venerdì 22 marzo 2019

LA RIVOLUZIONE NAZIONALPOPOLARE di Carlo Formenti

[ 22 marzo 2019 ]

Da un mese in libreria, per i tipi di Meltemi, l'ultima grande fatica di Carlo Formenti, Il socialismo è morto, viva il socialismo.
Un libro importante e imperdibile, per numerose ragioni. Al centro dell'indagine, oltre alla crisi del socialismo, la questione del populismo, sviscerata in lungo ed in largo. Speriamo presto di tornare su questo libro con una recensione critica che metta in evidenza i punti forti (molti) e deboli (pochi) del discorso di Formenti. Qui sotto quella che consideriamo una parte saliente del libro: le 22 TESI SU POPOLO, NAZIONE, STATO E SOCIALISMO.
Vale segnalare, oltre al seminario teorico sul populismo che svolgemmo come P101 nel luglio 2016, alcuni contributi sulla questione del populismo apparsi negli anni recenti su SOLLEVAZIONE:

IERI LA CLASSE OGGI IL POPOLO LAVORATORE di Mario Tronti
POPULISMO O MUERTE di Moreno Pasquinelli
PER UN POPULISMO DI SINISTRA di Carlo Formenti

MANIFESTO PER UN POPULISMO DEMOCRATICO (Senso Comune)
POPULISMO: IN RISPOSTA AI POST-OPERAISTI di Carlo Formenti
LA VARIANTE FORMENTI di Mimmo Porcaro
ELEMENTI DI STRATEGIA POLITICA POPULISTA di Moreno Pasquinelli
LACLAU, IL PERONISMO ED IL POPULISMO di Damiano Pala
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22 TESI SU POPOLO, NAZIONE, STATO E SOCIALISMO

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Il populismo non è un’ideologia: in primo luogo perché non esistono testi “fondativi” (paragonabili a quelli di Marx per la sinistra) in grado di attribuire forma coerente e unitaria al discorso populista, poi perché quest’ultimo non è associato a contenuti programmatici univoci. Di più: il fenomeno ha assunto nel tempo forme diversissime, dai populismi russo e americano di fine Ottocento-primo Novecento (entrambi caratterizzati da radici di classe contadine, ma diversi sul piano ideologico) ai populismi latinoamericani di ieri (Peron, Vargas e altri) e oggi (le rivoluzioni bolivariane in Bolivia, Ecuador e Venezuela) con prevalenti connotati nazionalisti i primi, orientati al socialismo i secondi, per finire con i populismi contemporanei di destra e sinistra negli Stati Uniti (Trump vs Sanders) e in Europa (Le Pen vs Mélenchon in Francia, Podemos vs Ciudadanos in Spagna). Esistono tuttavia elementi comuni, a partire dallo stile comunicativo[1]. Mi riferisco, in particolare, all’uso di un linguaggio semplificato e diretto, marcato da un elevato contenuto emotivo (ciò che si dice parlare alla “pancia” delle persone) e teso a istituire opposizioni bipolari (noi/loro, popolo/élite, alto/basso ecc.). Per i populisti è inoltre fondamentale raccontarsi come una forza politica del tutto nuova, evitando di ricorrere a parole, idee e categorie proprie dei partiti tradizionali (di destra come di sinistra) e tentando invece di promuovere nuovi significanti in grado di creare un inedito senso comune (di qui il frequente riferimento alla categoria gramsciana di egemonia da parte di intellettuali e leader populisti di sinistra).

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Il popolo che i populisti aspirano a rappresentare non è un’entità “naturale”, preesistente all’insorgenza del loro discorso politico (a differenza del popolo evocato dal nazifascismo, che rinvia a radici comuni di tipo etnico, razziale, antropologico, storico-culturale ecc.). Si tratta al contrario d’una costruzione politica resa possibile dalla crisi catastrofica di un sistema di potere consolidato. Il “momento populista” sorge quando una determinata formazione egemonica (come il sistema liberaldemocratico) non è più in grado di far fronte alla proliferazione di domande sociali che restano insoddisfatte.
L’accumularsi di istanze cui il sistema non riesce più a rispondere in modo differenziale fa sì che, fra tutte queste richieste inascoltate, si stabilisca una relazione di equivalenza trasversale che tende ad accomunarle. È appunto questa relazione a generare le condizioni per l’emergenza di un popolo, che altro non è se non l’insieme dei soggetti associati da una relazione antagonista nei confronti dell’oligarchia che concentra nelle proprie mani il potere economico, politico e mediatico. In altre parole, si potrebbe dire che è solo attraverso la relazione con un sistema di potere vissuto come nemico che si costituisce l’identità di un popolo. L’unità politica del popolo, in quanto insieme eterogeneo di settori che vivono una contraddizione antagonistica con il potere, non è a sua volta un dato: è essa stessa il prodotto di un progetto di costruzione politica. Il “colore” di tale progetto dipende da quale delle domande insoddisfatte riesce a imporsi come egemone, cioè ad assumere il ruolo di incarnare/rappresentare la totalità delle altre. Muta, per esempio, in relazione al prevalere della domanda di sicurezza (per esempio protezione dai flussi migratori) o della domanda di uguaglianza e giustizia sociali ed economiche (protezione dagli effetti del processo di globalizzazione). Il peso relativo che il programma di una formazione populista attribuisce a tali domande è uno dei fattori che consente di distinguere fra populismi di destra e di sinistra.

