lunedì 17 novembre 2014

DATI E FATTI ALLA MANO: ECCO PERCHÉ È MEGLIO USCIRE DALL'EURO di Vladimiro Giacché

17 novembre.
Vladimiro Giacché sarà uno dei protagonisti dell'incontro La sinistra e la trappola dell'euro che si svolgerà a Roma sabato prossimo, 22 novembre, all ore 15:00, presso l'Hotel Universo (Via Principe Amedeo 5/b - zona Termini).
Di seguito un breve saggio che smonta pezzo a pezzo i ragionamenti degli euristi per cui l'uscita sarebbe una "catastrofe".



Per cominciare, una precisazione. Interpreto il titolo che è stato assegnato a questa relazione intendendo per “sopravvivenza dell’euro” una sopravvivenza cui si accompagni il ritorno della nostra economia su un percorso di crescita. Dico questo perché si sono dati casi in cui un’unione monetaria ha continuato a sussistere a dispetto della crescente divergenza delle condizioni economiche tra i territori che ne facevano parte (un buon esempio al riguardo è rappresentato dal nostro Mezzogiorno, che nei primi 90 anni dopo l’Unità d’Italia ha visto crescere – e in misura significativa – la distanza del reddito pro capite dei suoi abitanti rispetto a quelli del Centro e Nord della penisola). Detto questo, è ovvio che i fattori che possono mettere a rischio la sopravvivenza di un’area monetaria hanno sempre in qualche modo a che fare con lo stato di salute dei paesi aderenti. I due fattori principali: la divergenza tra le economie che ne fanno parte (che fa sì che i tassi d’interesse unici che identificano la moneta unica risultino sempre più inappropriati per gran parte dei paesi membri, se non per tutti); l’insostenibilità del vincolo rappresentato dall’appartenenza a un’area monetaria per una o più delle economie aderenti ad essa. 

1. LA SITUAZIONE ATTUALE 
Elementi di convergenza 

Un elemento di convergenza importante riguarda i rendimenti dei titoli di Stato. L’andamento dello spread (tra il BTP a 10 anni e il Bund di pari scadenza) da due anni a questa parte è sostanzialmente univoco e in riduzione. Ha toccato un minimo di 132 punti base (bp) il 5 settembre. Attualmente è a 155 punti base. I rendimenti attuali dei BTP sono inferiori anche a quelli che si registravano prima del giugno 2008, quando lo spread tra il BTP e il Bund era praticamente inesistente (lo spread medio era all’epoca di 24 bp; il minimo fu toccato il 3 luglio 2003, con uno spread di 3,9 bp). Infatti la media di lungo periodo del rendimento dei BTP decennali si aggira intorno al 4,5%, mentre i rendimenti negli ultimi mesi si sono attestati sul 2,3%, e solo dalla metà di ottobre sono tornati al 2,5%. Il ridimensionamento dello spread e dei rendimenti nominali è significativo, tanto più se si considera che esso è avvenuto dopo che, a più riprese, si era avuta un’impennata dello spread e, nel 2011 e 2012, si era prima superato il 7% in termini di rendimento dei BTP, poi il 6,5%. Il motivo di questo ridimensionamento è duplice: da un lato la decisione della BCE di fare “whatever it takes” per salvare l’euro (enunciato concretizzatosi nell’intenzione di acquistare titoli di Stato a breve scadenza dei paesi in crisi, ove necessario: il programma OMT); dall’altro le politiche di quantitative easing(QE), poste in essere in particolare dalla Fed e dalla Bank of Japan, che hanno riversato sui mercati finanziari abbondantissima liquidità, parte della quale si è indirizzata verso i titoli di Stato dei paesi periferici dell’Europa. Questo ridimensionamento è senz’altro un elemento positivo. Però lo è meno di quanto sembri a prima vista: in effetti il guadagno per lo Stato italiano in termini di minori interessi da pagare ai creditori è di fatto controbilanciato dall’assenza di inflazione (un rendimento nominale al 5,5% con inflazione al 3%, equivale in termini reali ad un rendimento all’2,5% in assenza di inflazione). Ma soprattutto si tratta di un miglioramento molto fragile. Lo si è visto intorno alla metà di ottobre, quando in poche sedute di borsa lo spread si è incrementato di 40 bp. Il motivo è molto semplice: l’elemento positivo rappresentato dal ridimensionamento dello spread è anche l’unico. 

