4 maggio. Qualche settimana fa, un po’ per caso e un po’ per curiosità, sono venuto a conoscenza di una notizia che mi ha parecchio colpito: l’associazione Eures Germania in accordo con quella italiana aveva organizzato un lungo tour in giro per la penisola per reclutare giovani lavoratori qualificati.
Il suggestivo nome di questa selezione a domicilio era “Job of my life” e ha toccato le più importanti città italiane: Roma, Napoli, Milano, Bologna, Torino, Genova, Bari, Lecce, Padova, Verona, Catania. Durante il giro sono state raccolte circa 6.300 candidature, in particolare di ingegneri e tecnici specializzati fra i 18-35 anni, da proporre alle maggiori aziende tedesche. Il reclutamento non garantiva il posto di lavoro fisso ma solo la promessa che anche in caso di momentanea bocciatura i ragazzi sarebbero stati inseriti in un database, in attesa della fatidica chiamata dalla Germania. Analoghi programmi di selezione di giovani disoccupati di elevata formazione e specializzazione sono stati organizzati pure in Irlanda, Spagna, Portogallo. Ovvero nei paesi che sono stati più danneggiati dall’atteggiamento competitivo della Germania, che ha saputo meglio sfruttare le dinamiche di squilibrio commerciale e finanziario messe in moto dalla moneta unica.
Intendiamoci, questi progetti di cooperazione internazionale e di scambio di competenze e conoscenze sono molto interessanti ed efficaci, ma solo quando presentano caratteristiche di reciprocità, multilateralità e non sono a senso unico: dai paesi poveri e disastrati verso l’unica nazione ricca e vincente, e mai viceversa. Perché, allo stesso modo di ciò che accade con lo scambio delle merci e dei capitali, si verrebbe a creare all’interno dell’eurozona uno sbilanciamento di forza lavoro qualificata a vantaggio dell’unico grande paese in surplus e a svantaggio di quelli in deficit. Condannando in pratica questi ultimi alla regressione produttiva e alla marginalizzazione nei settori a scarso valore aggiunto e innovativo. E questa è solo l’ultima sfaccettatura del saccheggio in corso, che sta avvenendo in tempo reale, sotto i nostri occhi. Mentre noi siamo impegnati ad assistere alla seconda elezione di re Giorgio Napolitano II e all’imminente insediamento del prossimo governo, personaggi cioè che sono stati tra i principali artefici della distruzione del tessuto produttivo e sociale italiano, fin dai tempi dell’ingresso dell’Italia nello SME del 1979, e oggi hanno il compito specifico di difendere e tutelare la classe politica corresponsabile del disastro. Gli italiani sono talmente illusi e imbesuiti da credere che coloro che hanno “scientemente” spinto il paese verso il baratro siano gli stessi a farlo riemergere dagli abissi: misteri della fede. Dove arriva l’idolatria mistica, la ragione per forza di cose deve arretrare.
Grazie ai benefici acquisiti con l’introduzione dell’euro, che annullando la normale fluttuazione dei tassi di cambio ha cancellato di colpo l’unico strumento di difesa delle economie deboli nei confronti di quella forte, la Germania ha di fatto stravolto gli equilibri politici-economici fino ad allora esistenti in Europa, diventando l’unico paese egemone in mezzo ad una serie di paesi cuscinetto o colonie. E ben consci di questo ruolo, i tedeschi non hanno più alcun imbarazzo e pudore a comportarsi come un paese di conquistatori ed invasori: in attesa di mettere le mani sugli ultimi pezzi pregiati aziendali e patrimoniali dell’Italia, la Germania si porta via le nostre migliori competenze tecniche disponibili, formate grazie ai sacrifici delle famiglie italiane e agli investimenti nel nostro sistema scolastico statale o privato.
Noi seminiamo e i tedeschi raccolgono i frutti. E c’è una ragione precisa che spinge i tedeschi alla ricerca disperata di nuova manodopera qualificata: mentre nell’eurozona continua ad aumentare il numero di persone in età da lavoro, in Germania invece diminuisce progressivamente. Come si può vedere nel grafico sotto, la forza lavoro della Germania fra i 15 e i 64 anni si è ridotta del 2% negli ultimi undici anni, al contrario della media dell’intera zona euro, dove è aumentata del 7%.
