L'altra faccia della medaglia
I due volti dell'emigrazione tunisina
Di GMB*
Debbo ringraziare gli amici del Campo e di Rivoluzione Democratica per avermi offerto la possibilità di far parte della Carovana di solidarietà con la rivoluzione tunisina. Un’esperienza davvero straordinaria, un viaggio nella Tunisia più profonda, quella che non ti aspetti, quella che ti lascia un segno.
Ho approfittato della Carovana per osservare il fenomeno dell’immigrazione non da questo lato del Mediterraneo, ma da quello opposto, da dove partono i migranti. Chi è che davvero parte per raggiungere Lampedusa rischiando di affondare senza giungere alla meta? Quali sono le ragioni di questo esodo? Quali le aspettative di chi abbandona i propri cari e il suo paese, forse per sempre? Come funziona e viene organizzato il flusso migratorio? Qual è l’atteggiamento delle autorità locali? Come questo esodo viene percepito dall’opinione pubblica tunisina?
La prima scoperta è contundente. Se in Italia gli sbarchi a Lampedusa occupano le prime pagine dei giornali e rappresentano la prima notizia dei Tg, in Tunisia è tutto il contrario. I media non ne parlano affatto e, quando ne parlano abbiamo a che fare con stringati articoletti di cronaca, relegati nelle pagine interne. La Tv tunisina, grottesca copia di quella berlusconiana, è un susseguirsi di talk show in cui di tutto si chiacchiera, men che meno dell’emigrazione, come del resto dei drammatici problemi sociali che attraversano il paese. L’emigrazione di massa è un tabù. E anche tra la gente comune si preferisce, almeno con noi occidentali, svicolare, rimuovere.
Le autorità, intendo il governo provvisorio, che si barcamena tra una crisi e l’altra, sono senz’altro i primi responsabili di questa sorprendente rimozione del fenomeno dell’emigrazione dal dibattito pubblico. La prima ragione è facile da capire: ogni governo, ogni potere, tentano di nascondere i drammi sociali, essi devono abbellire la realtà per turlupinare i cittadini, allontanando critiche e accuse. Ma non c’è, almeno in Tunisia, solo questo aspetto ideologico. C’è una ragione più sostanziale, strutturale, che spiega il silenzio, ed è che le autorità non hanno alcuna intenzione di arrestare l’emoraggia, l’esodo massiccio di giovani. Quel che ho capito venendo qui è che la classe che in barba alla rivoluzione ancora comanda e tiene saldamente nelle sua mani le leve del potere, non solo non ha alcuna intenzione di bloccare l’emigrazione, ma, pur senza dirlo, la auspica e la favorisce.
Certo, sarà anche, come dicono dalla parti della sinistra radicale, perché molto spesso, quelli che partono, sono proprio i giovani che sono stati protagonisti della rivolta di gennaio, e quindi il potere ha tutto l’interesse a sbarazzarsene, a toglierseli dai piedi. Tuttavia questo atteggiamento di omertà davanti al fenomeno dell’emigrazione corrisponde ad una visione di lungo periodo, ben precisa. Di che parlo? Parlo che in Tunisia la disoccupazione reale, anzitutto giovanile, sfiora il 50 per cento, nelle zone più depresse del Sud e dell’Ovest siamo quasi al 90 per cento. L’economia tunisina non ha alcuna speranza di poter riassorbire questa massa di forza lavoro in eccesso, per questo tanto vale espellerla, proprio per disinnescare la vera e propria bomba sociale ad orologeria della disoccupazione di massa. Una bomba che è, di tutt’evidenza, anche demografica.
E’ questa politica di incoraggiamento sostanziale dell’emigrazione che spiega la linea di “tolleranza attiva” seguita dalle forze di polizia, marittime e di frontiera della Tunisia. Parlando con i cittadini comuni, ma pure con le famiglie dei migranti, all’unisono emerge la medesima denuncia: «la polizia sa benissimo da dove i giovani si imbarcano, quando si imbarcano, conoscono benissimo chi organizza questo traffico. Non fanno niente, anzi proteggono i trafficanti».
Eravamo, l’altro ieri, a far visita ai familiari dei giovani il cui barcone si è affondato, la notte del 13 marzo, a trenta miglia nautiche dalla costa tunisina. 41 i giovani dispersi, risucchiati dai flutti. I loro corpi galleggiano ancora nella acque nei pressi di Lampedusa. Sapendo che si sarebbero incontrati con una delegazione italiana e che c’erano dei giornalisti, almeno sei o sette famiglie si sono raccolte per denunciare la tragedia del 13 marzo (vedi foto). Con le lacrime agli occhi i familiari dei giovani dispersi ci chiedevano di aiutarli. Aiutarli in che cosa? Nel denunciare la tragedia, di cui nessuno vuole parlare, e nel dare voce alla loro richiesta che le autorità tunisine e italiane recuperino i corpi dei loro congiunti, affinché possano essere celebrati dei funerali e dare ad essi una decorosa sepoltura.