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Le sinistre tradizionali (socialdemocratiche e radicali) negano a priori che possano esistere populismi di sinistra, al punto che fanno un uso spregiativo dell’aggettivo populista come sinonimo di reazionario (o addirittura fascista). C’è chi ha giustamente commentato che populista è l’aggettivo cui la sinistra ricorre per designare il popolo quando quest’ultimo smette di accordarle fiducia. Dopodiché esistono molti criteri per distinguere fra populismi di destra e sinistra: i primi rappresentano il popolo come insieme della “gente comune”, i secondi come insieme degli strati inferiori della popolazione; i primi si propongono di “sanare” l’ordine politico strappandone il controllo alla “casta”, senza metterne in discussione le strutture sociali e istituzionali, i secondi rivendicano obiettivi anticapitalisti più o meno espliciti e radicali e si propongono di democratizzare lo Stato. Non si può tuttavia negare che esistano zone grigie in cui le visioni si sovrappongono: dall’opposizione fra localismo e cosmopolitismo a quella fra valori comunitari e individualismo borghese, all’atteggiamento critico nei confronti dell’esaltazione del nuovo e della modernità.

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Anche se e quando riconoscono l’esistenza di populismi di sinistra, le sinistre tradizionali ne contestano la rappresentazione del popolo come totalità che prescinde dalle divisioni di classe (vedi la critica all’ingenuo slogan del movimento Occupy Wall Street, che contrappone l’1% dei super ricchi al 99% di tutti gli altri). Qui entra in gioco un nodo cruciale, che occorre sciogliere se si vuole cogliere l’essenza del fenomeno populista come forma della lotta di classe nell’era del capitalismo globalizzato e finanziarizzato. Le ambiguità ideologiche del populismo sono inevitabili nella misura in cui esprimono ampie alleanze fra classi sociali, a loro volta incerte sulla propria identità, nonché prive di autonomia politica e autocoscienza. La grande narrazione marxista si è sempre fondata sulla ricerca di un soggetto rivoluzionario privilegiato. Tale ricerca suona anacronistica in un’epoca in cui ristrutturazione capitalistica, delocalizzazioni produttive, globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia, annientamento delle rappresentanze tradizionali degli interessi proletari hanno causato una stratificazione delle classi subalterne, fino a ridurle ad amorfo insieme di individui. In tale contesto la classica contraddizione fra capitale e lavoro sembra lasciare il campo alla contraddizione capitale contro tutti. In effetti, è questa la filosofia che ispira la categoria postoperaista di “moltitudine”, fondata sulla tesi che il capitalismo contemporaneo mette al lavoro la vita stessa. Ma tale visione ha il difetto di riproporre la logica della definizione di un Soggetto salvifico della rivoluzione: la si potrebbe descrivere come il tentativo di estendere l’identità operaia all’umanità intera. La logica gramsciana della costruzione di un blocco sociale articolato su differenti classi, gruppi e identità collettive appare assai più realistica. Nella versione del populismo di sinistra tale logica assume una coloritura “plebea”, nella misura in cui l’analisi della composizione di classe viene di fatto ricondotta alla distinzione fra tre grandi “stati” postmoderni: oligarchi, classe media e un gigantesco terzo Stato composto da tutti i perdenti della globalizzazione. Di conseguenza, l’obiettivo diventa costruire il blocco sociale fra terzo Stato e classi medie impoverite e/o minacciate dalla globalizzazione (per esempio, piccoli-medi imprenditori). Per concludere: costruire l’unità popolare significa organizzare il potere della plebe nel momento storico in cui i vecchi strumenti del movimento operaio non funzionano più.

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Un altro aspetto del populismo che irrita le sinistre è l’impossibilità di fare a meno della figura di un leader carismatico. Queste forze presentano un contraddittorio miscuglio di democraticismo (contingentamento dei tempi di intervento nelle assemblee, reversibilità delle cariche, vincolo di mandato per gli eletti a cariche istituzionali, esaltazione della Rete come canale di partecipazione democratica ecc.) e centralizzazione del ruolo di direzione politica che, quasi sempre, si concentra nelle mani di un leader e del “cerchio magico” dei suoi più stretti collaboratori e consiglieri. Premesso che l’esaltazione del leader è un elemento ricorrente anche nella storia del movimento operaio, alcuni suggeriscono che sia possibile distinguere fra populismo di destra e di sinistra proprio a partire dalla rappresentazione del leader, il quale è, per il primo, un uomo dotato di virtù eccezionali che si eleva al di sopra della massa, per il secondo un uomo dotato di qualità non comuni ma non diverso dall’uomo comune, un primus inter pares. Non credo però che il vero problema sia questo. Il punto è che tanto l’esaltazione del leader quanto quella della democrazia diretta e partecipativa rispecchiano la natura di forze politiche che sono partiti-movimenti scarsamente istituzionalizzati. È possibile che questa struttura rifletta una fase sperimentale e transitoria nel percorso di ricerca di soluzioni organizzative e istituzionali alla crisi della democrazia rappresentativa. Che le istituzioni liberali si siano trasformate in regimi postdemocratici, svuotando di senso qualsiasi reale possibilità dei cittadini di condizionare le scelte del potere, è un dato di fatto. Tale evoluzione può essere descritta come una sorta di divorzio fra tradizione liberale e tradizione democratica (a sua volta riflesso del divorzio fra democrazia e mercato). L’articolazione fra la prima (fondata sul governo delle leggi, sulla libertà individuale e sui diritti umani) e la seconda (fondata sulla sovranità popolare e sui principi di uguaglianza e di parità fra governanti e governati) si sta rivelando come il prodotto contingente di una fase storica in via di esaurimento. Se le cose stanno così, è evidente che il populismo, con tutti i suoi limiti e contraddizioni, rappresenta l’unico concreto tentativo di reintrodurre l’elemento democratico negli attuali sistemi rappresentativi.