2. Elementi negativi e di divergenza Fondamentali economici 

Praticamente tutti i fondamentali economici del nostro Paese sono negativi: lo è il prodotto interno lordo (crollato di quasi 10 punti percentuali dal 2007), lo è l’occupazione (disoccupazione al 12,6%, 1 milione di cassintegrati, disoccupazione giovanile intorno al 45%), lo è la produzione industriale (-25%), lo sono gli investimenti (crollati del 30% nel settore delle costruzioni, ma largamente sotto il 20% anche nel settore manifatturiero in generale). Sin dal luglio 2013 il Centro Europa Ricerche ha posto in rilievo, sulla base di queste e altre evidenze, come la crisi attuale sia la più grave in assoluto dall’Unità d’Italia in poi (crisi del 1929 inclusa). Da allora la situazione non è migliorata. E un ulteriore elemento di preoccupazione si è aggiunto al quadro: il calo dei prezzi. In base all’ultima rilevazione Istat, riferita al mese di settembre, essi sono diminuiti dello 0,4% su base mensile e dello 0,2% su base annua. È una dinamica che non stupisce, se si considera che l’ultimo dato congiunturale delle vendite al dettaglio è -3,2%. Ma che deve preoccuparci. 

2.2. Deflazione

Lo spettro della deflazione si avvicina, anche per l’Italia. Si tratta di un pericolo gravissimo per la sostenibilità del debito: la deflazione, infatti, al contrario dell’inflazione, aumenta il valore reale del debito, e quindi il suo onere. L’azione della BCE contro il pericolo rappresentato dalla deflazione si può riassumere in due parole: tardiva e inadeguata. È possibile che le misure straordinarie annunciate a più riprese negli ultimi mesi, una volta messe in pratica, abbiano maggiore efficacia di quanto sin qui fatto. Ma l’intervento della sola BCE ben difficilmente sarà risolutivo (tornerò più avanti su questo punto) – e il crescente scetticismo dei mercati in proposito è in effetti abbastanza evidente. Del resto, i numeri parlano da soli: il tasso d’inflazione medio dell’Eurozona è allo 0,5%. Si tratta di un livello ben lontano dall’obiettivo del 2% che la BCE si è data. Per di più, non va dimenticato che il dato citato è una media. Molti paesi, tra cui il nostro, si trovano già ben al di sotto di quel livello. Per alcuni di essi la deflazione non è un rischio, ma una realtà concreta. 

2.3. Asimmetrie istituzionali e incoerenze nei Trattati 

All’insufficiente efficacia delle misure sin qui adottate contro la deflazione concorrono diverse cause, che rinviano tra l’altro a incoerenze e asimmetrie dei Trattati. Le principali: 1) Se il divieto di finanziamento del debito pubblico da parte della BCE è esplicitamente contenuto nei Trattati (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, art. 123 e 125), non lo è invece la soglia dell’inflazione appena sotto il 2% (si tratta di un criterio adottato dalla BCE ai tempi del suo primo presidente, Duisenberg: non si può affermare che questo obiettivo abbia lo stesso rango istituzionale di un articolo del Trattato di Maastricht). 2) Le procedure contro avanzi commerciali eccessivi, pur previste dal patto per la stabilità e la crescita, non sono a oggi mai state implementate (a differenza delle procedure riguardanti le politiche di bilancio), pur avendo la Germania un avanzo commerciale superiore al 6% da diversi anni. Questo priva la lotta alla deflazione di un importante strumento: è infatti evidente che le politiche mercantilistiche adottate dalla Germania, che hanno avuto il loro fulcro nella deflazione salariale (diminuzione dei salari in termini reali per quasi 15 anni pur a fronte di aumenti della produttività del lavoro), sono una causa importante del rischio di deflazione in Europa. Oggi un contributo essenziale alla lotta contro la deflazione sarebbe rappresentato da congrui aumenti salariali in Germania. 

2.4. Divergenza di interessi tra i paesi membri dell’Eurozona 

Anche nel caso dell’atteggiamento da tenere nei confronti del rischio di deflazione, come in molti altri casi, l’incertezza dell’azione dell’Unione e la sua scarsa efficacia trovano la loro radice ultima nella divergenza di interessi tra i paesi membri. In effetti la deflazione è vantaggiosa per i creditori e dannosa per i debitori. Da questa divergenza d’interessi derivano anche le critiche di segno opposto rivolte alle politiche “non convenzionali” recentemente intraprese dalla BCE: per i paesi più esposti ai rischi di deflazione la BCE si è mossa troppo tardi e troppo poco, secondo quelli meno esposti – al contrario – la BCE sta assumendo compiti impropri e in buona sostanza sta cercando di sostituire i “compiti a casa” che dovrebbero fare i paesi in crisi con politiche monetarie eccessivamente accomodanti. Nel considerare l’azione della BCE troppo timida o eccessiva hanno in un certo senso ragione entrambi gli schieramenti: gli stessi tassi d’interesse dell’eurozona, infatti, sono oggi eccessivamente espansivi per paesi come la Germania, eccessivamente restrittivi per i paesi in crisi. Ma questo in fondo dimostra che l’euro è giàsottoposto a forti tensioni derivanti dalla divergenza delle situazioni economiche dei Paesi membri. 

