di Laura Pinna*
«Niente hanno potuto gli spari, le sirene e i carri armati, e neanche l’annuncio del coprifuoco. Il popolo che vuole far cadere il sistema ha continuato a lanciarsi contro tutto ciò che finora l’ha oppresso, con i corpi e le pietre, piangendo e tossendo».
Il tempo della settimana appena trascorsa, è stato scandito dal continuo collegamento con Al Jazeera Mubashir, Al Arabyya e BBCWorld, le uniche reti che ci aggiornavano in diretta nelle ore del coprifuoco sulla situazione e sugli avvenimenti. Nessuno poteva prevedere tale partecipazione e tale forza nelle manifestazioni degli ultimi giorni. Il giorno della grande protesta era stato programmato per il 25 gennaio. La gente ha iniziato a ritrovarsi in Piazza Tahrir al mattino, tutte le strade limitrofe sono state chiuse dai poliziotti. Intanto le attività della città continuano senza sosta. Noto però nei volti dei miei colleghi egiziani dell’ambasciata una certa preoccupazione. Tutti mi consigliano di tornare subito a casa dopo il lavoro, anzi decidono proprio di accompagnarmi alla fermata della metropolitana. Troppo allarmismo, mi dico. La sera stessa decido di andare con alcuni amici in piazza per vedere se c’erano ancora manifestanti. Erano rimasti solo una paio di gruppi non molto numerosi circondati dalla polizia. Pensiamo che probabilmente finirà tutto nell’arco di qualche ora e che tutto tornerà come prima. Ma non sarà così. Nei due giorni seguenti è un continuo tam tam, su facebook, twitter, sms che invitano a riunirsi venerdì dopo la preghiera, formare dei gruppi nella moschee più grandi e da lì partire alla volta del centro. La tensione è tanta, le aspettative sono alte, ma intorno tutto sembra continuare normalmente. Venerdì mattina ci svegliamo con una sorpresa poco gradita. I telefoni cellulari e la connessione internet sono fuori uso. Aspettiamo con grande attesa la fine della preghiera dell’una. Dopo qualche minuto iniziamo a sentire le voci di tantissime persone su Sharia Tahrir, e non possiamo non scendere a vedere nonostante le raccomandazioni. Quello che ci troviamo davanti è commovente. Persone di tutte le età, padri con i bambini sulle spalle, anziani e giovani ragazze, cristiani e musulmani, tutti insieme gridavano “yalla ya Masr” (Vai Egitto!) e “il popolo unito vuole la fine del sistema” e ancora invitavano le persone affacciate ai balconi urlando “scendete!scendete!”.
Un fiume ininterrotto di persone ha continuato per ore a confluire verso il primo ponte, il primo ostacolo che porta in Piazza Tahrir e che è bloccato dalla polizia, che inizia a lanciare lacrimogeni. Ci distribuiscono mascherine da indossare davanti alla bocca, ma decidiamo di darle alle persone che vanno verso il ponte. Compriamo una cassa d’acqua e distribuiamo le bottiglie a quelli che arrivano. La gente arriva da tutti i quartieri della città e ha camminato ore per arrivare in centro.
Bruciano gli pneumatici, e la sede del partito nazionale, bruciano gli animi nella disperazione.
Solo un popolo al limite può sopportare di stare per ore fermo ad affrontare quel fumo che ti si appiccica addosso e che ti porti dietro, mentre l’odore di cipolla e di aceto riempie le strade.
Farsi avanti e indietreggiare, riprovare dai vicoli, scappare ancora, e poi finalmente entrare nella piazza centrale, che li aspettava silenziosa e accogliente. Niente hanno potuto gli spari, le sirene e i carri armati, e neanche l’annuncio del coprifuoco. Il popolo che vuole far cadere il sistema ha continuato a lanciarsi contro tutto ciò che finora l’ha oppresso, con i corpi e le pietre, piangendo e tossendo.
