30 maggio. Le amministrative hanno registraro un balzo senza precedenti dell'astensione. Pubblichiamo la prima parte dell'indagine di Michele Nobile. Tutto l'articolo su Utopia Rossa.
I risultati delle elezioni comunali non sono affatto inaspettati. Il dato evidente è l’ulteriore conferma della tendenza alla crescita dell’astensione: a confronto della precedente tornata elettorale nei comuni, la partecipazione è crollata di 15 punti di percentuale, dal 77% al 62% degli elettori. Il crollo è particolarmente forte al Nord (Piemonte, -14 punti; Lombardia, -18 punti), nella zona «rossa» (Emilia Romagna, -18; Toscana, -20), nel Lazio (-19 punti); ed è meno marcato nel Mezzogiorno, ma sulla base di una partecipazione elettorale già più bassa. Nel complesso, il crollo della partecipazione avvicina, in questo, il Nord e il Sud. All’astensione si dovrebbero aggiungere le schede bianche e nulle (che erano state circa 1,3 milioni nelle ultime politiche), pari a quasi il 3% dell’elettorato. Il dato fondamentale è l’ulteriore crollo di credibilità delle elezioni come soluzione dei problemi politici e sociali. Crollo che, ovviamente, colpisce la legittimità dei partiti che vi partecipano.
Come si vede dal grafico, prima metà degli anni Novanta del secolo scorso segnò un’accelerazione nella crescita dell’astensione, particolarmente forte nelle elezioni regionali (ed europee).
Con queste ultime elezioni i risultati delle comunali si allineano a quelli delle regionali.
È importante tener conto che la crescita dell’astensione elettorale è un fenomeno internazionale, non solo italiano, riguardante la totalità dei paesi a capitalismo avanzato (con rilevanti differenze nazionali nei livelli e ritmi). Si tratta di un fatto macroscopico e significativo della trasformazione strutturale dei sistemi politici, non riducibile alla congiuntura economica o al prevalere di partiti particolari, siano detti di destra o di sinistra. Questa trasformazione può essere indicata come avvento della postdemocrazia, regime liberale ma caratterizzato dalla statalizzazione dei partiti e dalla loro convergenza nell’azione di governo. Della trasformazione postdemocratica l’Italia è un caso di massima avanguardia, nel quale più evidenti sono gli aspetti degenerativi, corruttivi, castali, antidemocratici dei sistemi di partito. Essa fu avviata dal centrosinistra, che negli ultimi due decenni ha condiviso alla pari gli anni di governo col centrodestra (e che ora con esso ormai governa addirittura congiuntamente, alla faccia dell’antiberlusconismo con cui ha drogato il proprio elettorato per un intero ventennio).
In tale contesto postdemocratico, in cui i parlamenti non fanno altro che legiferare contro i cittadini, non stupisce che cresca il senso di estraneità nei confronti delle caste politiche e delle procedure elettorali attraverso cui esse cercano di legittimarsi e di dividersi le spoglie nelle istituzioni.
Tra il 1994 e il 2006 le fluttuazioni dell’astensione degli elettori di una delle due coalizioni furono decisive per sancire il successo del centrosinistra oppure del centrodestra: gli elettori punivano la coalizione del governo uscente astenendosi. Nel 2008 invece l’astensionismo colpì entrambe le coalizioni, ma in modo più grave il centrosinistra e, specialmente, i partiti di sinistra che avevano arrogantemente tradito le aspettative dei loro elettori; nelle politiche del 2013 la crisi di legittimità è esplosa con un nuovo e forte balzo dell’astensione degli elettori di entrambe le coalizioni e il successo del M5S. Essa continua ancora con queste elezioni, nelle quali sia il centrosinistra che il centrodestra perdono in massa voti, presagio di un ulteriore tracollo elettorale nelle prossime politiche (come peraltro ci auguriamo...).
Forte arretramento del Pd, del Pdl e della Lega rispetto alle politiche del 2013 e alle regionali del 2010
Stando all’analisi dei risultati elettorali in 16 comuni capoluogo dell’Istituto Cattaneo, rispetto alle politiche 2013 il Partito democratico perde il 63% dei voti (-243.000) e il 47,6% rispetto alle elezioni regionali del 2010; analogamente, il Popolo della Libertà perde il 65,8% dei voti (-163.000) sulle politiche, il 46,5% sulle regionali. Non fa meglio la Lega nord, che dimezza i voti sulle politiche e perde i due terzi dei voti sulle regionali.
