22 novembre.
Volentieri pubblichiamo questo istruttivo intervento sui fatti di Tor Sapienza e cosa c'è dietro
I fatti di Tor Sapienza sono noti ai più solo attraverso il racconto giornalistico. Chiunque abbia avuto la possibilità (e il coraggio politico) di interfacciarsi direttamente con quella realtà, scavalcando narrazioni mediatiche e verità di comodo, interagendo direttamente con la gente del quartiere, sa bene quali dinamiche abbiano prodotto i fatti della scorsa settimana. I palazzi di viale Giorgio Morandi, seppur nella loro specificità, rappresentano una situazione tipica di tutte le altre periferie romane. Quelle periferie sorte ai margini del Raccordo o chilometri fuori da questo, in un’espansione infinita e disordinata che sta covando una bomba sociale di proporzioni storiche. Dato per assodato che ormai la questione Tor Sapienza è per noi chiusa e l’impossibilità di parlare con quella parte del quartiere acclarata, potremmo però tentare di tirare fuori da questa esperienza la capacità di intervenire nella prossima periferia in sommossa. E’ per questo, perché possa servire da esperienza, che bisognerebbe cogliere i punti nodali di questa situazione. Sgomberando il campo da alcuni dubbi che un giretto a Giorgio Morandi toglierebbe anche al più chiuso ideologicamente dei compagni.
Purtroppo per noi, le periferie romane oggi non si chiamano Centocelle, Cinecittà, Tufello, Pigneto, Alessandrino, Montesacro, Tor Pignattara, Garbatella e via dicendo. Le borgate e i quartieri periferici di una volta sono stati oggi inglobati nella città ufficiale e riconosciuta, quella interna al Raccordo e tutto sommato integrata. Sacche di degrado permangono anche in questa zona semicentrale, come ovunque a Roma – anche nelle zone interne alle mura Aureliane – ma il dato significativo è che la *periferia*, a Roma, è un’altra cosa. E’ Tor Bella Monaca, Colle Salario, Fidene, La Rustica, Tor Sapienza, Corviale, Giardinetti, Setteville, Guidonia, Ponte di Nona, eccetera. Salvo alcune encomiabili eccezioni, si pensa la periferia con canoni di trenta o quaranta anni fa: oggi la periferia, la città esclusa, marginalizzata, percepita come illegale anche quando prevista dai piani urbanistici del Comune, è quella a ridosso del Raccordo e fuori, non quella a ridosso della Tangenziale.
I fatti di Tor Sapienza sono noti ai più solo attraverso il racconto giornalistico. Chiunque abbia avuto la possibilità (e il coraggio politico) di interfacciarsi direttamente con quella realtà, scavalcando narrazioni mediatiche e verità di comodo, interagendo direttamente con la gente del quartiere, sa bene quali dinamiche abbiano prodotto i fatti della scorsa settimana. I palazzi di viale Giorgio Morandi, seppur nella loro specificità, rappresentano una situazione tipica di tutte le altre periferie romane. Quelle periferie sorte ai margini del Raccordo o chilometri fuori da questo, in un’espansione infinita e disordinata che sta covando una bomba sociale di proporzioni storiche. Dato per assodato che ormai la questione Tor Sapienza è per noi chiusa e l’impossibilità di parlare con quella parte del quartiere acclarata, potremmo però tentare di tirare fuori da questa esperienza la capacità di intervenire nella prossima periferia in sommossa. E’ per questo, perché possa servire da esperienza, che bisognerebbe cogliere i punti nodali di questa situazione. Sgomberando il campo da alcuni dubbi che un giretto a Giorgio Morandi toglierebbe anche al più chiuso ideologicamente dei compagni.