A mezzanotte e mezzo il presidente si è deciso a parlare, parla di un nuovo governo da domani, e questo significa che almeno una delle richieste avanzate dai manifestanti verrà soddisfatta. E intanto fuori gli spari si intensificano ancora, la gente inizia a spaccare le vetrine, a rubare, ma chi dice che questo era prevedibile forse ha ragione, alle persone è rimasto solo l’irrazionale dopo tutto quello che è successo. Inizia a girare la voce che sei mila prigionieri sono evasi e si dirigono verso la città, inoltre che delle bande hanno iniziato a saccheggiare negozi e appartamenti.
Per precauzione sbarriamo la porta con il divano e cerchiamo di riposare un po’, stando però sempre attenti ai rumori. Ci affacciamo e vediamo che la strada è presidiata dagli abitanti del quartiere armati di bastoni per impedire i furti.
L’indomani Piazza Tahrir è piena di carri armati e di gente che ci sale sopra, i dimostranti e i soldati si danno la mano, mangiano insieme quel poco che c’è, si fanno fotografare. La gioia delle persone per aver conquistato almeno una parte di ciò che avevano richiesto, e per avere l’esercito dalla loro parte.
Qualche goccia di pioggia rinfresca l’aria. Un regalo di Allah, si sente dire dappertutto.
La piazza è lo scenario della conquista e della guerriglia appena terminata, non si fanno due passi senza inciampare nei proiettili, nelle pietre, nei rami e in qualunque cosa la gente abbia usato per difendersi.
Ma la polizia presidia ancora la strada in cui si trova il parlamento, obiettivo principale dei manifestanti, e dopo la festa i carri armati cominciano a muoversi. Pare che si spostino proprio in direzione della polizia, forse per cercare un dialogo, o più probabilmente per fare in modo che la gente, sentendosi abbandonata e prendendo questo come avvertimento, vada via e lasci le strade libere.
In assenza di un sistema l’anarchia inizia a prendere piede, ma le persone si organizzano come possono: a gruppi controllano le strade, armati con ogni cosa disponibile, e ci fanno sentire un po’ più sicuri. Oggi non era il caso di andare molto in giro. Mentre la maggior parte dei manifestanti occupava pacificamente la piazza, e un’altra parte si preparava ad affrontare gli sciacalli, un gruppo consistente si è fatto strada verso la sede del ministero dell’interno. Lì non si scherzava più, niente più lacrimogeni né colpi di gomma, ma proiettili veri, di quelli che ammazzano. I corpi delle vittime venivano portati in piazza.
È sceso il buio. C’è un silenzio inquietante per le strade, spaventa quasi di più degli spari. Questa finta quiete viene interrotta spesso da urla, rumori, parole gridate da chissà dove. Sarà una lunga notte.
Ci siamo svegliati in una città silenziosa, illuminata da una bella giornata di sole. Usciamo per comprare qualcosa, per dare un’occhiata in giro. La maggior parte dei negozi è ancora chiusa, il pane va a ruba, ma il cibo ancora non scarseggia. Le persone in piazza hanno ancora voce per gridare slogan. Osserviamo con i nostri occhi il vero cambiamento che ha portato questa rivoluzione: la gente ha ripreso possesso del suo paese, e se ne prende cura come mai prima d’ora. Quelle strade che prima erano di proprietà dello Stato e che potevano restare sporche e incustodite adesso vengono tenute in ordine dalle persone comuni, che puliscono, gestiscono il traffico, assicurano sicurezza nelle ore di buio. Finalmente sentono che questo è il loro paese, e che ha bisogno di essere curato al meglio.
Rientriamo a casa, e oggi il coprifuoco viene annunciato dal rumore dei caccia militari che sorvolano la città ripetutamente. Il frastuono è assordante, ed ha lo scopo di spaventare la gente e di indurla a tornare a casa. Ma non basta questo per scoraggiare gli animi eccitati, che non lasciano il proprio posto in piazza. Usciamo ancora, le strade sono semideserte ma la piazza è in festa, si formano scritte umane, si continua a gridare per i propri diritti, e noi ci sentiamo sicuri perché l’atmosfera è rilassata al contrario di ieri.
