"Scontro tra clan per la spartizione della torta petrolifera" |
di Grignetti Francesco*
Due settimane dopo la grande rivolta, sulle scrivanie del governo sono arrivati finalmente i rapporti che documentano quanto accaduto davvero in Libia. E sono sorprendenti. Innanzitutto viene una precisazione: la Libia è ricca, per entrate avrebbe il Pil della Norvegia, ma a Tripoli non è mai nato uno Stato moderno. Il potere come cent'anni fa resta articolato in clan, le «cabile», in perenne lotta tra loro per la divisione dei proventi del petrolio. Altro che islamisti, dunque. Il problema sono i soldi.Sui clan per quarant'anni ha imperato Gheddafi, la sua famiglia e la sua tribù. Ma i rapporti tra le cabile della Cirenaica e il dittatore si erano deteriorati gravemente negli ultimi tempi. E il raiss con quelli di Bengasi, tradizionalmente ostili al suo potere, ha usato il pugno di ferro: 1200 morti per reprimere una rivolta nel 1996, altri 14 morti per i moti del 2006 quando fu incendiato il consolato d'Italia. Stessi i luoghi della repressione. Stessa la persona che fisicamente rappresenta le vittime bengasine (e le cabile di riferimento): l'avvocato Fethi Tarbel, noto attivista dei diritti umani, il quale da tempo porta avanti un'impegnativa causa di risarcimento a nome di oltre mille famiglie.
Il 15 febbraio, l'avvocato Tarbel è stato arrestato con una scusa. Agli occhi dei bengasini era l'ennesimo trucco di Gheddafi per evitare i risarcimenti ai parenti delle vittime. E così il giorno dopo, sull'onda dell'emozione per quanto accaduto a Tunisi e al Cairo, ecco la prima scintilla della rivolta: un centinaio di familiari si sono radunati davanti a un commissariato di Bengasi per chiedere la liberazione del loro avvocato.
Quel sit-in è finito malissimo, a notte fonda, con disordini e scontri di piazza. E il 17 febbraio, data fatidica della rivoluzione, c'è stata la replica. Ma questa volta i bengasini si sono presentati armati. Alcuni reparti dell'esercito, più fedeli alle cabile che a Gheddafi, hanno appoggiato la rivolta. Ne è nato un assalto alla Guardia presidenziale, lo zoccolo duro dei gheddafiani e dei mercenari. Si è sparato con le armi pesanti. Si sono contati a centinaia i feriti e i morti. E da quel momento la Libia si è dissolta in un batter d'occhio.
Gheddafi ci prova, dunque, a presentare la rivolta come un complotto di Al Qaeda perché gli fa comodo spaventare una volta di più l'Occidente. Ma la questione è molto più semplice. Epperò più complicata al tempo stesso. Già, perché se a Bengasi c'è ora un abbozzo di governo alternativo, rappresentativo delle maggiori tribù del Paese, il clan di Gheddafi è ancora abbastanza unito nel sostenere il «suo» dittatore. Non solo. Il raiss, poco fidandosi delle forze regolari, e a ragione, negli anni ha lasciato deperire l'esercito. Co- me si ricorderà, la Libia è stata sottoposta a un embargo severo per quasi dieci anni. Dacché ha potuto ricominciare ad armarsi, però, tutto è finito alle quattro Unità d'élite che gli sono fedeli. E in pratica la forza militare è ancora saldamente nelle sue mani. Se Gheddafi decidesse di fare sul serio la guerra, la Libia rischia uno spaventoso bagno di sangue.
Ecco spiegate le enormi prudente del governo italiano. Ber-lusconi e i suoi ministri sono diventati il bersaglio delle critiche più caustiche da parte dell'opposizione e anche in sede europea non mancano le puntualizzazioni. Eppure c'è una logica in tanta cautela.
Fino a ieri era la sorte dei nostri connazionali isolati nel deserto. Da oggi è la preoccupazione di non far finire un Paese tanto vicino, che è il perno della nostra politica energetica, e porta di accesso dall'Africa all'Europa, nel gorgo della guerra civile.
Intelligence e diplomazia italiana hanno fallito nel prevedere la dissoluzione del regime, ma ora, attivate le antenne, ritengono che la strada delle sanzioni, peggio ancora di qualche intervento armato, sarebbero il regalo migliore per Gheddafi, pronto a fare la vittima dei rapaci occidentali. Il consiglio è di muoversi con passo felpato e di inventare un'uscita di scena onorevole per il dittatore: tutto purché si eviti la carneficina e si possa subito negoziare con i nuovi potenti.
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