Dunque, se si vuol dare un significato politico alle amministrative, si può dire che il governo di «unità nazionale al 42%» (calcolato sulla base del fatto che ciascuna delle due coalizioni ottenne a febbraio il consenso del 21% degli elettori), è stato sonoramente punito. Diciamo che di questo passo le due frazioni maggiori della casta potrebbero arrivare a totalizzare, insieme, il 20-30% dei voti se si votasse nuovamente per il Parlamento nel giro di un anno. La crisi di legittimità della casta politica continua a marciare, ma anche a farsi pericolosa: e la paura di questa continua perdita di voti e di credibilità sta cominciando a rafforzare lo spirito unitario d’autodifesa del centrosinistra e del centrodestra nei confronti dei possibili concorrenti politici (il M5S in primo luogo).
I politici e i giornali che cantano vittoria, specie per il centrosinistra, utilizzando percentuali calcolate sui votanti diffondono una truffa: si tratta di percentuali funzionali all’attribuzione dei sindaci e dei seggi, sulla base della legge elettorale, ma non riflettono affatto, anzi distorcono fortemente, il grado reale di consenso politico.
A Roma, ad esempio, calcolando sui votanti il centrosinistra ottiene il 42,6% e il centrodestra il 30,2%; ma calcolando sull’insieme dei cittadini con diritto di voto, le percentuali crollano, rispettivamente, al 21% e al 15%, mentre la lista di Medici non ha il 2,2% ma l’1,1% e il M5S non il 12,4% ma il 6,3%. In molti capoluoghi il centrosinistra vince col consenso del 21% degli elettori, massimo il 30%: come nel caso del governo nazionale non si può certo dire che le giunte siano rappresentative di una maggioranza. Al contrario, nelle istituzioni oramai si rappresentano minoranze in caduta effettiva o tendenziale. Tuttavia la procedura elettorale continua a produrre effetti reali perché, per quanto minoranza nel paese, sono i partiti di governo, di centrosinistra e di centrodestra, i reali detentori del potere istituzionale (per il potere reale il discorso è molto diverso e si rinvia a precedenti lavori di Utopia rossa sul tema). Quel che conta è che qualcuno voti .
A sinistra dei partiti di governo (i "Forchettoni rossi", per capirci...)
La sinistra che noi definiamo da tempo come “rossoforchettonica” (Sel, Sinistra arcobaleno, Rif. Com.-Pdci), scrive l’Istituto Cattaneo, «tiene», il che è già una notizia; anzi, nei 16 capoluoghi guadagna l’8,8% sulle politiche e il 25% sulle regionali del 2010.
Bisogna intendersi meglio, però. Questa sinistra dalle aspirazioni governative frustrate è opportunisticamente divisa: a volte è in coalizione col Pd, a volte no, a volte è unita, a volte no. Sulle politiche, una crescita complessiva dell’8,8% corrisponde a 163 mila voti, circa lo 0,3% dell’elettorato. Aggiungendo questi voti ai risultati di febbraio, se la sinistra dei Forchettoni rossi si presentasse unita arriverebbe al 4% dei voti sul totale degli elettori e supererebbe il 5% dei votanti (sempre sul 2013). Questo, tuttavia, se tutto dovesse andargli bene: cosa che la tragicomica lista Ingroia, la disillusione nei confronti della giunta milanese di Pisapia e la giusta nausea diffusa nei confronti dei Forchettoni rossi non autorizzano a prevedere. Ad alcuni risultati positivi in centri minori fanno da contrappeso il macigno dei 30 mila voti in meno rispetto a febbraio delle comunali di Roma, dato ottenuto sommando i voti di Sel (2,7% degli elettori), in lista col Pd, e della lista Medici (1,1% degli elettori).
L’arretramento del M5S rispetto alle politiche
Eppure, un lume di speranza per la Casta partitica italiana, specialmente non-berlusconiana, queste comunali l’hanno acceso: l’arretramento del M5S che ha perso 2/3 dei voti rispetto alle politiche.