Purtroppo per noi, le periferie romane oggi non si chiamano Centocelle, Cinecittà, Tufello, Pigneto, Alessandrino, Montesacro, Tor Pignattara, Garbatella e via dicendo. Le borgate e i quartieri periferici di una volta sono stati oggi inglobati nella città ufficiale e riconosciuta, quella interna al Raccordo e tutto sommato integrata. Sacche di degrado permangono anche in questa zona semicentrale, come ovunque a Roma – anche nelle zone interne alle mura Aureliane – ma il dato significativo è che la *periferia*, a Roma, è un’altra cosa. E’ Tor Bella Monaca, Colle Salario, Fidene, La Rustica, Tor Sapienza, Corviale, Giardinetti, Setteville, Guidonia, Ponte di Nona, eccetera. Salvo alcune encomiabili eccezioni, si pensa la periferia con canoni di trenta o quaranta anni fa: oggi la periferia, la città esclusa, marginalizzata, percepita come illegale anche quando prevista dai piani urbanistici del Comune, è quella a ridosso del Raccordo e fuori, non quella a ridosso della Tangenziale.
In questa enorme fascia territoriale e di popolazione, in cui abita la maggior parte della cittadinanza romana, che occupa la maggiore estensione della città metropolitana, non esiste alcun tipo di intervento sociale delle sinistre (tranne sempre lodevoli eccezioni). Pensare che in contesti del genere la coscienza media di una popolazione allo sbando, lasciata a se stessa da istituzioni e politica, intrisa di degrado, quello vero e non quello cavalcato dalle destre, possa esprimersi direttamente come qualcosa dotato di coscienza non diciamo politica, ma quantomeno sociale, significa equivocare totalmente la situazione reale, sbagliare i presupposti di ogni possibile intervento. Oggi è questo il campo in cui si gioca la sopravvivenza della sinistra di classe romana, e lo è perché è un campo in cui si sta formando un’alternativa. L’alternativa è la destra razzista e populista in cerca di una sua base sociale popolare.
Insomma, ragionare del proletariato e sottoproletariato romano nei termini di un soggetto già tutto sommato cosciente di sé sulla falsariga dell’operaio di fabbrica, magari impolitico ma organizzato sindacalmente, consapevole dei propri nemici quantomeno economici, è un errore di prospettiva decisivo. Oggi quella fascia popolare – ripetiamo: la maggior parte della popolazione romana – è completamente esclusa da ogni possibile processo di integrazione, anche sociale, anche pre-politica. Una zona d’ombra formata da razzismo strisciante, cultura da branco o da stadio, affascinata da logiche malavitose. La lontananza della politica da queste zone impedisce pure alle destre di organizzare anche una piccola parte di questa composizione, ma ciò non significa che questo lo sarà per sempre. O ci proviamo noi e ci riusciranno loro, è questo il tema oggi.
Come sa chiunque si sia affacciato a Giorgio Morandi, nessuna organizzazione neofascista ha prodotto o si è inserita nella rivolta di quartiere contro il centro migranti. Il degrado sociale, economico, culturale, politico che vivono le case popolari di Tor Sapienza – case assegnate agli ex-occupanti degli anni settanta e ottanta dei palazzi occupati lungo la Tiburtina: Casalbruciato, Tiburtino Terzo, San Basilio, Ponte Mammolo – e appartenenti tutti alla ex Lista di Lotta, cioè il movimento di lotta per la casa degli anni Ottanta a Roma, è un fatto evidente da anni. Un degrado di cui i residenti sanno benissimo chi sono i responsabili. Ragionare di questi fatti partendo dall’oggi e legando tutta la rivolta a presunti complotti contro Marino significa raccontarsi una favola completamente fuori dalla realtà delle cose. Non è Marino che non può entrare a Tor Sapienza, ma la politica. Borghezio, il M5S, Alemanno, i centri sociali, Casapound: è rifiutato in blocco quel tipo di politica che per decenni si è disinteressata ai bisogni e alle necessità di un corpo sociale martoriato dal degrado sociale, e che oggi si affaccia solo perché la questione ha assunto rilevanza nazionale e i titoli dei giornali impongono di interessarsi alla vicenda.