Davanti a tanta umana sofferenza non era facile trattenere l’emozione, non condividere la sofferenza, e la rabbia verso l’indifferenza dei politici, delle autorità, sia tunisine che italiane. Siccome la gran parte dei giovani deceduti nella notte del 13-14 marzo venivano tutti da quel quartiere meridionale di Tunisi, i familiari hanno formato un comitato. Si sono recati, tra il silenzio dei media locali, a protestare sotto il Ministero degli Interni e poi sotto quello degli Esteri, venendo trattati a malo modo, spintonati e cacciati via. Alcuni di loro sono stati addirittura ammanettati e fermati per alcune ore. Si sono recati anche, in delegazione, presso l’Ambasciata italiana, per chiedere appunto all’Italia un impegno nel recupero dei cadaveri. Mi piange il cuore a sapere che il nostro ambasciatore nemmeno li ha voluti ricevere, facendoli discutere con un modesto addetto. Abbiamo promesso loro la nostra intercessione, affinché possano finalmente incontrare direttamente l’Ambasciatore. Essi sono consapevoli che forse un simile incontro non sortirà alcun effetto. Ne fanno tuttavia una questione di principio:ovvero di rispetto della loro dignità di familiari in lutto.
Proprio grazie a questo incontro commovente mi sono potuto rendere conto di un’altra cosa: che a scappare dal paese dietro al miraggio di una vita nuova e migliore, non sono solo i giovani più poveri, senza alcuna speranza di trovare lavoro o di ascesa sociale. No, non emigrano solo dalle zone più depresse e disgraziate, come quelle del sud e dell’ovest. Li quelli che emigrano, sono aiutati dagli stessi parenti, dagli amici, i quali mettono assieme i duemila dinari (mille euro), per pagare il viaggio fino a Lampedusa. Quelli che si avventurano in mare nella speranza di riuscire a varcare le porte blindate dell’Occidente, lo fanno per trovare un lavoro, per poi spedire a casa qul poco di soldi indispensabili alla sopravvivenza dei loro cari, dei fratelli, dei genitori o dei figli. E’ quella che voi chiamereste “emigrazione proletaria”.
Il quartiere a sud di Tunisi dove ci trovavamo l’altro ieri, non c’è traccia della inenarrabile miseria che abbiamo visto a Sidi Bouzid o a Kasserine. Questo è un quartiere modesto ma che per gli standard tunisini è ceto medio. La casa in cui eravamo, dignitosa, pulita, ben arredata. La stanza di Ahmed, del figlio che il mare gli ha strappato via, lontana mille miglia dalle baracche e dalle catapecchie che abbiamo visto nel sud del paese. Ahmed era un brillante studente liceale, uno dei tanti che nei giorni della rivolta era sceso per le strade. E’ scappato verso la morte all’insaputa dei suoi familiari. Il padre ci dice che ha venduto il suo computer portatile per mettere assieme i duemila dinari per pagare il viaggio verso l’abisso.
«Perché mai vostro figlio è voluto emigrare e andare via se, come dite, non gli mancava niente? Cosa è che allora egli andava a cercare in Europa?», chiedevamo. “Non lo sappiamo, no lo sappiamo”, rispondevano disperati proprio per l’incapacità di farsi una ragione, non solo della morte, ma delle cause della fuga, per loro inaspettata, ma forse lungamente pensata.
Una ragione provo a darmela io. Non solo la necessità economica spinge i giovani a partire. Alcuni dei figli della classe media tunisina, da ben altro sono mossi che dalla volontà di soddisfare i loro bisogni primari. Ci sono, evidentemente, quelli che una certa sociologia chiama “bisogni secondari”, e che certi marxisti liquidano frettolosamente come mere illusioni ideologiche. Di chi si tratta? Della condivisione dei modelli di vita occidentali, di come essi gli vengono presentati dai media. Fuggono dalla Tunisia proprio i giovani ammaliati dal mito della “bella vita” occidentale, l’Occidente effimero dei valori consumistici ed edonistici, che Tv come quella italiana trasmettono con tanta abilità e maestria. Può sembrare paradossale ma questi giovani sono anche tra coloro che nel gennaio scorso, sulla scia del sacrificio di Mohamed Bouazizi, datosi fuoco il 4 gennaio, hanno riempito le strade, portando alla fuga del dittatore Ben Alì. Come dire che una delle anime di quella rivolta era rappresentata da giovani che non erano mossi dall’indigenza, e nemmeno da chissà quali ideali sociali egualitari, ma proprio dalla speranza di una vita all’occidentale.
A due mesi dalla fuga di Bel Alì, non c’è solo il disincanto della povera gente, per cui non è cambiato nulla. C’è anche la disillusione di molti giovani per bene e quindi la ricerca di una scorciatoia, della fuga verso la “bella vita” occidentale.
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