(Non ha invece perso voti rispetto alle precedenti comunali del 2008, nei pochi casi in cui si era già presentato; anzi ha guadagnato moltissimo. Ma il confronto non si può fare, vista la scarsa rappresentatività nelle scorse comunali: se si facesse, però, si dovrebbe parlare di un loro discreto successo, sia per i circa 400 consiglieri ottenuti, sia per la quantità complessiva di voti che, pur non essendo quella delle politiche, è ancora superiore ai livelli che caratterizzavano la Lega, Monti o le varie alleanze di centro con Casini. E’ evidente la disonestà: se per es. Rifondazione o Casini avessero ottenuto un tale risultato alle comunali – partendo da zero – avrebbero gridato alla vittoria e gliela avrebbero riconosciuta anche i media del sistema. Per il M5S questo risultato viene tenuto gelosamente nascosto: nessun giornale, che io sappia, ha fatto un confronto tra i dati del 2013 e le comunali del 2008 – una menzione a parte meritano invece i due editoriali dedicati al M5S, molto lucidi e onesti, scritti da Travaglio sul Fatto Quotidiano di oggi e di ieri, 28 e 29 maggio.)
Il voto amministrativo ha le sue particolarità ma, prima di entrare nel merito degli errori di marketing o di propaganda (di «comunicazione», come lo chiamano i diretti interessati) del M5S nel mercato elettorale - dominato da mass media che gli sono, complessivamente ostili essendo direttamente dipendenti dalla Casta - penso occorra cogliere un paradosso. E questo consiste nel fatto che si conferma la politicità del voto per il M5S e anche del non-voto, della scelta astensionistica.
Ricordiamo intanto che in occasione delle politiche, a ingigantire il successo elettorale del M5S erano confluiti flussi elettorali provenienti soprattutto (anche se non solo) dal centrosinistra, dall’area rossoforchettonica e in parte dall’astensione (che comunque era ugualmente cresciuta nonostante il «salasso» grillino).
L’astensione e il voto per il M5S sono due forme complementari di esprimere la rottura con la Casta, operazione che non poteva e non può riuscire a nessun prodotto dell’ingegneria elettoralistica della sinistra post-Pci e rossoforchettonica. Queste comunali hanno mostrato con discreta evidenza (lo riconosce anche Mannheimer sul Corriere dando la cifra di un 40%) che, dopo meno di tre mesi, circa la metà dei voti per il M5S sono tornati o passati per la prima volta all’astensione. Stando all’analisi dei flussi elettorali in quattro città dell’Istituto Cattaneo, «a Brescia e ad Ancona circa la metà dei voti dei 5 stelle del febbraio 2013 sono andati all’astensione, a Treviso un terzo» (a Barletta, invece, l’astensionismo si è ridotto); l’altra metà dei voti persi dal M5S rispetto alle politiche sarebbe invece andata agli altri partiti e alle liste civiche. Con ogni probabilità, ammesso che il ragionamento su quattro città possa estendersi sull’intero corpo elettorale nazionale, è su questa seconda metà dei voti persi dal M5S che influisce la specificità delle elezioni amministrative.
Sui risultati del M5S hanno certamente pesato in modo negativo la forte personalizzazione (e il clientelismo diffuso) delle elezioni amministrative in quanto tali, la scarsa notorietà e anche la mediocrità dei candidati proposti, il rilievo del voto di scambio o «utile», da una parte, e l’irrilevanza di momenti di propaganda centrati su Grillo dall’altra.
Non è detto però che l’insuccesso debba ripetersi in caso di elezioni politiche anticipate: il M5S potrebbe non ripetere l’eccezionale impresa di febbraio, ottenendo però comunque buoni risultati, sufficienti a creare problemi per la formazione e la stabilità di un nuovo governo della Casta (unita o separata): fatto auspicabile perché più governabilità significa attacco sempre più grave alle condizioni sociali della popolazione. La tendenza alla delegittimazione dei partiti di governo rimane infatti forte, in proporzione anzi si accentua: quel che potrebbe perdere il M5S potrebbe guadagnare l’astensione.
