Mubarak, considerato zimbello di Israele e degli USA |
di Moreno Pasquinelli
In teoria non sono molto titolato ad esprimere un giudizio oculato sugli eventi egiziani. Venni arrestato, e quindi espulso in fretta e furia da quel paese, nel gennaio del 1991 —da allora non ho potuto rimetterci piede. L’accusa: contatti con ambienti estremisti egiziani.
Prima di accompagnarci alla frontiera, e ciò è tipicamente arabo, gli agenti dei servizi di sicurezza ci chiesero di accettare le loro scuse, visto che anche loro “erano amici della Resistenza palestinese”, e che se ci avevano sequestrati era solo perché proprio i loro colleghi italiani ci avevano segnalati come “pericolosi sovversivi”. Per qualche giorno, nella cella di un carcere del Sinai, tememmo il peggio.
Insomma, da allora non ho mai potuto rimettere piede in Egitto, né ad Il Cairo, con la sua città vecchia che è forse la più bella perla urbana del mondo. Ho potuto invece attraversare in lungo e in largo, nei decenni successi, il Medio Oriente, guardandomi bene di tenermi alla larga non solo da Israele, ma dalle satrapie arabe che condividono, con l’Occidente, gli stessi interessi geopolitici e le medesime liste nere di proscrizione.
Ho potuto quindi toccare con mano il tramonto del nazionalismo panarabista, per non parlare di quello delle sinistre comuniste, un tramonto che non ha equivalso al decesso della Resistenza, che non è più debole di trent’anni fa, visto che essa è trapassata nel corpo proteiforme dell’islam politico, quanto mai diviso al suo interno tra salafiti e non, tra jihadisti e non, tra sunniti e shiiti, tra filo.iraniani e anti.
E’ ancora propulsiva la forza di spinta dell’Islam? Ritengo essa abbia toccato il suo apice, e che lo abbia toccato proprio nella sanguinosa guerra di Resistenza in Iraq. E se questa spinta è oggi più debole di ieri, ciò non è stato dovuto ai colpi subiti dal nemico, ma proprio per cause interne, al suo congenito deficit politico e strategico. Quando in Iraq, nel campo della Resistenza, presero il sopravvento le tendenze takfirite, wahabbite e salafite, che presero di petto gli “apostati shiiti” come nemico principale, dando la stura alla guerra intestina in seno all’Islam, quello fu l’inizio della fine. Alle sconfitte militari, seguì la crisi politica. Una crisi che aprì però, nella galassia islamista, una profonda riflessione politica e strategica, la quale ci spiega non solo il grande prestigio di Hezbollah, ma lo spostamento di HAMAS accanto all’Iran.
Che in Egitto sia in corso una classica rivoluzione democratica, non può esservi alcun dubbio. Innescata dalla rivolta dei giovani secolarizzati della classe media (25 gennaio) essa ha trascinato dietro di sé gran parte delle masse povere, urbane anzitutto. E tra queste masse povere urbane non c’è dubbio che le deboli forze laiche d’opposizione hanno un peso politico scarso. Nel giro di una settimana l’immenso movimento popolare è dilagato. Oggi tutto il mondo assiste alla partita nel centro de Il Cairo, ma il resto del paese è da giorni in mano agli insorti. Caserme della Polizia, uffici governativi, tutti i luoghi del potere sono stati devastati, dati alle fiamme, abbandonati dal potere. Nel vuoto di potere interi villaggi e quartieri sono in mano agli insorti, che si sono strutturati in Comitati popolari, a loro volta difesi da vere e proprie milizie di base irregolari. Fino ad ora armate di bastoni, ma nelle case degli egiziani non mancano le armi automatiche. Si dice che il popolo egiziano è mite come un cammello, ma quando si arrabbia, la sua furia è incontenibile. Che i potenti temano i popoli miti!
Per quanto in modo embrionale e multiforme sta quindi nascendo nel paese un vero e proprio potere popolare dal basso, la cui punta di lancia è proprio a Suez, guarda caso la città più operaia e industriale. Ma la stessa dinamica l’abbiamo in diversi quartieri de Il Cairo, Alessandria, Porto Said.
A questo potere popolare che inizia a strutturarsi in Shura (consigli) si oppone il vecchio regime, appena scalfito dallo sconquasso subito dalle forze di polizia del Ministero degli interni (e che come si vede si vanno riorganizzando in squadracce paramilitari irregolari). E’ l’Esercito la vera spina dorsale del regime egiziano, e l’Esercito, come si vede, non ha ancora subito sfilacciamenti. Un Esercito che è un poderoso ente economico e politico, il cui numeroso corpo di Ufficiali è quello che dirà l’ultima parola: se esso si schiererà con la Rivoluzione o contro. La posizione attendista del Comando supremo, la sua apparente equidistanza dai due fronti è forse solo un modo di prendere tempo, e di evitare la conta e la spaccatura. Certo è che se l’Esercito non si spaccasse, ove i generali lealisti riuscissero a tenere serrata la catena di comando, uno scontro sanguinoso alla fine sarà inevitabile. Un colpo di Stato sarà inevitabile.