Questo potrebbe anche essere uno dei motivi che spiega i livelli record di bassa disoccupazione della Germania, rispetto alla crescita che si registra nell’eurozona, dove gli ultimi dati confermano la salita del tasso di disoccupazione fino al 12%. Da notare poi che i tedeschi non cercano manodopera generica, perché questa può essere reperita a buon mercato tra le folte schiere degli immigrati che arrivano dall’Est Europa, dalla Turchia o dall’Africa, ma persone molto istruite e specializzate, che in qualunque paese rappresentano il serbatoio principale da cui partire per costruire la futura classe imprenditoriale e dirigente: un paese senza quadri e competenze è un paese senza futuro.
E questo la Germania pare saperlo bene, mentre l'Italia crede ancora che costringere i nostri migliori cervelli alla fuga e tenersi la feccia sia una mossa furba che ci concede onere e lustro in tutto il mondo. Ripetiamo che mandare i nostri ragazzi in Germania a farsi le ossa e l’esperienza potrebbe essere un grande vantaggio per noi in un’ottica di lungo periodo (sperando che un giorno l’Italia riesca ad uscire dai pantani e una parte di questi ragazzi possa rientrare in patria con un notevole bagaglio di conoscenze e know how), ma in una fase di crisi come questa risulta solo l’ultimo affronto che i tedeschi hanno fatto al presunto spirito di cooperazione e collaborazione che “dovrebbe” animare questa strampalata unione monetaria. Invece di aiutare la ripresa delle aziende italiane, la Germania non solo ostacola tutti i piani di politica economica espansiva che potrebbero favorire la crescita, ma preferisce addirittura dare il colpo di grazia agli storici concorrenti privandoli della linfa vitale che assicura l’operosità, il rinnovamento, la creatività e il ricambio generazionale delle nostre aziende.
Quelli che ancora credono al sogno europeo, alla chimera degli Stati Uniti d’Europa che fino ad oggi è servita a confondere e depistare gli allocchi di turno, dovrebbero dare un’occhiata alla lunga lista di svendite di pezzi importanti della nostra industria nazionale che si è ampliata senza sosta in questi ultimi anni, per capire meglio la portata della catastrofe economica in cui ci siamo volontariamente impelagati. Nel nome del liberismo selvaggio e dell’apertura incondizionata ai “mercati”, di indirizzi cioè di politica economica più che mai discutibili e anacronistici che in misura così sconsiderata e scriteriata hanno contagiato soltanto i paesi dell’eurozona, mentre il resto del mondo si è guardato bene da seguire alla lettera i dettami di questa scellerata dottrina accademica-teologica (i cui dogmi, come abbiamo visto, sono basati perlopiù da manipolazioni e strumentalizzazioni dei dati reali) e ha adottato misure più o meno protezionistiche per difendere il proprio tessuto economico nazionale. Curiosa poi la circostanza che mentre i francesi hanno fatto incetta di tutto ciò che si poteva razzolare in Italia, dalla grande distribuzione all’energia, i tedeschi si sono limitati ad acquisire marchi di prestigio (come per esempio Ducati) dall’elevato grado di innovazione tecnologica, dalla diffusa riconoscibilità a livello internazionale e dalla spiccata tendenza a penetrare nei mercati esteri. Strategia questa che conferma ciò che abbiamo prima detto: la Germania si propone di diventare l’unico polo industriale sviluppato d’Europa, dedicato principalmente alle esportazioni, lasciando ai paesi della periferia il compito di produrre a buon prezzo la componentistica e i beni a basso o nullo contenuto tecnologico (le viti e i bulloni, per intenderci).
(...)
E senza mezzi termini, quando uno stato diventa povero di proprietà e beni pubblici e privo di competenze tecniche (e anche umanistiche, giuridiche, “politiche”), è destinato prima o dopo a diventare una colonia, una nazione satellite, un paese del Terzo Mondo. E questo non lo diciamo solo noi bloggers di frontiera o economisti isolati qua e la in mezzo allo sterminato deserto dei Tartari italiano, ma tutti i maggiori analisti economici e finanziari del mondo (basta farsi un giro sui siti e sui giornali americani, inglesi, giapponesi, australiani, per capire di cosa stiamo parlando), non ultimo lo stesso premio Nobel per l’economia americano Paul Krugman, che riferendosi proprio all’Italia e alla Spagna, aveva detto tempo fa: “Quello che è successo è che entrando nell’euro, la Spagna e l’Italia hanno ridotto loro stessi a paesi del Terzo Mondo, che prendono in prestito la moneta di qualcun’altro, con tutte le perdite di flessibilità che tale operazione comporta. In particolare, siccome i paesi dell’area euro non possono stampare moneta neanche in casi di emergenza, sono soggetti a interruzioni di finanziamenti, a differenza dei paesi che invece hanno mantenuto la propria moneta. Il risultato è quello che abbiamo tutti sotto gli occhi”.