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Che la globalizzazione sia l’esito di una tendenza di sviluppo “oggettiva” del modo di produzione capitalistico (oltre che portatrice di benefici per tutti) è una mistificazione alimentata dalla narrazione liberal-liberista, nonché fatta propria da una sinistra intrisa di progressismo, la quale pensa che ogni balzo evolutivo del capitale, pur comportando spiacevoli “effetti collaterali”, avvicini l’avvento di un mondo migliore. Accettare questa narrazione significa non saper distinguere fra internazionalizzazione della produzione e degli scambi commerciali – processo da sempre associato al capitale – e globalizzazione come strategia di quella “guerra di classe dall’alto”[2] che il capitalismo ha avviato a partire dalla crisi degli anni Settanta del secolo scorso. Il centro di irradiazione del cosiddetto processo di globalizzazione è stato, non a caso, la potenza egemone degli Stati Uniti che, attraverso la deregulation dei flussi di capitale e di merci, ha messo in atto un progetto di “mercatizzazione del mondo”, in base al principio secondo cui chi domina i mercati domina il mondo. Il braccio armato di tale progetto sono le grandi imprese transnazionali (in larga maggioranza americane), in ragione della loro capacità di muovere capitali, merci e persone inseguendo le condizioni più favorevoli offerte da mercati del lavoro, politiche fiscali e sistemi giuridici locali. Ma pensare che ciò comporti la fine dello Stato-nazione è un’idiozia. In primo luogo, le multinazionali non avrebbero potuto espandersi senza il sostegno e l’aiuto dei rispettivi Stati di origine; inoltre, se è vero che sono abbastanza potenti per condizionare le scelte della politica (in misura inversamente proporzionale alla forza degli Stati in cui operano), è altrettanto vero che gli Stati al centro del sistema mondo le utilizzano a loro volta per pompare valore dai Paesi periferici. In conclusione: la globalizzazione è un processo politico non meno che economico, sostenuto e accompagnato dagli Stati più potenti (Stati Uniti su tutti) che se ne servono per ristrutturare l’ordine mondiale con la complicità delle élite nazionali subordinate.

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Quanto asserito nella tesi 6 può essere formulato anche così: l’obiettivo della globalizzazione come progetto politico non è liberare il capitale dal giogo degli Stati, bensì da quello della democrazia. Il neoliberismo non vuole distruggere lo Stato, al contrario vuole costruire uno Stato forte ma non democratico. La battaglia ideologica contro il nazionalismo va di pari passo con quella contro il socialismo e ha l’obiettivo strategico di spezzare il legame fra Stato e democrazia. L’unica forma di democrazia accettabile dal capitalismo globale è quella rispettosa del mercato, vale a dire la democrazia puramente formale garantita dallo Stato liberale. Il nazionalismo di destra cede il passo al cosmopolitismo liberale e allo pseudo internazionalismo di sinistra quali ideologie ufficiali del sistema.

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Eventi come l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, la Brexit inglese, i successi elettorali dei populismi di destra e sinistra in vari Paesi del mondo e il ritorno di politiche protezioniste non sono tanto l’esito della controffensiva di settori capitalistici arretrati che tentano di rianimare l’ideologia nazionalista, quanto sintomi del fatto che la macelleria sociale innescata dai processi di globalizzazione ha delegittimato la narrazione globalista che ha a lungo alimentato le speranze di milioni di esseri umani in un futuro migliore. “Trump non è il boia del globalismo ma il medico legale che ne certifica il decesso”[3]. La crisi della globalizzazione era già in atto prima degli eventi in questione, come certifica il calo degli scambi commerciali che ha anticipato la, più che fatto seguito alla, reintroduzione dei dazi, oltre al riaccendersi del conflitto imperialista fra grandi potenze per la spartizione del mercato mondiale. Tuttavia le cause principali sono sociali e politiche, a partire dalla resistenza crescente delle larghe masse dei perdenti nel gioco della globalizzazione nei confronti delle politiche liberiste.