Affermare che la destra non c’entra nulla con la vicenda non significa dire che quegli abitanti sono di sinistra, anche questo è bene chiarirlo subito onde evitare scontate reprimende da chierichetti del lavoro sociale. C’è molto razzismo di borgata, c’è sottocultura da branco, c’è la logica della comitiva e dinamica legate alla microcriminalità di quartiere: tutto vero, ma questo fatto riguarda tutte le periferie romane. Se queste situazioni costituiscono a prescindere un muro al lavoro sociale delle sinistre nei quartieri popolari, significa abbandonare la nave, dichiarare la resa politica di fronte a una composizione con cui scegliamo di non avere nulla a che fare. Il problema, come dicevamo, è che il nostro abbandono apre le porte al tentativo politico di una destra che sta teorizzando proprio l’internità a queste situazioni, che sta costruendo una sua base sociale volta alla creazione di un nuovo polo politico. Se noi abbandoniamo questo campo il nostro futuro è quello francese: una sinistra che legge i libri a Belleville pensando che quella sia la periferia parigina e una destra che organizza i settori popolari della società francese sfruttando il sacrosanto risentimento dei lavoratori verso la politica in chiave razzista e populista.
Oggi ci sarà un’assemblea di quartiere a Tor Sapienza. Il gioco è però ormai fatto. Non solo l’assemblea avverrà in tutt’altra zona, quella ripulita e “per bene”, che non a caso vede la presenza organizzata di forze neofasciste che, non riuscendo ad entrare tra le gente delle case popolari di viale Giorgio Morandi, si riduce ad organizzare le villette di Piazza de Cupis. L’assemblea di stasera è opportuna, e allo stesso tempo certifica la nostra incapacità di dialogare con le contraddizioni di un quartiere popolare. Può servire a fare esperienza per la prossima rivolta sociale, ma di certo non da una bella immagine dello stato dell’arte della sinistra in questa città. Noi ci parteciperemo, sapendo però che non è a Piazza de Cupis che si gioca la partita, ma a Viale Giorgio Morandi e nelle altre mille vie simili della città, che sono un’altra cosa, socialmente e politicamente.
Piccola aggiunta ex post:
Questa è la città di Roma con la suddivisione in municipi prima della riforma. L’anello grigio è il Raccordo. Il primo municipio, in bianco, corrisponde al centro storico. Quelli semicentrali sono il 2, 3, 6, 7, 9, 10, 11, 17 e parte del 20. Tutto il resto è la città esclusa, dove non arriva politica, attività sociale, presenza istituzionale. L’80% della città.
Insomma, ragionare del proletariato e sottoproletariato romano nei termini di un soggetto già tutto sommato cosciente di sé sulla falsariga dell’operaio di fabbrica, magari impolitico ma organizzato sindacalmente, consapevole dei propri nemici quantomeno economici, è un errore di prospettiva decisivo. Oggi quella fascia popolare – ripetiamo: la maggior parte della popolazione romana – è completamente esclusa da ogni possibile processo di integrazione, anche sociale, anche pre-politica. Una zona d’ombra formata da razzismo strisciante, cultura da branco o da stadio, affascinata da logiche malavitose. La lontananza della politica da queste zone impedisce pure alle destre di organizzare anche una piccola parte di questa composizione, ma ciò non significa che questo lo sarà per sempre. O ci proviamo noi e ci riusciranno loro, è questo il tema oggi.
Come sa chiunque si sia affacciato a Giorgio Morandi, nessuna organizzazione neofascista ha prodotto o si è inserita nella rivolta di quartiere contro il centro migranti. Il degrado sociale, economico, culturale, politico che vivono le case popolari di Tor Sapienza – case assegnate agli ex-occupanti degli anni settanta e ottanta dei palazzi occupati lungo la Tiburtina: Casalbruciato, Tiburtino Terzo, San Basilio, Ponte Mammolo – e appartenenti tutti alla ex Lista di Lotta, cioè il movimento di lotta per la casa degli anni Ottanta a Roma, è un fatto evidente da anni. Un degrado di cui i residenti sanno benissimo chi sono i responsabili. Ragionare di questi fatti partendo dall’oggi e legando tutta la rivolta a presunti complotti contro Marino significa raccontarsi una favola completamente fuori dalla realtà delle cose. Non è Marino che non può entrare a Tor Sapienza, ma la politica. Borghezio, il M5S, Alemanno, i centri sociali, Casapound: è rifiutato in blocco quel tipo di politica che per decenni si è disinteressata ai bisogni e alle necessità di un corpo sociale martoriato dal degrado sociale, e che oggi si affaccia solo perché la questione ha assunto rilevanza nazionale e i titoli dei giornali impongono di interessarsi alla vicenda.