La gente ha formato cordoni ad ogni entrata alla piazza, controlla i documenti e perquisisce le persone per evitare l’ingresso di armi. Altri gruppi portano cibo e acqua ai manifestanti. È tutto così ben organizzato che quasi non ci si crede.
A fine giornata un altro discorso di Mubarak, che lascia i più con l’amaro in bocca. Ha annunciato che non si candiderà alle prossime elezioni, e che si lavorerà per un nuovo governo e una nuova costituzione. Ma niente riguardo al suo ritiro, e le grida in piazza diventano più forti. Probabilmente per molti questo basta, ma non per la maggior parte dei manifestanti, che ha passato un altro notte in piazza e non vuole arrendersi, proprio ora che ha capito di avere la forza di ottenere ciò che vuole.
Finalmente internet ha ripreso a funzionare.
L’ambasciata ci comunica in piena notte che sono disponibili dei posti sul prossimo volo per Roma. Decido con tristezza di tornare per qualche giorno a casa, nella speranza di tornare il più presto possibile.
Un fiume ininterrotto di persone ha continuato per ore a confluire verso il primo ponte, il primo ostacolo che porta in Piazza Tahrir e che è bloccato dalla polizia, che inizia a lanciare lacrimogeni. Ci distribuiscono mascherine da indossare davanti alla bocca, ma decidiamo di darle alle persone che vanno verso il ponte. Compriamo una cassa d’acqua e distribuiamo le bottiglie a quelli che arrivano. La gente arriva da tutti i quartieri della città e ha camminato ore per arrivare in centro.
Bruciano gli pneumatici, e la sede del partito nazionale, bruciano gli animi nella disperazione.
Solo un popolo al limite può sopportare di stare per ore fermo ad affrontare quel fumo che ti si appiccica addosso e che ti porti dietro, mentre l’odore di cipolla e di aceto riempie le strade.
Farsi avanti e indietreggiare, riprovare dai vicoli, scappare ancora, e poi finalmente entrare nella piazza centrale, che li aspettava silenziosa e accogliente. Niente hanno potuto gli spari, le sirene e i carri armati, e neanche l’annuncio del coprifuoco. Il popolo che vuole far cadere il sistema ha continuato a lanciarsi contro tutto ciò che finora l’ha oppresso, con i corpi e le pietre, piangendo e tossendo.
A mezzanotte e mezzo il presidente si è deciso a parlare, parla di un nuovo governo da domani, e questo significa che almeno una delle richieste avanzate dai manifestanti verrà soddisfatta. E intanto fuori gli spari si intensificano ancora, la gente inizia a spaccare le vetrine, a rubare, ma chi dice che questo era prevedibile forse ha ragione, alle persone è rimasto solo l’irrazionale dopo tutto quello che è successo. Inizia a girare la voce che sei mila prigionieri sono evasi e si dirigono verso la città, inoltre che delle bande hanno iniziato a saccheggiare negozi e appartamenti.
Per precauzione sbarriamo la porta con il divano e cerchiamo di riposare un po’, stando però sempre attenti ai rumori. Ci affacciamo e vediamo che la strada è presidiata dagli abitanti del quartiere armati di bastoni per impedire i furti.
L’indomani Piazza Tahrir è piena di carri armati e di gente che ci sale sopra, i dimostranti e i soldati si danno la mano, mangiano insieme quel poco che c’è, si fanno fotografare. La gioia delle persone per aver conquistato almeno una parte di ciò che avevano richiesto, e per avere l’esercito dalla loro parte.
Qualche goccia di pioggia rinfresca l’aria. Un regalo di Allah, si sente dire dappertutto.