2.5. Divergenza delle narrazioni sulla crisi 

La divergenza di interessi si riflette in una divergenza non meno grave: quella tra le narrazioni sulla crisi e sulla situazione attuale dell’Eurozona. La versione del Nord (fatta propria in primis dalla Germania, ma non soltanto da essa) vede la crisi attuale come frutto della prodigalità e degli eccessi delle “cicale” del Sud, che adesso vorrebbero fare pagare al Nord i propri debiti. Di questa lettura della situazione la CDU tedesca è largamente responsabile, ma ormai anche prigioniera, dacché alla sua destra è spuntato un partito come AfD che appare più determinato e coerente nel perseguire le politiche conseguenti a questo assunto, e quindi è in grado di far pagare elettoralmente al partito di maggioranza ogni concessione alle richieste e alle necessità dei paesi del Sud. La versione del Sud accusa al contrario la Germania di aver beneficiato più di ogni altro paese dell’euro, di aver posto le premesse della crisi creando uno squilibrio tra le bilance commerciali in Europa attraverso la propria politica mercantilista, di aver alimentato con i prestiti delle proprie banche le bolle immobiliari di alcuni paesi del Sud e nascosto per questa via gli squilibri che si creavano, per poi ritirare improvvisamente, dal 2008/2009, i capitali investiti e più in generale rifiutando di condividere i costi del necessario aggiustamento, scaricandoli interamente sui debitori. Questa lettura della crisi accusa inoltre la Germania di aver obbligato i paesi in difficoltà a politiche di austerity e di tagli del bilancio pubblico che hanno peggiorato la crisi stessa, nonché di esigere da questi paesi la (impossibile) generalizzazione del modello mercantilistico, imperniato sulla deflazione salariale. La divergenza tra le due narrazioni è effetto della crisi dell’Eurozona. Ma è al tempo stesso uno dei fattori di maggiore ostacolo alla sua soluzione e uno dei sintomi del fatto che la crisi economica si sta trasformando in qualcosa di molto più grave. L’impasse dell’Unione monetaria sta retroagendo negativamente sul progetto europeo, scatenando rancori e restringendo i terreni di intesa, anziché spingere – come era nelle intenzioni dei suoi protagonisti – verso una maggiore integrazione. La moneta unica sta diventando una minaccia, e non un’opportunità, per l’integrazione europea. Il fatto che questa situazione non sia riconducibile unicamente alla configurazione dei Trattati, ma anche alle politiche concretamente poste in essere dal 2008 in poi, non cambia nulla quanto alle potenziali conseguenze distruttive della situazione. 

B. SOLUZIONI (FALSE E VERE) 

L’insostenibilità degli squilibri intraeuropei e quindi della situazione attuale è ormai evidente a tutti. Le soluzioni proposte, però, sono fortemente dipendenti dalla lettura che si dà della crisi e delle sue cause. 

Soluzioni false 1.1. 
Lo scambio riforme strutturali vs investimenti infrastrutturali 

Un’ipotesi che sta emergendo in Europa è quella di forzare la Germania a fare investimenti infrastrutturali in cambio dell’impegni da parte di altri paesi, tra cui il nostro, a fare le cosiddette “riforme strutturali” (essenzialmente “riforme” del mercato del lavoro che consentano di svalutare i salari). La cosa è stata commentata con una certa brutalità (ma correttamente) da William Black con queste parole: “Draghi, l’FMI e i conservatori olandesi stanno tentando di intermediare un grande affare: l’accettazione, da parte della Germania, dell’aumento della propria spesa pubblica per infrastrutture (di cui ha un grande bisogno) in cambio della più vergognosa capitolazione di Italia e Francia alle richieste tedesche di dichiarare guerra ai salari dei loro lavoratori”. In effetti, è difficile considerare quello proposto come uno scambio di equivalenti. 

