[ 13 marzo 2019 ]
«Occorre un tuffo del pensiero nel pensiero per… oltrepassare il presente, rischiarare l’oscurità, disvelare il necessario, rifondare il futuro».
Il 7 gennaio scorso, con l'intervista DIECI DOMANDE SULLA VERITÀ davamo notizia della costituzione dell'Associazione culturale ALÉTHEIA. La prima iniziativa dell'Associazione — CHI COMANDA IN CASA NOSTRA? Identità, sovranità, cosmpolitismo nell'era della globalizzazione —, che ha avuto grande successo di pubblico, si è svolta a Bologna il 2 febbraio scorso. Venendo incontro alle sollecitazioni di alcuni lettori pubblichiamo ora il Manifesto dell'Associazione.
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MANIFESTO DI ALÉTHEIA
La storia è un incessante succedersi di fasi, di periodi, di epoche. L’umanità sente di trovarsi alle soglie di un mutamento epocale ma non sa quale sia il proprio destino.
Pesante è il fardello che grava sul pensiero. A esso non spetta solo comprendere questo destino, non soltanto scoprire se esso sia, come il “fatum” per gli antichi, inesorabile, bensì disvelare quale possa essere un’eventuale altra destinazione. Questa disvelazione implica quella che Hegel definì la “fatica del concetto”, dato che il Vero non si da’ mai nella forma dell’immediatezza.
Il disvelare non è un atto bensì un processo solo alla fine del quale c’è la rivelazione.
Col tramonto del filosofare postmoderno si chiude un intero ciclo nella storia dell’Occidente. Nella sua pretesa nichilistica di abolire le “grandi narrazioni” che hanno alimentato le potenti speranze della modernità, il postmodernismo ha finito per diventare a sua volta una grande e maligna narrazione.
Una intera schiera di filosofi, di scienziati, di sociologi ha voluto celebrare la fine di ogni fine, la morte di ogni ordine sistematico.
Ha inneggiato a una Storia priva di direzione ed esaltato l’astensionismo etico e normativo, respinto ogni plausibile orizzonte di senso, negato ogni criterio di validazione della verità, demolito ogni idea di soggetto a vocazione universale, decostruito e per ciò ridotto l’essere in poltiglia.
Il dubbio la sola certezza, l’assenza di ogni essenza.
Ha esaltato il caos dell’apparenza, la frammentazione, lo spaesamento, la contaminazione, le trasmutazioni d’identità. Il mondo è stato immaginato come un cyber spazio immateriale, privo di confini, luogo di passaggi osmotici, privo di ogni principio ordinatore.
Il mondo, insomma, come un sidereo non-luogo, come discarica di feticci, come mercato nel quale una cosa sola possiede valore, il valore di scambio, in cui tutto, l’uomo stesso, è mercificato dunque reificato.
Nel mondo delle post-verità, cacciata la teologia e cancellata ogni traccia del sacro,si è finiti a divinizzare un’invisibile e improbabile mano che tutto metterebbe al suo giusto posto ma che tutto invece scompagina e sbaraglia.
Non il sapere veritativo ma la performatività è diventata il solo principio di autovalidazione e verificazione.
La potenza, unico criterio di legittimazione del sapere, dell’agire e del potere, trasformata perciò in onnipotenza.
Il pensiero occidentale, a forza di decostruzione, sconfessato se stesso, si è smarrito.La scienza, superata la crisi d’identità del primo Novecento, ha approfittato di questa autodissoluzione della filosofia, l’ha parassitata, impossessandosi del suo spirito e deprendandola della sua missione.
Man mano che il postmodernismo prosciugava la fonte del pensiero occidentale, con ciò producendo disillusione e disincanto, è avanzata la fede nella scienza, è cresciuta, assieme alla credenza che le sue certezze fossero indiscutibili, la fiducia nelle sue promesse di progresso ed emancipazione. L’umanità è così entrata nella sua terza fase: nella prima ci si affidava all’onniscienza divina, poi all’autorità della ragione universale e del sapere assoluto; ora è la scienza ad essere considerata infallibile, e gli scienziati si ergono sacerdoti di questa nuova teologia.