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La crisi della globalizzazione ha colto di sorpresa e gettato nel panico le sinistre convertite al cosmopolitismo le quali, non disponendo – al contrario dei liberali – di soluzioni politiche di ricambio, reagiscono, se va bene, etichettando come reazionarie, se non fasciste, le idee “sovraniste” (aggettivo che, al pari di populista, viene usato con significato spregiativo, senza distinguere fra le differenti modalità di impostare la questione della sovranità nazionale); se va male, confluendo, con il plauso dei media mainstream, assieme a liberali e socialdemocratici, in un fronte antipopulista e antinazionalista. Parole come patria e nazione suscitano rabbia e incutono terrore negli eredi di quella cultura politica che, fino agli anni Settanta del secolo scorso, era ancora consapevole del fatto che tutte le rivoluzioni socialiste sono state anche, talvolta soprattutto, rivoluzioni nazional-popolari, che ancora masticava gli insegnamenti di Marx e Lenin sulla questione nazionale, e che leggeva con passione le opere di autori come Frantz Fanon e Samir Amin sul tema. Nei decenni successivi, le sinistre hanno viceversa adottato un internazionalismo astratto che ha finito per somigliare sempre più all’ideale cosmopolita di un mondo pacificato e unificato dagli scambi economici. Questa ideologia da cittadini d’un mondo senza frontiere rispecchia valori e interessi del ceto medio riflessivo e delle sue aspirazioni di mobilità fisica e sociale, un ceto che ignora interessi e bisogni della stragrande maggioranza della popolazione mondiale che vive inchiodata al luogo di nascita. Per “salvarsi l’anima”, e dimostrare che conservano attenzione nei confronti degli ultimi, costoro sbandierano la propria solidarietà nei confronti dei migranti e difendono una politica no border di accoglienza illimitata. Tale atteggiamento rimuove: 1) il fatto che il principio di libera circolazione delle persone serve a nascondere che tale circolazione non è affatto libera, ma il prodotto di coazione economica e politica; 2) il fatto – ampiamente riconosciuto e analizzato da Marx – che l’immigrazione fa comodo in primo luogo al grande capitale, che può così attingere a un ampio bacino di mano d’opera a basso costo e priva di ogni potere contrattuale; 3) il fatto che il fenomeno accelera e favorisce il processo di smantellamento del welfare, fondato sull’esistenza di una comunità nazionale socialmente e culturalmente sufficientemente omogenea. Se poi i proletari autoctoni reagiscono all’impatto del fenomeno sui quartieri popolari, e ai suoi effetti di dumping sociale, votando per i movimenti populisti, vengono derisi (si nega l’esistenza stessa del problema, declassato a effetto di propaganda e manipolazione ideologica) e accusati di razzismo.

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La difesa della sovranità nazionale è necessariamente di destra? La risposta negativa è implicita nelle tesi precedenti, ma vale la pena di aggiungere ulteriori considerazioni. In primo luogo, è evidente che esistono due idee di nazione: la prima “naturalistica”, la quale presume che la nazione esistesse ben prima della nascita degli Stati moderni e delle rivoluzioni borghesi, perché affonda le radici in fattori fisici, climatici, di sangue e suolo ecc.; la seconda è invece consapevole che la nazione (al pari del popolo) è un prodotto storico della vita politica. Per questa seconda visione la patria non è comunità immaginata bensì res publica, una società concreta di uomini e donne che lottano per l’autogoverno dei cittadini, l’indipendenza nazionale e la sovranità popolare. È il punto di vista che oggi sostengono i movimenti populisti/socialisti (da Sanders a Podemos, a Mélenchon) e che in passato sostennero autorevoli esponenti della Terza Internazionale come Karl Radek (assassinato da Stalin nel 1937), il quale invitava il Partito comunista tedesco ad assumere la guida della resistenza del popolo tedesco alle condizioni neocoloniali che gli erano state imposte dalle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale, argomentando che, in caso contrario, sarebbero stati i nazisti ad assumersi il compito e a conquistare il potere (com’è puntualmente avvenuto). È, infine, il punto di vista che afferma che l’internazionalismo può esistere solo come rapporto di solidarietà fra nazioni indipendenti e sovrane, come cooperazione fra uguali.

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Il rapporto fra nazioni del centro e nazioni semiperiferiche e periferiche incorpora una relazione di dominio e sfruttamento fra classi straniere e locali. Sia Marx che Lenin avevano ben presente il fatto che il saccheggio perpetrato dai Paesi occidentali ai danni del resto del mondo era la causa fondamentale dell’imborghesimento del proletariato delle nazioni industrialmente avanzate. Autori come Fanon, Amin, Wallerstein e altri hanno arricchito la teoria marxista dimostrando come le nazioni periferiche non ospitino economie precapitaliste, ma siano pienamente integrate in un sistema capitalistico mondiale nel quale la loro arretratezza è condizione necessaria per la crescita e lo sviluppo delle nazioni del centro. Questa verità non vale oggi solo per quei Paesi ex coloniali che stanno rapidamente ricadendo sotto il dominio delle potenze imperialiste occidentali (e di altre potenze emergenti), vale anche per la relazione fra Paesi del Nord e del Sud Europa e in alcuni casi – come quello italiano – vale per il rapporto fra Nord e Sud all’interno di un singolo Paese. Ecco perché la riconquista della sovranità nazionale è l’unica strada percorribile per riottenere il controllo collettivo sulle proprie risorse, sulle politiche economiche e sociali e sui flussi di capitali, merci e persone.