1.2. Messa in comune di parte del debito mettendo il patrimonio dello Stato a garanzia 

In questi anni sono state formulate diverse ipotesi di mutualizzazione del debito. Nelle versioni più correnti dell’European Redemption Fund, proposta originariamente formulata dal consiglio degli esperti economici del governo tedesco, la parte di debito dei diversi paesi eccedente il 60% del pil nazionale verrebbe rifinanziato attraverso emissioni di obbligazioni comuni (tipo eurobond). Piccolo particolare: tali emissioni avrebbero come garanzia il patrimonio degli Stati in questione e beneficerebbero di flussi diretti provenienti dalle tasse nazionali. Se questa impostazione fosse confermata, si tratterebbe di una soluzione tale da espropriare gli Stati interessati della residua sovranitàche sancirebbe il definitivo trionfo dei creditori sui debitori. 

Una soluzione in 3 mosse 

La soluzione per affrontare gli squilibri dell’Eurozona, oggi, consisterebbe in 3 misure: Fine dell’austerity Reflazione in Germania Efficaci e rapide misure antideflazione della BCE.
Vediamo la ratio di ciascuna di queste misure: La fine dell’austerity è essenziale per il rilancio di domanda interna e investimenti. Per questo secondo aspetto essa è indispensabile anche per recuperare competitività, mentre per il primo aiuta a scongiurare i rischi di deflazione. Per chiarire questo punto è necessario spendere qualche parola sul tema della competitività. Un gap di competitività può essere affrontato solo in 3 modi: a) svalutazione del cambio, b) svalutazione interna (ossia essenzialmente svalutazione dei salari) e c) investimenti (privati o pubblici) per migliorare la produttività del lavoro. Ora, in presenza di cambi fissi la prima strada è ovviamente preclusa. Ma anche la soluzione imperniata sugli investimenti ha i suoi problemi: in una situazione di crisi infatti la componente privata degli investimenti è insufficiente. Servirebbero investimenti pubblici. Ma le politiche di bilancio restrittive imposte ai paesi europei precludono anche questa strada: e infatti negli ultimi anni la componente in conto capitale della spesa pubblica è diminuita costantemente (la Legge di stabilità 2015 da questo punto di vista non fa eccezione). Resta quindi solo la strada della svalutazione interna, ossia della riduzione dei salari. Quando si parla di “riforme strutturali” si parla in primis di questo. 

E del resto, in presenza dei due vincoli rappresentati dalla moneta unica e dalle politiche fiscali restrittive, questa resta l’unica strada percorribile per recuperare competitività. Purtroppo presenta due gravi controindicazioni: in primo luogo comprime la domanda interna e manda in crisi i produttori che producono per mercato locale, in secondo luogo la deflazione salariale crea deflazione e per questa via rende insostenibile il debito pubblico. Per questo la richiesta di porre fine alle politiche di austerity non è un capriccio né una richiesta originata dal desiderio di sperperare denaro pubblico, ma l’esigenza fondata di far saltare uno. dei vincoli che impediscono alla nostra economia di ripartire e la infilano nel tunnel della deflazione. La fine dell’austerity, però, di per sé sola, finirebbe per tornare ad aggravare gli squilibri della bilancia commerciale nell’Eurozona (che negli ultimi anni si sono ridotti, anche se – giova ricordarlo – non tanto per un’accresciuta competitività e capacità esportativa dei paesi in crisi, quanto per la riduzione più che proporzionale delle loro importazioni). È quindi necessario che contemporaneamente la Germania reflazioni, ossia che aumenti i salari, cominciando a trasferire ad essi una parte dei guadagni di produttività degli ultimi 15 anni (il 14% dal 1999 in poi, a fronte di salari cedenti per gran parte del periodo considerato). 

Questa è una componente essenziale del riequilibrio necessario oggi in Europa, e anche dei rimedi contro i rischi di deflazione. Infine, la deflazione si combatte anche con adeguate politiche monetarie (convenzionali e non). Un’energica azione in tal senso da parte della BCE rappresenta quindi la terza componente essenziale delle azioni da intraprendere. Impedire la deflazione significa oggi bloccare sul nascere i rischi di spirale deflazione/depressione e anche impedire che si inneschi una spirale debitoria fuori controllo nei paesi in crisi. La domanda fondamentale a questo punto è semplice: tutto questo, oltre a essere auspicabile, è anche attuabile? Purtroppo non sembra. Fine dell’austerity. A questo proposito sembra impossibile superare l’opposizione tedesca a una svolta rispetto alle politiche (controproducenti) condotte negli ultimi anni. Un recente articolo di Hans-Werner Sinn, presidente dell’istituto di ricerche economiche Ifo di Monaco di Baviera, può aiutarci a intendere quali siano le opinioni al riguardo di parte dell’establishment tedesco (a ulteriore riprova della divergenza Nord-Sud richiamata sopra tra narrazioni della crisi). A giudizio di Sinn il modello di “mutualizzazione” dei debiti (di cui i paesi del Sud lamentano la mancanza) è in realtà già in essere grazie ai sistemi di compensazione dei saldi finanziari all’interno dell’Eurozona (il sistema Target2) e grazie all’Esm (il meccanismo europeo di stabilità, meglio noto come “Fondo salva Stati”). 