* Fonte: tempesta perfetta
Il suggestivo nome di questa selezione a domicilio era “Job of my life” e ha toccato le più importanti città italiane: Roma, Napoli, Milano, Bologna, Torino, Genova, Bari, Lecce, Padova, Verona, Catania. Durante il giro sono state raccolte circa 6.300 candidature, in particolare di ingegneri e tecnici specializzati fra i 18-35 anni, da proporre alle maggiori aziende tedesche. Il reclutamento non garantiva il posto di lavoro fisso ma solo la promessa che anche in caso di momentanea bocciatura i ragazzi sarebbero stati inseriti in un database, in attesa della fatidica chiamata dalla Germania. Analoghi programmi di selezione di giovani disoccupati di elevata formazione e specializzazione sono stati organizzati pure in Irlanda, Spagna, Portogallo. Ovvero nei paesi che sono stati più danneggiati dall’atteggiamento competitivo della Germania, che ha saputo meglio sfruttare le dinamiche di squilibrio commerciale e finanziario messe in moto dalla moneta unica.
« Job of my life» |
Intendiamoci, questi progetti di cooperazione internazionale e di scambio di competenze e conoscenze sono molto interessanti ed efficaci, ma solo quando presentano caratteristiche di reciprocità, multilateralità e non sono a senso unico: dai paesi poveri e disastrati verso l’unica nazione ricca e vincente, e mai viceversa. Perché, allo stesso modo di ciò che accade con lo scambio delle merci e dei capitali, si verrebbe a creare all’interno dell’eurozona uno sbilanciamento di forza lavoro qualificata a vantaggio dell’unico grande paese in surplus e a svantaggio di quelli in deficit. Condannando in pratica questi ultimi alla regressione produttiva e alla marginalizzazione nei settori a scarso valore aggiunto e innovativo. E questa è solo l’ultima sfaccettatura del saccheggio in corso, che sta avvenendo in tempo reale, sotto i nostri occhi. Mentre noi siamo impegnati ad assistere alla seconda elezione di re Giorgio Napolitano II e all’imminente insediamento del prossimo governo, personaggi cioè che sono stati tra i principali artefici della distruzione del tessuto produttivo e sociale italiano, fin dai tempi dell’ingresso dell’Italia nello SME del 1979, e oggi hanno il compito specifico di difendere e tutelare la classe politica corresponsabile del disastro. Gli italiani sono talmente illusi e imbesuiti da credere che coloro che hanno “scientemente” spinto il paese verso il baratro siano gli stessi a farlo riemergere dagli abissi: misteri della fede. Dove arriva l’idolatria mistica, la ragione per forza di cose deve arretrare.
Grazie ai benefici acquisiti con l’introduzione dell’euro, che annullando la normale fluttuazione dei tassi di cambio ha cancellato di colpo l’unico strumento di difesa delle economie deboli nei confronti di quella forte, la Germania ha di fatto stravolto gli equilibri politici-economici fino ad allora esistenti in Europa, diventando l’unico paese egemone in mezzo ad una serie di paesi cuscinetto o colonie. E ben consci di questo ruolo, i tedeschi non hanno più alcun imbarazzo e pudore a comportarsi come un paese di conquistatori ed invasori: in attesa di mettere le mani sugli ultimi pezzi pregiati aziendali e patrimoniali dell’Italia, la Germania si porta via le nostre migliori competenze tecniche disponibili, formate grazie ai sacrifici delle famiglie italiane e agli investimenti nel nostro sistema scolastico statale o privato.
Noi seminiamo e i tedeschi raccolgono i frutti. E c’è una ragione precisa che spinge i tedeschi alla ricerca disperata di nuova manodopera qualificata: mentre nell’eurozona continua ad aumentare il numero di persone in età da lavoro, in Germania invece diminuisce progressivamente. Come si può vedere nel grafico sotto, la forza lavoro della Germania fra i 15 e i 64 anni si è ridotta del 2% negli ultimi undici anni, al contrario della media dell’intera zona euro, dove è aumentata del 7%.
Questo potrebbe anche essere uno dei motivi che spiega i livelli record di bassa disoccupazione della Germania, rispetto alla crescita che si registra nell’eurozona, dove gli ultimi dati confermano la salita del tasso di disoccupazione fino al 12%. Da notare poi che i tedeschi non cercano manodopera generica, perché questa può essere reperita a buon mercato tra le folte schiere degli immigrati che arrivano dall’Est Europa, dalla Turchia o dall’Africa, ma persone molto istruite e specializzate, che in qualunque paese rappresentano il serbatoio principale da cui partire per costruire la futura classe imprenditoriale e dirigente: un paese senza quadri e competenze è un paese senza futuro.