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L’obiezione più ricorrente al sovranismo di sinistra consiste nell’affermare che, nel contesto dell’attuale sistema capitalistico globalizzato, ogni velleità di sganciamento dal mercato mondiale è illusoria. Tuttavia autori come Hosea Jaffe e Samir Amin [4] hanno contestato questa affermazione, dimostrando che il delinking dal mercato globale è una via percorribile; di più: è l’unica via percorribile per compiere qualsiasi passo verso il socialismo. Solo gli Stati sovrani possono negare agli strozzini della finanza globale il pagamento dei debiti imposti da Fmi, Banca mondiale, Bce e consimili istituzioni sovranazionali, prive di legittimazione democratica. Delinking non significa autarchia: vuol dire ridurre al minimo indispensabile le importazioni, massimizzare e ottimizzare l’uso delle risorse locali, conquistare la sovranità alimentare; vuol dire accentrare il surplus economico nelle mani dello Stato e ridistribuirlo in funzione dei bisogni settoriali di crescita, promuovendo la piena occupazione e la difesa degli interessi delle classi subalterne; vuol dire sfruttare i confini nazionali e la sovranità monetaria per regolare i flussi commerciali e di capitale. Chi sostiene che tutto ciò è impossibile concepisce la storia come un processo lineare e irreversibile, sovradeterminato da ferree leggi economiche rispetto alle quali la politica non può fare altro che adattarsi.

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L’economicismo e l’idea di necessità storica che regnano a sinistra si manifestano chiaramente non appena si affronta il problema dell’Unione Europea: ignorando le prove inconfutabili della sua irriformabilità, la palese impossibilità di democratizzarne le istituzioni, gli europeisti “critici” ripetono ottusamente la tesi che la globalizzazione ha prodotto trasformazioni politiche e socioeconomiche tali da non poter essere più gestite dagli Stati-nazione. Dal presupposto secondo cui il campo di azione e organizzazione politica deve necessariamente coincidere con il livello di strutturazione più elevato del capitale, deducono che il piano sovranazionale è oggi l’unico sul quale si possono rappresentare gli interessi delle classi lavoratrici. Si argomenta che la sovranità nazionale, nell’attuale contesto economico e geopolitico, possono permettersela solo gli Stati-continente come Stati Uniti, Cina e Russia, mentre i Paesi europei devono integrarsi se non vogliono finire schiacciati dalla concorrenza di quei colossi. Per inciso, questa tesi coincide – non a caso! – con quella delle élite industriali e finanziarie del Vecchio Continente, così come, analogamente, sinistre e settori capitalistici più avanzati convergono nel bollare come conservatrice e reazionaria ogni rivendicazione di indipendenza nazionale. Anche i filosofi portano il loro contributo, tentando di evocare un improbabile “patriottismo europeo” le cui radici risalirebbero millenni addietro, a partire dallo scontro fra democrazie greche e imperi asiatici e dalla successiva cristianizzazione dell’Impero romano, eventi nei quali sarebbe già stata presente in nuce l’idea di uno spazio geopolitico unitario, congiuntamente a una rappresentazione ideale di tale spazio. Ma la verità è un’altra, ed è contenuta nel celebre detto che definisce l’Europa come una mera espressione geografica. L’Europa non è mai esistita come entità politica e culturale unitaria, e l’utopia di farne un unico Stato (utopia che tanto Marx quanto Lenin denunciarono come il sogno reazionario del capitalismo occidentale, il quale aspirava così a rafforzare il proprio dominio sul resto del mondo) si scontra con barriere sociali, linguistiche e culturali che nemmeno l’istituzione di un sistema fiscale, di un esercito e di una polizia comuni sarebbe in grado di superare.

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Ma se la Ue non è, né mai potrà diventare, uno Stato unitario o una federazione di Stati, come possiamo definirla? La risposta è che si tratta di un mostruoso esperimento istituzionale che tenta di mettere in pratica l’utopia del fondatore del liberalismo moderno, von Hayek. Muovendo dalla constatazione che il capitalismo non conosce frontiere né radicamento territoriale – mentre la gabbia dello Statonazione lo costringe a tener conto degli interessi delle classi subordinate, nella misura in cui queste si organizzano nei corpi intermedi fra Stato e mercato – l’utopia di von Hayek si propone di spezzare il rapporto biunivoco fra politica e territorio neutralizzando, assieme alla sovranità nazionale, i conflitti sociali e la possibilità di offrire loro rappresentanza democratica. Indebolendo l’autonomia decisionale degli Stati membri e integrandoli in un nuovo ordine di mercato, la Ue crea una superstruttura che opera come una sorta di polizia economica, sfruttando l’euro e il principio di concorrenza per sterilizzare i conflitti e condizionare i comportamenti individuali e collettivi. Il sistema dei trattati assume valore costituzionale, agisce di fatto come una costituzione senza Stato e senza popolo e rimpiazza la democrazia con la governance, vale a dire con un processo decisionale di tipo negoziale (nel quale però non tutti i negoziatori hanno lo stesso peso!) che produce regole con il consenso dei destinatari, i quali le accettano “volontariamente” conservando – ma solo sul piano formale! – le loro sfere di facoltà e poteri. L’impianto filosofico che ispira questo esperimento è l’ordoliberalismo che, contrariamente al liberismo classico basato sul laissez faire, non dà per scontata la capacità dei mercati di autoregolarsi, ma affida a un potere politico forte il compito di garantire la stabilità dei prezzi – a partire da quello della forza lavoro – e di vegliare sul fatto che il principio di concorrenza non venga messo in questione da oligopoli, corpi intermedi e interventi statali diretti in campo economico.