Esso ha fallito, e la prova di questo fallimento secondo Sinn sarebbe rappresentata dal rifiuto di Francia e Italia di seguire fino in fondo le regole del Fiscal compact. Bisogna quindi passare a un altro modello, quello della “responsabilità” (liability). Le proposte di Sinn al riguardo sono queste: deve cessare l’OMT della BCE (che Sinn arditamente equipara al quantitative easing statunitense); i debiti all’interno del meccanismo Target2 vanno ripagati con oro; infine, dice Sinn, bisogna ripensare il fiscal compact (evidentemente in direzione opposta a un allentamento dei suoi vincoli). Esplicite le conclusioni: “Queste misure renderebbero chiaro agli investitori che in tempi di crisi non possono sperare di essere salvati attraverso la stampa di moneta, e quindi avrebbero l’effetto di indurli a domandare tassi di interesse più elevati o, prima ancora, a non concedere il credito” agli Stati indebitati. “Questo condurrebbe gli Stati europei indebitati a una maggiore disciplina e salverebbe l’Europa dalla valanga del debito, che potrebbe portare alla bancarotta anche Stati oggi privi di problemi di solvibilità e distruggere il progetto di integrazione europea”. 

È appena il caso di osservare che sono precisamente proposte come quella di Sinn che, se attuate, distruggerebbero, prima ancora del “progetto di integrazione europea”, lo scambio che era alla base della partecipazione dell’Italia all’euro: perdita della sovranità monetaria in cambio di tassi “tedeschi” sui titoli di Stato. È chiaro che si tratta di una posizione estrema. Ma è importante prendere atto del fatto che nell’establishment tedesco hanno cittadinanza e ascolto anche ipotesi del genere. 

La reflazione salariale in Germania non è impossibile, ma è comunque tutt’altro che scontata: lo stesso presidente della Bundesbank Jens Weidmann, reo di aver ammesso in un’intervista del luglio scorso alla Frankfurter Allgemeine Zeitung che in Germania ci sarebbero margini per aumenti salariali fino al 3%, ha ottenuto il “perdono” [sic!] degli industriali tedeschi solo al prezzo di una retromarcia molto poco dignitosa. 

Quanto alle misure anti-deflazione della BCE, allo stato appare difficile che siano efficaci. Per il semplice motivo che gli strumenti monetari convenzionali, i tassi d’interesse, sono già tirati al massimo essendo appena sopra lo 0% (anche l’Europa, come Usa, Giappone e Regno Unito, è ormai in terreno Zero bound, ossia in una situazione in cui i tassi non possono ulteriormente scendere). Quelli non convenzionali hanno altri limiti, che possono impedire loro di avere gli effetti desiderati sull’economia reale: la liquidità fornita alle banche con il nuovo programma TLTRO potrà essere utilizzata anche per sostituire i soldi presi a prestito con il vecchio LTRO (che andrà a scadenza nei primi mesi del 2015) e/o comprare titoli di Stato od obbligazioni corporate, anziché per effettuare prestiti alle imprese: il TLTRO prevede infatti (a differenza del LTRO) un vincolo di destinazione dei capitali prestati dalla BCE, ma a partire dall’aprile 2016, e quindi lascia ampio margine di discrezionalità alle banche; l’acquisto di ABS (asset backed securities, obbligazioni garantite da asset) avrà effetti modesti, visto che in Europa le emissioni di questo tipo sono poche; l’esito dei controlli sulla solvibilità delle banche condotti dalla stessa BCE e dall’EBA e appena terminati (Asset Quality Review e stress test) rappresenta un evidente disincentivo ad aumentare i crediti alle imprese, soprattutto per le banche italiane; più in generale, è da escludere che le misure annunciate dalla BCE abbiano un effetto comparabile a quello del quantitative easing in corso ormai da anni negli Stati Uniti. 
Per almeno tre motivi: 1) Per definizione, misure di QE funzionano pienamente soltanto in economie nelle quali cambiamenti nei tassi di interesse a lungo-termine giocano un ruolo importante per il settore privato, in quanto si riflettono immediatamente nelle obbligazioni a lungo termine emesse dalle imprese. Ma in Europa il principale canale di finanziamento è quello bancario, per di più in un orizzonte prevalentemente non di lungo termine: quindi la trasmissione delle misure di QE all’economia in Europa è più indiretta e incerta; 2) Il mercato finanziario europeo è ormai frammentato in più mercati “balcanizzati”, nei quali per definizione misure di QE hanno efficacia molto inferiore a quella che misure analoghe potrebbero avere in un grande mercato omogeneo; 3) Una componente essenziale delle misure di QE assunte negli USA, e cioè l’acquisto massiccio e continuato di titoli di Stato sul mercato primario, è proibita dall’art. 123 del Trattato di Maastricht. 