La piazza è lo scenario della conquista e della guerriglia appena terminata, non si fanno due passi senza inciampare nei proiettili, nelle pietre, nei rami e in qualunque cosa la gente abbia usato per difendersi.
Ma la polizia presidia ancora la strada in cui si trova il parlamento, obiettivo principale dei manifestanti, e dopo la festa i carri armati cominciano a muoversi. Pare che si spostino proprio in direzione della polizia, forse per cercare un dialogo, o più probabilmente per fare in modo che la gente, sentendosi abbandonata e prendendo questo come avvertimento, vada via e lasci le strade libere.
In assenza di un sistema l’anarchia inizia a prendere piede, ma le persone si organizzano come possono: a gruppi controllano le strade, armati con ogni cosa disponibile, e ci fanno sentire un po’ più sicuri. Oggi non era il caso di andare molto in giro. Mentre la maggior parte dei manifestanti occupava pacificamente la piazza, e un’altra parte si preparava ad affrontare gli sciacalli, un gruppo consistente si è fatto strada verso la sede del ministero dell’interno. Lì non si scherzava più, niente più lacrimogeni né colpi di gomma, ma proiettili veri, di quelli che ammazzano. I corpi delle vittime venivano portati in piazza.
È sceso il buio. C’è un silenzio inquietante per le strade, spaventa quasi di più degli spari. Questa finta quiete viene interrotta spesso da urla, rumori, parole gridate da chissà dove. Sarà una lunga notte.
Ci siamo svegliati in una città silenziosa, illuminata da una bella giornata di sole. Usciamo per comprare qualcosa, per dare un’occhiata in giro. La maggior parte dei negozi è ancora chiusa, il pane va a ruba, ma il cibo ancora non scarseggia. Le persone in piazza hanno ancora voce per gridare slogan. Osserviamo con i nostri occhi il vero cambiamento che ha portato questa rivoluzione: la gente ha ripreso possesso del suo paese, e se ne prende cura come mai prima d’ora. Quelle strade che prima erano di proprietà dello Stato e che potevano restare sporche e incustodite adesso vengono tenute in ordine dalle persone comuni, che puliscono, gestiscono il traffico, assicurano sicurezza nelle ore di buio. Finalmente sentono che questo è il loro paese, e che ha bisogno di essere curato al meglio.
Rientriamo a casa, e oggi il coprifuoco viene annunciato dal rumore dei caccia militari che sorvolano la città ripetutamente. Il frastuono è assordante, ed ha lo scopo di spaventare la gente e di indurla a tornare a casa. Ma non basta questo per scoraggiare gli animi eccitati, che non lasciano il proprio posto in piazza. Usciamo ancora, le strade sono semideserte ma la piazza è in festa, si formano scritte umane, si continua a gridare per i propri diritti, e noi ci sentiamo sicuri perché l’atmosfera è rilassata al contrario di ieri.
La gente ha formato cordoni ad ogni entrata alla piazza, controlla i documenti e perquisisce le persone per evitare l’ingresso di armi. Altri gruppi portano cibo e acqua ai manifestanti. È tutto così ben organizzato che quasi non ci si crede.
A fine giornata un altro discorso di Mubarak, che lascia i più con l’amaro in bocca. Ha annunciato che non si candiderà alle prossime elezioni, e che si lavorerà per un nuovo governo e una nuova costituzione. Ma niente riguardo al suo ritiro, e le grida in piazza diventano più forti. Probabilmente per molti questo basta, ma non per la maggior parte dei manifestanti, che ha passato un altro notte in piazza e non vuole arrendersi, proprio ora che ha capito di avere la forza di ottenere ciò che vuole.
Finalmente internet ha ripreso a funzionare.
L’ambasciata ci comunica in piena notte che sono disponibili dei posti sul prossimo volo per Roma. Decido con tristezza di tornare per qualche giorno a casa, nella speranza di tornare il più presto possibile.
* FONTE: Medarabnews
Nessun commento:
Posta un commento