Grazie a questa indiscussa reputazione la scienza ha trasformato sia l’ecosfera che il mondo umano in enormi laboratori che utilizza come luoghi di sperimentazione delle proprie predizioni e congetture. La cosiddetta “nuova rivoluzione scientifica” celebra la propria apoteosi.
Terapie, alterazioni e potenziamento genici, clonazione umana, farmacogenetica, combinazione tra intelligenza umana e artificiale. Assistiamo a un’accelerazione senza precedenti della capacità umana di manipolare il vivente, senza tuttavia che la scienza sia in grado di far fronte alle sue responsabilità, incapace di dare senso al suo incalzare smisurato, se non quello di presentare se stessa come soteriologia, come nuova metafisica del “progresso”, se non ponendo la sua propria prometeica potenza come esclusivo e tirannico criterio di verità e validazione.
Davanti a questi mutamenti epocali, l’umanità ha bisogno di interrogarsi su dove stia andando.
C’è bisogno di un contro-movimento, di una conversione, poiché essa procede in una direzione senza sapere quale sia l’approdo, senza che possa escludere di correre verso l’abisso. E’ necessario tuffarsi nell’ignoto, gettarsi oltre il presente, inoltrarsi nelle tenebre per rischiarare il futuro, per sventare la minaccia del definitivo avvento del post-umano.
In questo tuffo del pensiero nel pensiero, in questa anticipazione della prassi, consiste la missione di ALETHEIA: oltrepassare il presente, rischiarare l’oscurità, disvelare il necessario, rifondare il futuro.
1 commento:
In quanto inesplicabilmente alle prese con una natura umana sfuggente, tra materia e spirito, soggetto e oggetto, coscienza e sonno, etc. a me sembra che prima di chiedersi se esista una verità ci si debba chiedere chi sia a chiederselo, ad averne bisogno.
In questo caso, nel Manifesto di Alétheia, è un chiedere animati da uno spirito rivoluzionario, che vede come una minaccia i meccanismi impersonali e bio-tecnologici del Capitale.
Se questa minaccia fosse percepita da tutti sarebbe un dato universale, il primo, circa la natura rivoluzionaria dell'uomo che, implicitamente, sta reclamando sui mezzi e metodi di produzione una "sovranità" dialetticamente fondata sul primato dell'uomo rispetto alla tecnologia.
Diversamente, il dato universale sarebbe un altro, e quello che vale per la coscienza di chi si oppone al Capitale disumanizzante potrebbe simmetricamente valere per chi lo difende con spirito reazionario, magari nascosto dietro quella nuvola tossica e artificiale del postmodernismo.
Allora, se non vogliamo subire la cultura oggi dominante, con la sua inerzia orizzontalmente deterministica del potere di scambio, avaloriale rispetto a ogni ipotesi verticale dell'esistenza, forse è arrivato il momento di sciogliere individualmente, essendo un processo esistenzialmente intimo, il nodo marxiano tra struttura e sovrastruttura, riconoscendo che la pancia piena è una condizione necessaria ma non sufficiente a determinare la forma che vogliamo dare alla nostra vita.
È questa per me l'unica responsabilità davvero universale che in ogni uomo può fare trascendere, dopo averle riconosciute, e pur continuando a tenerne conto, le classi (orizzontali) di appartenenza, le condizioni sociali date.
La dimensione verticale dello spirito, cioè la consapevolezza di poter in una certa misura disattendere le leggi materiali, definite tali dagli uomini (Marx, incluso), è il luogo del momento veritativo, a partire dalla scelta su chi vogliamo essere, espressione della nostra divinità, partecipazione etica e normativa nel cercare il nostro posto nel mondo, quello che vogliamo contribuire a creare (o a conservare).francesco
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