E questo la Germania pare saperlo bene, mentre l'Italia crede ancora che costringere i nostri migliori cervelli alla fuga e tenersi la feccia sia una mossa furba che ci concede onere e lustro in tutto il mondo. Ripetiamo che mandare i nostri ragazzi in Germania a farsi le ossa e l’esperienza potrebbe essere un grande vantaggio per noi in un’ottica di lungo periodo (sperando che un giorno l’Italia riesca ad uscire dai pantani e una parte di questi ragazzi possa rientrare in patria con un notevole bagaglio di conoscenze e know how), ma in una fase di crisi come questa risulta solo l’ultimo affronto che i tedeschi hanno fatto al presunto spirito di cooperazione e collaborazione che “dovrebbe” animare questa strampalata unione monetaria. Invece di aiutare la ripresa delle aziende italiane, la Germania non solo ostacola tutti i piani di politica economica espansiva che potrebbero favorire la crescita, ma preferisce addirittura dare il colpo di grazia agli storici concorrenti privandoli della linfa vitale che assicura l’operosità, il rinnovamento, la creatività e il ricambio generazionale delle nostre aziende.
Quelli che ancora credono al sogno europeo, alla chimera degli Stati Uniti d’Europa che fino ad oggi è servita a confondere e depistare gli allocchi di turno, dovrebbero dare un’occhiata alla lunga lista di svendite di pezzi importanti della nostra industria nazionale che si è ampliata senza sosta in questi ultimi anni, per capire meglio la portata della catastrofe economica in cui ci siamo volontariamente impelagati. Nel nome del liberismo selvaggio e dell’apertura incondizionata ai “mercati”, di indirizzi cioè di politica economica più che mai discutibili e anacronistici che in misura così sconsiderata e scriteriata hanno contagiato soltanto i paesi dell’eurozona, mentre il resto del mondo si è guardato bene da seguire alla lettera i dettami di questa scellerata dottrina accademica-teologica (i cui dogmi, come abbiamo visto, sono basati perlopiù da manipolazioni e strumentalizzazioni dei dati reali) e ha adottato misure più o meno protezionistiche per difendere il proprio tessuto economico nazionale. Curiosa poi la circostanza che mentre i francesi hanno fatto incetta di tutto ciò che si poteva razzolare in Italia, dalla grande distribuzione all’energia, i tedeschi si sono limitati ad acquisire marchi di prestigio (come per esempio Ducati) dall’elevato grado di innovazione tecnologica, dalla diffusa riconoscibilità a livello internazionale e dalla spiccata tendenza a penetrare nei mercati esteri. Strategia questa che conferma ciò che abbiamo prima detto: la Germania si propone di diventare l’unico polo industriale sviluppato d’Europa, dedicato principalmente alle esportazioni, lasciando ai paesi della periferia il compito di produrre a buon prezzo la componentistica e i beni a basso o nullo contenuto tecnologico (le viti e i bulloni, per intenderci).
(...)
E senza mezzi termini, quando uno stato diventa povero di proprietà e beni pubblici e privo di competenze tecniche (e anche umanistiche, giuridiche, “politiche”), è destinato prima o dopo a diventare una colonia, una nazione satellite, un paese del Terzo Mondo. E questo non lo diciamo solo noi bloggers di frontiera o economisti isolati qua e la in mezzo allo sterminato deserto dei Tartari italiano, ma tutti i maggiori analisti economici e finanziari del mondo (basta farsi un giro sui siti e sui giornali americani, inglesi, giapponesi, australiani, per capire di cosa stiamo parlando), non ultimo lo stesso premio Nobel per l’economia americano Paul Krugman, che riferendosi proprio all’Italia e alla Spagna, aveva detto tempo fa: “Quello che è successo è che entrando nell’euro, la Spagna e l’Italia hanno ridotto loro stessi a paesi del Terzo Mondo, che prendono in prestito la moneta di qualcun’altro, con tutte le perdite di flessibilità che tale operazione comporta. In particolare, siccome i paesi dell’area euro non possono stampare moneta neanche in casi di emergenza, sono soggetti a interruzioni di finanziamenti, a differenza dei paesi che invece hanno mantenuto la propria moneta. Il risultato è quello che abbiamo tutti sotto gli occhi”.
* Fonte: tempesta perfetta
1 commento:
salve , io vivo in irlanda del nord e questo dei recruitment qua non è cosa nuova .... però qua sono gli australiani , canadesi a prendere le emnti migliori e operai specializzati ( e non guardano piu di tanto l'eta !!!)
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