Affermare che la destra non c’entra nulla con la vicenda non significa dire che quegli abitanti sono di sinistra, anche questo è bene chiarirlo subito onde evitare scontate reprimende da chierichetti del lavoro sociale. C’è molto razzismo di borgata, c’è sottocultura da branco, c’è la logica della comitiva e dinamica legate alla microcriminalità di quartiere: tutto vero, ma questo fatto riguarda tutte le periferie romane. Se queste situazioni costituiscono a prescindere un muro al lavoro sociale delle sinistre nei quartieri popolari, significa abbandonare la nave, dichiarare la resa politica di fronte a una composizione con cui scegliamo di non avere nulla a che fare. Il problema, come dicevamo, è che il nostro abbandono apre le porte al tentativo politico di una destra che sta teorizzando proprio l’internità a queste situazioni, che sta costruendo una sua base sociale volta alla creazione di un nuovo polo politico. Se noi abbandoniamo questo campo il nostro futuro è quello francese: una sinistra che legge i libri a Belleville pensando che quella sia la periferia parigina e una destra che organizza i settori popolari della società francese sfruttando il sacrosanto risentimento dei lavoratori verso la politica in chiave razzista e populista.
Oggi ci sarà un’assemblea di quartiere a Tor Sapienza. Il gioco è però ormai fatto. Non solo l’assemblea avverrà in tutt’altra zona, quella ripulita e “per bene”, che non a caso vede la presenza organizzata di forze neofasciste che, non riuscendo ad entrare tra le gente delle case popolari di viale Giorgio Morandi, si riduce ad organizzare le villette di Piazza de Cupis. L’assemblea di stasera è opportuna, e allo stesso tempo certifica la nostra incapacità di dialogare con le contraddizioni di un quartiere popolare. Può servire a fare esperienza per la prossima rivolta sociale, ma di certo non da una bella immagine dello stato dell’arte della sinistra in questa città. Noi ci parteciperemo, sapendo però che non è a Piazza de Cupis che si gioca la partita, ma a Viale Giorgio Morandi e nelle altre mille vie simili della città, che sono un’altra cosa, socialmente e politicamente.
Piccola aggiunta ex post:
Questa è la città di Roma con la suddivisione in municipi prima della riforma. L’anello grigio è il Raccordo. Il primo municipio, in bianco, corrisponde al centro storico. Quelli semicentrali sono il 2, 3, 6, 7, 9, 10, 11, 17 e parte del 20. Tutto il resto è la città esclusa, dove non arriva politica, attività sociale, presenza istituzionale. L’80% della città.
In questa mappa a sinistra si vede ancora meglio la struttura urbana di Roma
* Fonte: Militant-blog
3 commenti:
Finalmente un articolo in cui uno di sinistra dimostra di cominciare a capire quelle cose che si sapevano già da decenni ma se le dicevi in assemblea rischiavi che ti menavano.
Il comunismo ha un difetto di origine che è il disprezzo profondo di Marx per il lumpenproletariat.
Questo implica un atteggiamento dirigista (del cazzo) per cui gli attivisti più in gamba tendono a esigere di essere riconosciuti come classe dirigente ("Per adesso guidiamo noi e non ce ne frega niente di chi si oppone perché tanto non capisce. Poi quando avremo vinto daremo ascolto anche ai meno preparati"...e cosí vi fregate da soli cari compagni fra cui ci mettiamo anche Sollevazione - nonostante le ottime intenzioni ovviamente).