I risultati delle elezioni comunali non sono affatto inaspettati. Il dato evidente è l’ulteriore conferma della tendenza alla crescita dell’astensione: a confronto della precedente tornata elettorale nei comuni, la partecipazione è crollata di 15 punti di percentuale, dal 77% al 62% degli elettori. Il crollo è particolarmente forte al Nord (Piemonte, -14 punti; Lombardia, -18 punti), nella zona «rossa» (Emilia Romagna, -18; Toscana, -20), nel Lazio (-19 punti); ed è meno marcato nel Mezzogiorno, ma sulla base di una partecipazione elettorale già più bassa. Nel complesso, il crollo della partecipazione avvicina, in questo, il Nord e il Sud. All’astensione si dovrebbero aggiungere le schede bianche e nulle (che erano state circa 1,3 milioni nelle ultime politiche), pari a quasi il 3% dell’elettorato. Il dato fondamentale è l’ulteriore crollo di credibilità delle elezioni come soluzione dei problemi politici e sociali. Crollo che, ovviamente, colpisce la legittimità dei partiti che vi partecipano.
Come si vede dal grafico, prima metà degli anni Novanta del secolo scorso segnò un’accelerazione nella crescita dell’astensione, particolarmente forte nelle elezioni regionali (ed europee).
Con queste ultime elezioni i risultati delle comunali si allineano a quelli delle regionali.
È importante tener conto che la crescita dell’astensione elettorale è un fenomeno internazionale, non solo italiano, riguardante la totalità dei paesi a capitalismo avanzato (con rilevanti differenze nazionali nei livelli e ritmi). Si tratta di un fatto macroscopico e significativo della trasformazione strutturale dei sistemi politici, non riducibile alla congiuntura economica o al prevalere di partiti particolari, siano detti di destra o di sinistra. Questa trasformazione può essere indicata come avvento della postdemocrazia, regime liberale ma caratterizzato dalla statalizzazione dei partiti e dalla loro convergenza nell’azione di governo. Della trasformazione postdemocratica l’Italia è un caso di massima avanguardia, nel quale più evidenti sono gli aspetti degenerativi, corruttivi, castali, antidemocratici dei sistemi di partito. Essa fu avviata dal centrosinistra, che negli ultimi due decenni ha condiviso alla pari gli anni di governo col centrodestra (e che ora con esso ormai governa addirittura congiuntamente, alla faccia dell’antiberlusconismo con cui ha drogato il proprio elettorato per un intero ventennio).
In tale contesto postdemocratico, in cui i parlamenti non fanno altro che legiferare contro i cittadini, non stupisce che cresca il senso di estraneità nei confronti delle caste politiche e delle procedure elettorali attraverso cui esse cercano di legittimarsi e di dividersi le spoglie nelle istituzioni.
Tra il 1994 e il 2006 le fluttuazioni dell’astensione degli elettori di una delle due coalizioni furono decisive per sancire il successo del centrosinistra oppure del centrodestra: gli elettori punivano la coalizione del governo uscente astenendosi. Nel 2008 invece l’astensionismo colpì entrambe le coalizioni, ma in modo più grave il centrosinistra e, specialmente, i partiti di sinistra che avevano arrogantemente tradito le aspettative dei loro elettori; nelle politiche del 2013 la crisi di legittimità è esplosa con un nuovo e forte balzo dell’astensione degli elettori di entrambe le coalizioni e il successo del M5S. Essa continua ancora con queste elezioni, nelle quali sia il centrosinistra che il centrodestra perdono in massa voti, presagio di un ulteriore tracollo elettorale nelle prossime politiche (come peraltro ci auguriamo...).
Forte arretramento del Pd, del Pdl e della Lega rispetto alle politiche del 2013 e alle regionali del 2010
Stando all’analisi dei risultati elettorali in 16 comuni capoluogo dell’Istituto Cattaneo, rispetto alle politiche 2013 il Partito democratico perde il 63% dei voti (-243.000) e il 47,6% rispetto alle elezioni regionali del 2010; analogamente, il Popolo della Libertà perde il 65,8% dei voti (-163.000) sulle politiche, il 46,5% sulle regionali. Non fa meglio la Lega nord, che dimezza i voti sulle politiche e perde i due terzi dei voti sulle regionali.