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Si insiste spesso sul fatto che le regole della Ue vengono decise e imposte dalla nazione egemone: è l’interesse nazionale della Germania a prevalere su quelli di tutti gli altri partner europei. La linea dell’austerità, all’interno della Germania, ha infatti favorito il contenimento dei livelli salariali e, assieme all’alto tasso di produttività del sistema industriale tedesco, ha sostenuto il modello mercantilista dell’economia di quel Paese; viceversa per i Paesi del Sud Europa ha voluto dire milioni di posti di lavoro e migliaia di imprese in meno, deindustrializzazione e declassamento al ruolo di subfornitori delle imprese tedesche. Tutto vero, ma è altrettanto vero che questa relazione asimmetrica è stata, non solo accettata, ma addirittura promossa dagli Stati periferici. Per quanto riguarda l’Italia, in particolare, vanno ricordate le scelte dei vari Andreatta, Ciampi, Padoa Schioppa e Prodi, a partire dalla promozione dell’indipendenza della banca centrale dal potere politico, decisione che ha messo il nostro debito pubblico nelle mani della finanza privata internazionale, favorendone la levitazione e ponendoci in condizioni di subordinazione nei confronti dei Paesi che controllano le linee di credito. Già Guido Carli auspicava un mutamento costituzionale (neanche a lui, come alla JPMorgan, piaceva “l’eccesso di socialismo” della Costituzione postfascista) che avrebbe dovuto ridefinire la composizione della spesa pubblica (penalizzando la spesa sociale) e promuovere la ridistribuzione del potere politico a favore dell’esecutivo e a danno del legislativo. I suoi eredi “di sinistra”, preoccupati per gli alti livelli di conflittualità sociale e per l’uso “spregiudicato” del bilancio pubblico, hanno pensato bene di importare dall’esterno nuove regole. L’ingresso nello Sme, prima, e nella Ue, poi, hanno avuto proprio questa funzione. A partire da quel momento, il richiamo al vincolo esterno (“non lo vogliamo noi ma l’Europa”) è servito sistematicamente a legittimare le riforme neoliberali: tagli alla spesa sociale, privatizzazione di tutto il privatizzabile, precarizzazione del lavoro e, last but not least, l’implementazione nella nostra Costituzione (attraverso il famigerato articolo 81) del Fiscal Compact, cioè del divieto costituzionale di adottare politiche economiche keynesiane.

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La speculazione finanziaria colpisce soprattutto quei Paesi che non possono contare su una banca centrale come prestatore di ultima istanza, ecco perché la Ue espone sistematicamente i propri membri a tale rischio. Trattati e regole costringono i Paesi che hanno bisogno di denaro a rivolgersi al mercato, il quale assume così una funzione disciplinare nei confronti delle politiche economiche dei governi: l’assistenza finanziaria viene concessa in cambio di “riforme”, cioè dell’impegno a tagliare spesa sociale e salari, privatizzare i servizi pubblici e contenere drasticamente il costo del lavoro. La macelleria sociale imposta alla Grecia dopo la capitolazione del suo governo nei confronti dei diktat della Troika (Commissione Europea, Bce e Fmi) è un esempio del destino tragico che incombe sulle nazioni e sui popoli che aderiscono all’area dell’euro. È vero che le borghesie dei Paesi europei periferici si sono volontariamente assoggettate a vincoli esterni, pur di conservare il potere sulle proprie classi subalterne, ma è altresì vero che la moneta unica ha consentito alla Germania di costruire il proprio successo economico sulla miseria altrui: l’euro ha diviso l’Europa fra un centro esportatore e una periferia dipendente, ha “sudamericanizzato” le nazioni dell’Est e del Sud Europa. Ecco perché il principio di delinking teorizzato da Samir Amin a proposito della relazione fra potenze imperiali e Paesi ex coloniali può e deve essere fatto proprio anche dai Paesi euromediterranei. Solo uscendo dall’euro e riconquistando la sovranità monetaria sarà possibile ridare spazio al conflitto ridistributivo, invertire la tendenza alla privatizzazione, nazionalizzando banche ed imprese in crisi e rinazionalizzando i servizi pubblici, e infine adottare politiche fiscali progressive. Solo gli Stati sovrani dispongono degli strumenti per realizzare giustizia sociale e piena occupazione, e per gestire il debito sovrano e gli effetti delle crisi senza cadere nelle mani degli strozzini della finanza privata. Certamente i costi dell’uscita dall’euro non sarebbero trascurabili – benché non tragici, come ventilato dalla propaganda dei media di regime e come smentito dal caso della Brexit –, ma ben peggiori sono i costi della permanenza in termini di democrazia, sovranità popolare, povertà e disuguaglianza sociale.