Il comunismo non può basarsi solo su filosofia e economia, occorre urgentemente saper ritorvare la chiave del rapporto emozionale e affettivo che purtroppo oggi sta solo a destra.
Guardate che non c'è molto tempo prima che il fascismo becero straripi...svegliamoci, per cortesia.
La tematica è di quelle "spinose". Tuttavia, che il Quartiere venga denominato " l'infernetto" la dice abbastanza lunga.
Indubbiamente pure la pazienza dei più poveri ha un limite. Anche i somarelli, sebbene avvezzi a tutte le soperchierie, a furia di beffe e bastonate talvolta si mettono a scalciare.
Questi episodi (ma anche quelli sulle case occupate a Milano e tanti altri più o meno affini) mi lasciano molto perplesso e pessimista.
Innanzitutto non sono ancora riuscito a capire i dettagli dell’ accaduto.
Per esempio nei mesi precedenti le agitazioni degli autoctoni contro i richiedenti asilo ci sono stati atti di teppismo da parte di alcuni di questi ultimi?
O da parte di altri extracomunitari?
Mi sembra che sarebbe interessante saperlo perché, quantunque prendersela collettivamente con un raggruppamento più o meno omogeneo di persone perché qualcuno di quel gruppo(individualmente o comunque come gang particolarissima con nomi e cognomi) ha fatto qualcosa di male è sempre e comunque “razzismo” in senso lato (l’ aspetto più moralmente ripugnante del razzismo essendo secondo me appunto la colpevolizzazione collettiva per eventuali comportamenti individuali o comunque particolari; nel caso specifico è razzismo anche in senso letterale, ma questo non è a mio avviso l’ aspetto peggiore della cosa), tuttavia eventuali numerosi (non sporadici) episodi di teppismo da parte di altri extracomunitari costituirebbe secondo me una pur piccola attenuante; ed eventuali atti di teppismo da parte di qualcuno di questi chiedenti asilo un’ attenuante un pochini più consistente (di un comportamento comunque eticamente schifoso).
Inoltre quanto qui sostenuto è ineccepibile in teoria, ma lo trovo molto vago e un po’ campato in aria.
Mi spiego.
E’ giustissimo dire che i sottoproletari della periferia degradata non vanno confusi con Casa Pound, Fratelli d’ Italia o la Lega che il loro becero razzismo aizzano e cavalcano, e che come sinistra autentica, e dunque antieurista, sovranista, non politicamente corretta e (almeno per quel che personalmente mi riguarda) comunista non dovremmo limitarci moralisticamente a condannarlo ma dovremmo cercare di capire la condizione di coloro che ne sono preda (in senso “attivo”, non chi ne è vittima ovviamente) e aiutarlo a superarlo e a comprendere che ben altri sono i loro (e nostri) nemici su cui dirigere la loro rabbia ed esasperazione (preferibilmente con una certa razionalità).
Ma tutto questo (che trovo molto elementare e facile da capire) concretamente come si può realizzare?
Non credo certo evitando con molta chiarezza e franchezza di mostrare loro che il loro razzismo (in senso più o meno stretto) è:
a) Moralmente spregevole: chi, essendo oggettivamente “penultimo” nella società, se la prende con l’ “ultimo” assume già l’ atteggiamento soggettivo dei “primi”, dei privilegiati che lo tartassano ed opprimono; dimostra che vorrebbe in fondo soggettivamente essere un privilegiato per poter esercitare su chi è più debole la sua prepotenza.
b) Praticamente, politicamente contro i loro reali oggettivi interessi, controproducente: così facendo rafforzano il potere dei “primi” e li mettono in condizione di meglio continuare a perpetrare contro loro stessi le ingiustizie di cui sono vittime.
Mentre conditio sine qua non di una lotta efficace e dotata di un minimo di speranza di essere efficace da parte loro è un’ alleanza con gli “ultimi” (e anche con “terzultimi” e i “quartultimi”).
E anche questo è facilissimo da comprendersi e da dirsi.
Ma riuscire a farlo è tutt’ altro discorso, sul quale sono molto pessimista.
Giulio Bonali
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