Dunque, se si vuol dare un significato politico alle amministrative, si può dire che il governo di «unità nazionale al 42%» (calcolato sulla base del fatto che ciascuna delle due coalizioni ottenne a febbraio il consenso del 21% degli elettori), è stato sonoramente punito. Diciamo che di questo passo le due frazioni maggiori della casta potrebbero arrivare a totalizzare, insieme, il 20-30% dei voti se si votasse nuovamente per il Parlamento nel giro di un anno. La crisi di legittimità della casta politica continua a marciare, ma anche a farsi pericolosa: e la paura di questa continua perdita di voti e di credibilità sta cominciando a rafforzare lo spirito unitario d’autodifesa del centrosinistra e del centrodestra nei confronti dei possibili concorrenti politici (il M5S in primo luogo).
I politici e i giornali che cantano vittoria, specie per il centrosinistra, utilizzando percentuali calcolate sui votanti diffondono una truffa: si tratta di percentuali funzionali all’attribuzione dei sindaci e dei seggi, sulla base della legge elettorale, ma non riflettono affatto, anzi distorcono fortemente, il grado reale di consenso politico.
A Roma, ad esempio, calcolando sui votanti il centrosinistra ottiene il 42,6% e il centrodestra il 30,2%; ma calcolando sull’insieme dei cittadini con diritto di voto, le percentuali crollano, rispettivamente, al 21% e al 15%, mentre la lista di Medici non ha il 2,2% ma l’1,1% e il M5S non il 12,4% ma il 6,3%. In molti capoluoghi il centrosinistra vince col consenso del 21% degli elettori, massimo il 30%: come nel caso del governo nazionale non si può certo dire che le giunte siano rappresentative di una maggioranza. Al contrario, nelle istituzioni oramai si rappresentano minoranze in caduta effettiva o tendenziale. Tuttavia la procedura elettorale continua a produrre effetti reali perché, per quanto minoranza nel paese, sono i partiti di governo, di centrosinistra e di centrodestra, i reali detentori del potere istituzionale (per il potere reale il discorso è molto diverso e si rinvia a precedenti lavori di Utopia rossa sul tema). Quel che conta è che qualcuno voti .
A sinistra dei partiti di governo (i "Forchettoni rossi", per capirci...)
La sinistra che noi definiamo da tempo come “rossoforchettonica” (Sel, Sinistra arcobaleno, Rif. Com.-Pdci), scrive l’Istituto Cattaneo, «tiene», il che è già una notizia; anzi, nei 16 capoluoghi guadagna l’8,8% sulle politiche e il 25% sulle regionali del 2010.
Bisogna intendersi meglio, però. Questa sinistra dalle aspirazioni governative frustrate è opportunisticamente divisa: a volte è in coalizione col Pd, a volte no, a volte è unita, a volte no. Sulle politiche, una crescita complessiva dell’8,8% corrisponde a 163 mila voti, circa lo 0,3% dell’elettorato. Aggiungendo questi voti ai risultati di febbraio, se la sinistra dei Forchettoni rossi si presentasse unita arriverebbe al 4% dei voti sul totale degli elettori e supererebbe il 5% dei votanti (sempre sul 2013). Questo, tuttavia, se tutto dovesse andargli bene: cosa che la tragicomica lista Ingroia, la disillusione nei confronti della giunta milanese di Pisapia e la giusta nausea diffusa nei confronti dei Forchettoni rossi non autorizzano a prevedere. Ad alcuni risultati positivi in centri minori fanno da contrappeso il macigno dei 30 mila voti in meno rispetto a febbraio delle comunali di Roma, dato ottenuto sommando i voti di Sel (2,7% degli elettori), in lista col Pd, e della lista Medici (1,1% degli elettori).
L’arretramento del M5S rispetto alle politiche
Eppure, un lume di speranza per la Casta partitica italiana, specialmente non-berlusconiana, queste comunali l’hanno acceso: l’arretramento del M5S che ha perso 2/3 dei voti rispetto alle politiche.