A questo riguardo va tra l’altro tenuto presente che in prospettiva la BCE potrebbe avere le mani legate non soltanto rispetto ad ipotetiche misure di QE, ma già sull’OMT, qualora il giudizio attualmente in corso presso la Corte Europea di Giustizia avesse esito avverso alla BCE. Si tratta di un rischio tutt’altro che remoto. Del resto, non è un caso che la stessa BCE nutra dubbi sull’efficacia della propria azione: secondo le stesse simulazioni della BCE, l’impatto sulla crescita e sull’inflazione anche di un piano massiccio di misure di QE, da 1.000 miliardi di euro all’anno (circa 80 miliardi al mese), comporterebbe una crescita dell’inflazione contenuta tra lo 0,2% e lo 0,8%. Insufficiente, quindi, a raggiungere rapidamente il 2% dallo 0,5% attuale. 

C. IN ASSENZA DI SOLUZIONI QUAL È LA PROSPETTIVA? 

Se, come sembra probabile per quanto visto sopra, la soluzione prospettata non sarà attuata, appare inevitabile l’accentuarsi di tre fenomeni che enfatizzano i rischi di implosione dell’area valutaria: divergenza, insostenibilità e balcanizzazione. Si avrà infatti in generale un allargamento della divergenza (dello spread economico, per così dire) tra i paesi dell’Eurozona e la caduta (o il permanere) di molti paesi – tra cui il nostro – in una depressione economica (insostenibilità); questi processi saranno accompagnati dall’assottigliarsi delle transazioni finanziarie cross-border, ossia dall’accentuarsi di quel fenomeno di frantumazione del mercato finanziario europeo in molti mercati finanziari nazionali che è in atto dal 2009 e che neppure le misure assunte dalla BCE sono state sinora in grado di fermare (balcanizzazione). Per quanto riguarda specificamente noi, in particolare, questi processi convergeranno verso un esito che appare segnato se continueranno i trend attualmente in atto: l’insostenibilità del debito pubblico. È anzi possibile che, in corrispondenza di una eventuale sentenza della Corte Europea di Giustizia avversa al programma OMT o della fine del QE statunitense, proprio il debito pubblico italiano rappresenti il punto di innesco per lo scoppio della bolla obbligazionaria creata dall’enorme liquidità immessa nel sistema dalle banche centrali negli ultimi anni. Se questo avvenisse, si avrebbe un default e/o una ristrutturazione del nostro debito effettuata in una situazione di emergenza e senza poter aver il controllo delle leve di politica monetaria. La conseguenza sarebbe la fine dell’euro, ma nel modo peggiore per noi. 

D. ALTRI SCENARI 

Se queste sono le concrete prospettive che si aprono per il nostro Paese, è abbastanza paradossale che il dibattito sin qui si sia svolto escludendo dal novero stesso delle possibilità – insomma esorcizzando – il tema della fine della moneta unica. 

Si è così creato un vuoto di analisi che ha avuto un elevato prezzo politico, consistente nella drastica riduzione dello spazio di manovra e della stessa capacità negoziale del nostro paese su tutti i tavoli importanti: dalle politiche di austerità al pareggio di bilancio in Costituzione, alla nuova regola del vincolo alla riduzione forzata del debito (vincolo in presenza del quale, sia detto per inciso, non avremmo mai firmato il trattato di Maastricht), alla stessa configurazione della cosiddetta unione bancaria (che non ha voluto rompere il circolo vizioso tra crisi bancarie e debito pubblico) sino agli stessi esercizi di AQR e stress test bancari recentemente conclusisi con un risultato gravemente lesivo degli interessi del nostro paese ma in realtà abbastanza scontato (in quanto prodotto della restrizione delle competenze della BCE a poche banche – in modo da tutelare un sistema molto più frammentato e inefficiente del nostro quale quello tedesco -, dal peso esercitato nell’analisi dalla componente creditizia e dalla colpevole assenza di una valutazione differenziata tra sistemi bancari che hanno ricevuto aiuti pubblici dell’ordine di centinaia di miliardi di euro – perlopiù a fondo perduto – e un sistema bancario come quello italiano, che dallo Stato ha avuto soltanto alcuni miliardi di prestiti, per di più a titolo molto oneroso). Questo vuoto di analisi va rapidamente colmato. 

