ma anche realizzato). Ha ancora senso, dopo tali mutamenti, parlare di struttura e sovrastruttura?
D: Non abbiamo dubbi, occorre continuare sul solco della
Scuola di Francoforte nonché dei praghesi (mi riferisco a Mukarovsky ma anzitutto a Robert Kalivoda), incorporando la psicoanalisi al marxismo. Mi pare evidente che se l’uomo è soggetto e oggetto della nostra prassi trasformatrice, occorre conoscerlo a fondo, e in questo campo Freud ci ha consegnato contributi imprescindibili. Il che non significa sposare tutte le sue tesi, tanto meno il pessimismo ontologico riguardo alla natura umana a cui giunse al termine della sua straordinaria avventura scientifica  – mi riferisco alla presunta “pulsione di morte” che segnerebbe costitutivamente il destino umano, una specie di peccato originale della specie.
In generale: non si esce dalla crisi del marxismo solo con le nostre forze, occorre recuperare quanto di meglio hanno prodotto le scienze e le filosofie non marxiste. Mentre tutto il comunismo precipitava nel dogmatismo, nonostante le furibonde risse ideologiche interne, un gruppo di intellettuali francofortesi, dietro al motivo formale dell’importanza della sovrastruttura, avviava una ricerca sulle società capitalistiche che è di una straordinaria importanza teorica. Soprattutto dopo l’esilio americano essi, seppur non omogeneamente, proporranno una fisiologia e un patologia del capitalismo che restano insuperate per acume analitico e rigore concettuale. Tra questi Marcuse seppe tirarne alcune conclusioni politiche da cui non possiamo prescindere. Egli previde l’americanizzazione dell’Europa e, conseguentemente, la morte del vecchio movimento operaio. Ma su Marcuse spero avremo la possibilità di tornare durante l’intervista.

D: L’importanza del contributo di Marx alla critica del Capitale, delle sue leggi di funzionamento è fuori discussione. Il problema è che dopo Marx, nella seconda metà del XIX secolo, si è imposta un’interpretazione della sua opera come un sistema autoreferente, una catechesi, ma una vera e propria ideologia. Korsch si stupì già nei primi anni Venti che il marxismo non fosse in grado di sviluppare una critica materialistica di se stesso[ii].

R: Come accennavamo si può discutere dell’invalidazione eventuale di alcune leggi marxiane, non c’è dubbio tuttavia che Marx abbia colto non solo le principali caratteristiche del modo capitalistico di produzione (tra cui la sua tendenza a divorare tutto ciò che trova sulla sua strada), ma il fatto che esso è costitutivamente contradditorio e che il suo sviluppo non è solo diseguale ma antagonistico. Riguardo le
leggi voglio subito dirti che sulla vexata quaestio della caduta tendenziale del saggio di profitto, non mi convincono coloro che affermano che non sia solidamente basata – ritengo, ad esempio, che essa ci aiuti a comprendere ciò che spinge il capitale non solo a cercare nuovi mercati di sbocco per le merci ma pure per gli investimenti, andando a produrre dove i costi di produzione sono decisamente più bassi, ovvero andando a succhiare plusvalore assoluto e non solo quello relativo, che scende appunto tendenzialmente con l’aumento della composizione organica del capitale medesimo.
Così come non condivido coloro che negano la validità della legge del valore in quanto non davvero descrittiva del movimento basilare del modo di produzione capitalistico. Paul M. Sweezy a suo tempo propose un altro modello. Gli economisti del capitale altri ancora. Che sia benedetta questa discussione! I comunisti non possono che guadagnarci da uno scontro stringente coi loro critici: o attraversiamo queste forche caudine o è meglio chiudere bottega. Non le passeremo indenni, lasceremo sul terreno altri cadaveri, come ci lasciammo dietro di noi quello del brillante Colletti. I dottrinari che si  si attarderanno talmudisticamente alla difesa dei dogmi e quelli che oggi ci biasimano, rischiano, come già accaduto, di raggiungere  le file dei rinnegati.
Questi dottrinari si genuflettono davanti all’icona della Terza Internazionale, ma non si avvedono che essi in realtà feticizzano l’ortodossia della Seconda, un’eredità pesantissima dalla quale neanche i comunisti degli anni ruggenti, convinti com’erano dell’imminente “fine del mondo”, si liberarono. I terzinternazionalisti (per non parlare dei quartinternazionalisti) restarono prigionieri dello stesso finalismo deterministico, dello stesso meccanicismo economicista e, nonostante gli sforzi di Lenin, dello stesso eurocentrismo.
Tu parli di Korsch, ma anch’egli ebbe delle oscillazioni. Si illuse di risolvere la controversia sulla leninista centralità del partito (con i suoi ossimori) raccogliendo da Rosa Luxemburg il miraggio idealistico che le masse erano autosufficienti, che ce l’avrebbero fatta spontaneamente e senza alleanze sociali, senza una direzione d’avanguardia, con i loro bei Consigli (che chissà perché restarono tutti invariabilmente a maggioranza socialdemocratica). Non era una soluzione ma la rimozione della problematica leninista “partito-masse”; si trattava di una soluzione apparentemente di sinistra, ma in realtà profondamente kautskiana, della tesi del “partito di tutta la classe”, fondata sull’idea evoluzionista (Kautsky non negherà mai di essere un darwiniano) che la direzione della storia era già scritta e che non di dovesse che dare una spallata finale per gettare nella pattumiera i  maledetti “parassiti” borghesi. L’ultimo Korsch, quello che recupera con Lenin la centralità, certo problematica, del soggetto nella forma del Partito, a me pare quello migliore. (Fine)




[i] Sul ruolo progressivo del capitalismo e del colonialismo, sulla “questione nazionale” e il “positivismo” marxista rimandiamo ad alcuni titoli fondamentali per inquadrare il dibattito:  [a cura di Bruno Maffi] K. MARX-F.ENGELS India, Cina, Russia (Il Saggiatore, Milano, 1960); [Critique Special Issue, 18-19 R. ROSDOLSKY Engels and the “Non historic peoples: the national question in the revolution of 1848. (Critique Books, Glosgow, 1996), J. CAMATTE Comunità e comunismo in Russia (Jaca Book, Milano, 1972). T. ADORNO-M.HORKHEIMER Dialettica dell’illuminismo (Einaudi, Torino, 2003)
[ii] Per l’opera di Korsch rimandiamo alla monografia curata da G.AMICO Il “rinnegato” Korsch. Storia di un’eresia comunista. (Giovanetalpa-Colibrì, Paderno Dugnano, 2004). 

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