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Lo scetticismo nei confronti della nazione va di pari passo con lo scetticismo nei confronti dello Stato. Il ripudio delle esperienze storiche del socialismo reale e l’ideologia “orizzontalista” che, dopo la svolta libertaria dei nuovi movimenti, accomuna tutte le componenti della sinistra radicale, hanno fatto sì che il vecchio principio marxista, secondo cui la macchina statale borghese non può essere ereditata e usata così com’è da parte delle classi subalterne, si sia trasformato nel dogma secondo cui lo Stato in quanto tale non può più essere usato. Per questa ideologia neoanarchica lo Stato, qualsiasi classe o forza politica ne detenga il controllo, è sempre e comunque il nemico del popolo; di conseguenza, il concetto stesso di presa del potere è sparito dal suo orizzonte culturale. La logica del controllo subentra alla logica della conquista, la speranza di costruire un’alternativa globale al modo di produzione capitalistico e alle istituzioni dello Stato borghese lascia il posto a pratiche di contestazione permanente, alle manifestazioni sistematiche di sfiducia nei confronti del potere, a una sorta di democrazia dell’opinione che ha come protagonista un popolo che diffida ma non aspira a governare [5]. Tale atteggiamento rispecchia un punto di vista che non mira ad abolire il capitalismo bensì, nella migliore delle ipotesi, ad addomesticarne la ferocia. Ne è prova evidente il ruolo svolto da Terzo settore, Ong e volontariato, i quali collaborano attivamente allo smantellamento del welfare in sintonia con la logica ordoliberale del “capitalismo sociale”. Ne è inoltre prova quel patetico surrogato dell’utopia comunista che è l’ideologia “benecomunista”, che invita a voltare le spalle al comunismo statale, a immaginare nuove istituzioni estranee alla logica della sovranità e al principio di autorità, che dà per scontato infine che un partito rivoluzionario che pretenda di essere autonomo dai movimenti non solo non serve, ma è controproducente. Siamo dunque di fronte a discorsi che assumono come obiettivo una radicale spoliticizzazione della società civile. Come se non bastasse, a evidenziare la sostanziale convergenza fra liberalismo e “benecomunismo” è lo slogan, in sintonia con le tesi dell’economista liberale Elinor Ostrom, secondo cui la gestione dei beni comuni non dovrebbe essere ”né pubblica né privata”: si tratta d’una doppia negazione apparente, nel senso che la vera negazione è solo quella che ripudia il pubblico, mentre la negazione del privato è mistificatoria ove si consideri che, una volta sottratto al controllo pubblico, qualsiasi bene è inesorabilmente destinato a diventare privato.

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Le ideologie criticate nelle tesi precedenti possono essere sintetizzate con la formula “cambiare il mondo senza prendere il potere”, che potremmo ironicamente accostare al detto di Cristo “il mio regno non è di questo mondo”, e la storia insegna che il detto cristiano che invita a tenersi alla larga dal potere non ha particolarmente contribuito a cambiare i rapporti di forza fra potenti e sudditi... Del resto, nella formulazione gramsciana, le classi subordinate non “prendono” il potere, si fanno Stato; il punto non è dunque abolire lo Stato in quanto ente distinto dalla società, bensì abolirne il carattere di classe. Questo è il programma massimo, ma anche in situazioni in cui conservava il proprio carattere di classe, lo Stato si è dimostrato capace di funzionare come strumento di emancipazione: dopo la crisi del 1929, ha interpretato la reazione di autodifesa della società civile nei confronti di un sistema capitalistico senza regole, tornando a governare terra, lavoro e capitale; dal 1930 al 1980 la logica del mercato ha dovuto piegarsi alle esigenze di ridistribuzione sociale del reddito e gli Stati-nazione non apparivano impotenti di fronte agli interessi del capitalismo globale. Il vero problema quindi – appurato che il potere politico può, a determinate condizioni, garantire reali miglioramenti delle condizioni di lavoro e di vita dei cittadini – non è Stato sì Stato no, bensì quale tipo di organizzazione del potere può favorire la transizione a una società postcapitalista. Prima di affrontare tale nodo, occorre prendere congedo dal mito dell’estinzione dello Stato – mito che si basa su una visione salvifico-religiosa di un futuro in cui la società sarà liberata da qualsiasi tipo di conflitto. Una società del genere non può esistere né mai esisterà, perché anche dopo l’eliminazione delle classi sociali continueranno a sussistere contraddizioni e quindi conflitti, e perché anche la “semplice amministrazione delle cose” (gestibile anche dalla cuoca, secondo la nota metafora non priva di sfumature maschiliste) non potrà fare a meno di specialismi e gerarchie burocratiche.

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Le rivoluzioni bolivariane, assieme al concetto di “socialismo del XXI secolo” da esse introdotto, hanno indotto i marxisti latinoamericani a riprendere lo storico dibattito sull’alternativa riforme/rivoluzione. Engels e la Luxemburg avevano bypassato tale contrapposizione sostenendo che nulla impedisce alle classi subalterne di conquistare il potere attraverso riforme radicali, a condizione che tali riforme non siano fini a se stesse bensì un mezzo per arrivare alla rivoluzione socialista. Ora è evidente che nessuna delle rivoluzioni in questione può essere definita socialista: pur avendo introdotto costituzioni avanzate che prevedono la possibilità del superamento dell’economia capitalista e delle istituzioni politiche borghesi, i governi bolivariani di Venezuela, Bolivia ed Ecuador non hanno abolito la proprietà privata né hanno avviato un processo di trasformazione radicale della matrice produttiva. Tuttavia la dicotomia secca fra socialismo e capitalismo pecca di eurocentrismo. Si tratta piuttosto di capire in quale misura queste rivoluzioni hanno messo in moto un processo di democratizzazione dello Stato e creato i presupposti per l’indipendenza nazionale di questi Paesi dall’imperialismo occidentale. Questo perché non va dimenticato che la lotta di classe in certe circostanze assume forma geopolitica, e che il conflitto fra nazioni del centro e nazioni periferiche ha di per sé la natura di un conflitto di classe, per cui schierarsi dalla parte delle seconde è più importante che tracciare un confine astratto fra rivoluzione nazional-democratica e rivoluzione socialista. Che poi la rivoluzione nazional-democratica possa evolvere in rivoluzione socialista dipende da fattori economici, sociali, geopolitici in larga misura contingenti e imprevedibili.