Ovviamente non è cosa che si possa fare in questa sede. È però utile fissare alcuni punti. La moneta unica può finire in molti modi e con esiti molto differenti
Una cosa è il break up che rappresenta il probabile esito dei trend in atto, un’altra lo smantellamento condiviso (e quindi governato) di essa, un’altra l’uscita unilaterale per scelta autonoma di uno o più paesi (e in questo caso, se dobbiamo credere a quanto sappiamo della fine del gold standard, chi uscirà per primo avrà probabilmente un vantaggio). 

Quanto al punto d’approdo, una cosa è la costruzione di due aree valutarie, un’altra la libera fluttuazione di tutte le monete, un’altra ancora la costruzione di una moneta comune rispetto alla quale le valute che vi concorrono possano aggiustare il rapporto di cambio periodicamente. 

È bene sapere che ogni qual volta si invoca lo spauracchio della ”uscita dall’euro = catastrofe” si inibisce l’analisi precisamente di ciò che è importante sapere, e cioè quali sarebbero le conseguenze per la nostra economia in ciascuno dei diversi scenari prospettabili. Molte delle certezze relative all’esito catastrofico di un’uscita dell’Italia dall’euro si fondano su ignoranza (o “dimenticanza”) di elementari dati di fatto. 

Ne cito solo alcune: La svalutazione legata all’uscita dall’eurozona (o alla fine dell’Eurozona) provocherebbe un’iperinflazione. 

Si tratta probabilmente dell’affermazione in assoluto più ripetuta sugli effetti della svalutazione. Ma è infondata. In realtà, stando alle due ultime svalutazioni della lira (1992 e 1995), il cui effetto cumulato fu la perdita di valore della nostra moneta del 52% nei confronti del marco tedesco e del 32% rispetto al dollaro, il nesso non è affatto automatico: in quel caso infatti l’inflazione scese dal 6,4% del 1991 al 5,4% del 1995. Rispetto all’attuale situazione di deflazione si avrebbe certamente una crescita dell’inflazione, che peraltro avrebbe effetti positivi con riferimento al peso del debito (pubblico e no). 
In ogni caso, il dato riferito alle ultime svalutazioni non è sorprendente. Per almeno 6 motivi: 
1) non tutti i beni consumati in un paese sono beni importati; 
2) non tutti i beni prodotti in un paese sono prodotti soltanto con materie prime importate; 3) non tutti i beni prodotti in un paese sono fatti con beni intermedi importati (per l’Italia la quota dei beni intermedi importati è grosso modo costante negli ultimi 20 anni); 
4) l’aumento dei prezzi dei beni importati in caso di svalutazione spinge i consumatori a preferire beni nazionali; 
5) se una svalutazione avviene in una situazione di output gap (ossia di crescita reale inferiore alla crescita potenziale) come l’attuale, l’inflazione è che ne consegue è più bassa; 6) un fattore importante nel determinare il tasso d’inflazione è rappresentato dalle strategie delle imprese, che possono scegliere di non trasferire l’intera crescita del prezzo dei componenti importati nel prodotto finito per accrescere quote di mercato; oggi c’è molta capacità produttiva inutilizzata e le imprese potrebbero preferire accrescere i volumi anziché i prezzi. 
Diverse ricerche empiriche dimostrano come in paesi industrialmente avanzati soltanto un terzo della svalutazione si trasferisca nei prezzi. Assumendo l’ipotesi di una svalutazione tra il 10% e il 20%, questo significherebbe un’inflazione tra il 3,5% e il 7% dopo un anno. 

L’uscita dall’euro renderebbe il debito pubblico immediatamente insostenibile e provocherebbe l’immediato default del paese. 