Certo la attuale situazione di doppio potere non può durare a lungo. Non è detto che il tempo giochi a favore del regime. La “anarchia sociale” favorisce infatti l’autorganizzazione popolare, aiuta le masse a fare esperienza e a farsi coraggio. Un colpo di Stato risolutivo, che cioè possa ristabilire l’ordine in breve tempo e senza provocare ferite devastanti, o sarà nei prossimi giorni o non sarà. Il regime non può dare tempo ai rivoltosi di meglio organizzarsi, di strutturarsi, di armarsi. Come ogni altra volta nella storia, anche questa si giocherà infatti sul piano militare. Il Cairo è il luogo simbolico dove si gioca ora un round decisivo. Solo quando l’ordine regnerà ad Il Cairo, solo quando l’Esercito avrà ripreso il controllo della capitale, allora esso potrà dedicarsi a riprender il controllo sul resto del paese.
In barba ai tanti detrattori che per decenni hanno fatto gli scongiuri alla rivoluzione e alla guerra civile, ai quaquaraqua che pensavano che la storia fosse finita a tarallucci e vino, rivoluzione e guerra civile sono le due cose che si stagliano davanti agli occhi del mondo.
Mubarak, malgrado i pelosi ed ambigui appelli imperiali ad “una rapida transizione”, resiste, si arrocca. Non si pensi che sia un folle. Egli conserva nel paese non solo il controllo degli apparati repressivi, ma si appoggia ad un vasto blocco sociale. Obama lo invita a farsi da parte, ma Mubarak sa bene di godere di fortissimi apoggi, non solo in Israele e tra le satrapie arabe, ma in ambienti potentissimi nordamericani ed europei, che lo stanno incoraggiando a tenere duro malgrado le solite barzellette ideologiche americaniste di Obama.
Proprio oggi le cancellerie europee, dopo giorni di penoso imbarazzo, hanno lasciato capire che non si può abbandonare il despota. Bruxelles, notizia appena battuta dalle agenzie, non ha chiesto le dimissioni di Mubarak, ha piuttosto riconosciuto come legittimo il governo di Omar Suleiman. Bruxelles, guarda un po', ha chiesto la “fine delle violenze”, leggi porre fine alla rivolta.
Il più sincero di tutti è il solito Silvio Berlusconi, che ha detto «… di confidare nel fatto che in Egitto la transizione verso un sistema più democratico avvenga senza rotture con un presidente come Mubarak, e di augurarsi che si possa avere una continuità di governo. Tutto l'Occidente, Stati Uniti in testa - ha aggiunto il presidente del Consiglio -, considera Mubarak un uomo saggio». (Corriere.it del 4 febbraio, ore 17.00). Gli ha fatto eco il Ministro Maroni, il quale ha spiegato che «le rivolte nel Maghreb fanno salire il rischio del terrorismo in Italia e in Europa, con la possibilità che uomini di al Qaeda si infiltrino tra i flussi di clandestini». (ibidem)
La controrivoluzione internazionale, con in testa i grandi fantocci democratici, si va schierando accanto a quella egiziana. Tutti tremano all’idea che la rivoluzione vinca, e si rimangiano le prime patetiche e avventate dichiarazioni “libertarie”.
Di che hanno paura gli imperialisti occidentali? Presto detto: di un terremoto geopolitico nel Medio oriente, ovvero temono per la sorte della “pace”, dove la parola pace sta per Israele. Non c’è infatti nessuno, ma proprio nessuno, tra le forze della rivolta, che sia disposto a tenersi gli Accordi di Camp David e a difendere una pace perpetua con l’entità sionista. Temono, anche, ovviamente, che questo terremoto geopolitico si ripercuota in maniera devastante sui “mercati”, sferrando un colpo duro alla già cronicizzata crisi economica occidentale.
Hanno paura della Fratellanza Musulmana, ma non, come dicono, perché con loro al potere sarebbe la fine della democrazia in Egitto. Se amano tanto la democrazia perché hanno sostenuto e sostengono Mubarak? Hanno paura della Fratellanza e ne fanno oggetto di scandalo, perché la Fratellanza, nonostante rappresentati una fetta della borghesia e dell’intellighentia egiziana, è sicuro che una volta al potere strapperà appunto l’Egitto alla sua attuale sovranità limitata.
Non fosse mai! Non si può perdere questa roccaforte! I peggiori nemici dell’Occidente se ne avvantaggerebbero. Quindi meglio tenersi, alla faccia della democrazia e delle libertà civili, il despota.
Torneremo sulla Fratellanza. La giornata di oggi, 4 febbraio, ci dirà molte cose. E’ venerdì infatti. Vedremo che ruolo giocheranno le 46 mila moschee egiziane, e se la gente dopo la Khutba, la predica, e la pronuncia della Sura dell’Adunanza, invece di “disperdersi per la terra a cercare la Grazia di Dio”, si riverserà nelle piazze a sostenere la rivolta.
Fino ad ora la prestigiosa moschea di al-Azhar si è limitata ad appellarsi al dialogo tra le parti, addirittura smentendo i dirigenti della Fratellanza. La gran parte degli imam locali hanno seguito questa posizione. Quando Ahmed al-Tayeb, il Grande Imam, deciderà di rompere gli indugi?
Non è detto che il popolo dei fedeli musulmani, che fino ad ora ha solo simpatizzato con la rivolta, decida di starsene inerme, in posizione di fatalistica attesa, davanti al precipitare degli eventi.
Gli eventi precipiteranno, e molto presto.
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