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La novità storica è che oggi, a causa degli effetti che la rivoluzione liberale degli ultimi decenni ha avuto sulla composizione di classe all’interno dei singoli Paesi e sulle relazioni di subordinazione fra centri e periferie, sorte anche nel campo capitalista occidentale, nemmeno eventuali rivoluzioni antiliberiste all’interno di tale campo potrebbero evitare di attraversare una fase nazional-democratica e riformista. In primo luogo, perché è da un secolo abbondante che il proletariato occidentale non vuole fare la rivoluzione, ma preferisce seguire le forze politiche che gli promettono miglioramenti graduali. Inoltre, dal momento che tutti i mercati del lavoro mantengono carattere locale, le solidarietà politico-sociali devono essere costruite su basi geografiche (ma non etniche!), il che significa: 1) che la resistenza dei luoghi nei confronti delle potenze sconvolgenti scatenate dai processi di globalizzazione assume il significato di una lotta anticapitalista; 2) che anche qui in Occidente i singoli Stati-nazione sono chiamati a rivendicare la propria autonomia per rendere possibili politiche di ridistribuzione e tutela dei diritti sociali; 3) che lo smarrimento delle identità e la forma populista del conflitto fanno sì che la lotta anticapitalista si presenti sotto le spoglie neogiacobine di lotta dei cittadini contro l’uso capitalistico dello Stato (il cittadino ribelle rimpiazza il proletario). Ecco perché tutti i programmi politici dei movimenti populisti di sinistra (da Sanders a Corbyn, da Mélenchon a Podemos) sono programmi “riformisti” che non presentano chiari caratteri anticapitalisti: ricondurre i settori strategici dell’economia (banche, trasporti, comunicazione, tecnologie avanzate ecc.) sotto mano pubblica, rinazionalizzare i servizi pubblici (sanità, trasporti, educazione ecc.), piena occupazione, sostegno alle piccole medie imprese ecc. Si tratta di programmi che cercano il sostegno di blocchi sociali maggioritari e trasversali e che, qualche decennio fa, sarebbero stati definiti socialdemocratici, ma oggi, nell’epoca del totalitarismo liberal-liberista, suonano sovversivi, nella misura in cui possono rappresentare un primo passo verso la trasformazione delle lotte del cittadino ribelle in lotta di classe.

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Nelle attuali condizioni storiche, una rivoluzione nazional-popolare che si ponga l’obiettivo di conquistare il potere per avviare il processo costituente di un regime politico democratico non appare meno difficile da realizzare di quanto non lo siano state le rivoluzioni socialiste del passato. Oggi come ieri essa può avvenire solo in presenza di una profonda crisi dello Stato, della società e dell’economia; di più: può avvenire solo se a tali condizioni si aggiunge una diffusa sensazione di insicurezza, paura e minaccia, la sensazione che un cambiamento radicale sia necessario per difendere il proprio mondo vitale. Oggi come ieri il verificarsi di tali condizioni non è prevedibile né programmabile, si potrebbe dire che la rivoluzione è sempre matura e non lo è mai, o che la rivoluzione avviene dove e quando avviene [6].

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In quale misura è possibile prevenire i rischi di degenerazione autoritaria associati a ogni processo rivoluzionario che riesca a conquistare il potere? Questi rischi sono connaturati a qualsiasi regime e forma statale. L’unico modo per neutralizzarli è la creazione di contrappesi sociali autonomi. I contrappesi fra potere esecutivo, legislativo e giudiziario previsti dalle costituzioni liberaldemocratiche non sono sufficienti, nella misura in cui si limitano a regolare gli equilibri di potere interni alla “casta”. Le istituzioni popolari di democrazia diretta e partecipativa devono essere esterne a quelle della democrazia rappresentativa e agli organi statali, devono potersi contrapporre alle loro decisioni, devono cioè essere in grado di esercitare il conflitto nei confronti dello Stato e tale diritto dev’essere sancito costituzionalmente. Se l’assenza di conflitto è un mito irrealizzabile anche nel contesto del comunismo realizzato, ciò vale a maggior ragione per un regime che abbia realizzato una rivoluzione nazionalpopolare e compiuto solo alcuni primi, timidi passi verso il socialismo.

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NOTE

[1] Cfr. M. Tarchi, Italia populista, il Mulino, Bologna 2015.

[2] Cfr. L. Gallino, op. cit.

[3] Così il vicepresidente boliviano Linera in un’intervista di un paio d’anni fa.

[4] Vedi il paragrafo dedicato a questi due autori nel capitolo seguente.

[5] Cfr. P. Rosanvallon, op. cit.

[6] Rubo queste battute a Mimmo Porcaro (vedi il penultimo paragrafo del prossimo capitolo).

3 commenti:

roberto b. ha detto...

Tesi da studiare, non soltanto da leggere. Discorso lucido e convincente, e Formenti si conferma uno degli studiosi di punta di questi anni.

roberto b. ha detto...

Tesi da studiare, non soltanto da leggere. E Formenti si conferma come uno degli studiosi di punta di questi anni.

Unknown ha detto...

Non concordo su tutto ma credo che questo libro sia veramente importante da leggere. Una analisi a largo raggio veramente acuta dei problemi del mondo attuale. In particolare l'esposizione sul bistrattato "populismo".
Aldo

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