Il tema è ovviamente di cruciale importanza. Ma in genere è trattato in maniera molto superficiale. Ad esempio, una delle fallacie più frequenti consiste nel ritenere che la svalutazione si ripercuoterebbe immediatamente su tutti i titoli di Stato in circolazione. Qui si dimentica il fatto che debiti contratti secondo la legge italiana devono essere pagati in moneta nazionale (qualunque essa sia): così prevede la lex monetae (e gli art. 1277 sgg. del nostro codice civile). Pertanto, ipotizzando una conversione alla pari euro-neolira, cui seguirebbe una svalutazione, lo stock di debito in essere non conoscerebbe alcuna immediata rivalutazione conseguente alla svalutazione (l’effetto sarebbe neutro per lo Stato italiano e per i detentori italiani di titoli di Stato, mentre i detentori esteri dei titoli di Stato vedrebbero svalutarsi i titoli in loro possesso). Si noti che il 98% delle emissioni di debito pubblico italiano sono state effettuate secondo la legge italiane. Quanto sopra vale ovviamente per le vecchie emissioni, mentre per le nuove lo Stato dovrebbe offrire, almeno nell’immediato, rendimenti molto più elevati. 
D’altra parte, come già osservato, l’inflazione legata alla svalutazione comporterebbe una diminuzione del valore reale del debito in essere. 

Ulteriori “rischi” talvolta menzionati tra le conseguenze di un’uscita dall’euro, quali il ritorno a controlli sui movimenti di capitale e a una Banca Centrale non indipendente, dal punto di vista di chi scrive sarebbero aspetti senz’altro positivi: l’aver affidato il destino del debito pubblico italiano ai mercati finanziari internazionali è infatti alla base dell’accelerazione del debito pubblico italiano, sin dal cosiddetto divorzio Tesoro-Banca d’Italia avvenuto nel 1981. 

I rischi connessi a una dissoluzione dell’area valutaria dovrebbero essere sempre considerati avendo presenti le alternative reali (e non semplicemente immaginate). 
La situazione attuale quanto a produzione industriale, ad esempio, è la seguente: l’Eurozona registra in media un -13,1% rispetto all’aprile 2008, e un incremento del 3% appena rispetto al 2000. Ma rispetto al 2008 la Francia fa -16,4%, l’Italia -25%, la Grecia -30,7%, la Spagna -27,7%. Un commentatore al riguardo ha osservato: “sfido chiunque a dimostrare che il break up dell’eurozona nel 2008 e l’abbandono dei vincoli fiscali contenuto nel Patto per la stabilità e la crescita” —peraltro successivamente resi ancora più stringenti, a partire dal Trattato Europlus del marzo 2011— “non avrebbe prodotto risultati migliori di questi”. 

Come noto, lavorare sui controfattuali è sempre un esercizio pericoloso, ma non è facile contraddire questo punto di vista. E in effetti, non per caso, l’argomento solitamente più usato dai sostenitori dello status quo monetario non è economico, ma politico: la fine dell’euro, si dice, sarebbe una catastrofe politica dalle implicazioni imprevedibili, in quanto segnerebbe una battuta d’arresto del processo d’integrazione europeo. 

Al riguardo sarebbe fin troppo facile osservare che, se questo argomento fosse preso veramente sul serio da chi lo propugna, esso implicherebbe la messa in campo di ogni sforzo e compromesso possibile da parte di tutti al fine di evitare l’accentuarsi di quella divergenza tra le economie che rappresenta il vero solco (non più soltanto economico) che si sta scavando in Europa e che – come ho provato ad argomentare – costituisce un pericolo mortale per la stessa sopravvivenza della moneta unica. Implicherebbe insomma uno sforzo comune (di creditori e debitori) per il riaggiustamento all’interno dell’Eurozona. Ma non vediamo nulla di questo, e vediamo invece il sempre più chiaro prevalere di dinamiche legate ai rapporti di forza. 

Il punto più importante è però un altro: è proprio questa configurazione dell’Unione Economica e Monetaria, imperniata su un’area valutaria ben lontana dall’essere ottimale (e che quindi accentua e non riduce le distanze tra i paesi che ne fanno parte), ciò che sta distruggendo la solidarietà intraeuropea e pone a rischio la possibilità stessa di una civile convivenza: innescando un blame game distruttivo e inconcludente sulle cause della crisi, accompagnato da un vero e proprio trionfo di politiche beggar thy neighbor

Chi voglia davvero l’integrazione europea non può pensare che essa si possa conseguire proseguendo su questa strada, di fatto limitandosi a mettere un cappello politico-istituzionale (estremamente pericoloso stanti gli attuali rapporti di forze all’interno dell’unione) a un’unione monetaria così mal congegnata e implementata come l’attuale. L’attuale costituzione economica dell’Europa non deve essere “completata”, deve essere cambiata radicalmente. O abbandonata.

* Fonte: Ideecontroluce

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