(Non ha invece perso voti rispetto alle precedenti comunali del 2008, nei pochi casi in cui si era già presentato; anzi ha guadagnato moltissimo. Ma il confronto non si può fare, vista la scarsa rappresentatività nelle scorse comunali: se si facesse, però, si dovrebbe parlare di un loro discreto successo, sia per i circa 400 consiglieri ottenuti, sia per la quantità complessiva di voti che, pur non essendo quella delle politiche, è ancora superiore ai livelli che caratterizzavano la Lega, Monti o le varie alleanze di centro con Casini. E’ evidente la disonestà: se per es. Rifondazione o Casini avessero ottenuto un tale risultato alle comunali – partendo da zero – avrebbero gridato alla vittoria e gliela avrebbero riconosciuta anche i media del sistema. Per il M5S questo risultato viene tenuto gelosamente nascosto: nessun giornale, che io sappia, ha fatto un confronto tra i dati del 2013 e le comunali del 2008 – una menzione a parte meritano invece i due editoriali dedicati al M5S, molto lucidi e onesti, scritti da Travaglio sul Fatto Quotidiano di oggi e di ieri, 28 e 29 maggio.)
Il voto amministrativo ha le sue particolarità ma, prima di entrare nel merito degli errori di marketing o di propaganda (di «comunicazione», come lo chiamano i diretti interessati) del M5S nel mercato elettorale - dominato da mass media che gli sono, complessivamente ostili essendo direttamente dipendenti dalla Casta - penso occorra cogliere un paradosso. E questo consiste nel fatto che si conferma la politicità del voto per il M5S e anche del non-voto, della scelta astensionistica.
Ricordiamo intanto che in occasione delle politiche, a ingigantire il successo elettorale del M5S erano confluiti flussi elettorali provenienti soprattutto (anche se non solo) dal centrosinistra, dall’area rossoforchettonica e in parte dall’astensione (che comunque era ugualmente cresciuta nonostante il «salasso» grillino).
L’astensione e il voto per il M5S sono due forme complementari di esprimere la rottura con la Casta, operazione che non poteva e non può riuscire a nessun prodotto dell’ingegneria elettoralistica della sinistra post-Pci e rossoforchettonica. Queste comunali hanno mostrato con discreta evidenza (lo riconosce anche Mannheimer sul Corriere dando la cifra di un 40%) che, dopo meno di tre mesi, circa la metà dei voti per il M5S sono tornati o passati per la prima volta all’astensione. Stando all’analisi dei flussi elettorali in quattro città dell’Istituto Cattaneo, «a Brescia e ad Ancona circa la metà dei voti dei 5 stelle del febbraio 2013 sono andati all’astensione, a Treviso un terzo» (a Barletta, invece, l’astensionismo si è ridotto); l’altra metà dei voti persi dal M5S rispetto alle politiche sarebbe invece andata agli altri partiti e alle liste civiche. Con ogni probabilità, ammesso che il ragionamento su quattro città possa estendersi sull’intero corpo elettorale nazionale, è su questa seconda metà dei voti persi dal M5S che influisce la specificità delle elezioni amministrative.
Sui risultati del M5S hanno certamente pesato in modo negativo la forte personalizzazione (e il clientelismo diffuso) delle elezioni amministrative in quanto tali, la scarsa notorietà e anche la mediocrità dei candidati proposti, il rilievo del voto di scambio o «utile», da una parte, e l’irrilevanza di momenti di propaganda centrati su Grillo dall’altra.
Non è detto però che l’insuccesso debba ripetersi in caso di elezioni politiche anticipate: il M5S potrebbe non ripetere l’eccezionale impresa di febbraio, ottenendo però comunque buoni risultati, sufficienti a creare problemi per la formazione e la stabilità di un nuovo governo della Casta (unita o separata): fatto auspicabile perché più governabilità significa attacco sempre più grave alle condizioni sociali della popolazione. La tendenza alla delegittimazione dei partiti di governo rimane infatti forte, in proporzione anzi si accentua: quel che potrebbe perdere il M5S potrebbe guadagnare l’astensione.
1 commento:
quel che potrebbe perdere il m5s, spero che possa riversarsi verso un fronte popolare per il socialismo che mi auguro possa muovere da subito i primi passi; con ciò non vuol dire che con frettolosità stupida si debba pensare alla partecipazione elettorale, ma pensare invece come lavorare per essere presenti nel territorio, ed essere riconosciuti come punto di riferiemnto politico e sociale dai lavoratori e dai meno abbienti.
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