Le regole del gioco
In primis il luogo del blitz e le sue modalità operative:
Abbottabad è una città a un’ora di macchina (assai variabile, visti i tornanti del percorso tra le colline) a nord di Islamabad, collocata amministrativamente nella North West Frontier ma senza statuto speciale da Agency. Anche gli stranieri possono andarci senza permesso speciale. A differenza del Waziristan, per esempio, le compagini tribali che risiedono nell’area non hanno mai creato soverchi problemi allo stato pakistano. Ma soprattutto la città è una sorta di grande caserma, non essendo mutato il suo ruolo di guarnigione che, alla metà dell’Ottocento, ne aveva determinato la fondazione a opera del Raj britannico, che vi aveva stanziato truppe scelte destinate a controllare i riottosi “popoli della montagna”, come li chiamava Kipling. Dopo la Partizione dell’India e la fondazione del Pakistan il ruolo di nodo militare strategico si è semmai rinforzato, dacché si trattava ormai di far fronte non soltanto all’irredentismo dei Pashtuni (a ovest) ma anche all’occupazione indiana del vicino Kashmir (a est): vi è stata collocata la più importante accademia militare del Paese e vi sono stanziate alcuni dei reparti scelti dell’esercito pakistano.
Le caserme che punteggiano la città e l’area circostante sono decine, si snodano in ogni direzione e senza soluzione di continuità per molti chilometri, tutt’al più alternandosi a grandi allevamenti di polli stratificati su più piani; la sua protezione difensiva si suppone capillare e sofisticata (soprattutto in caso di attacco aereo), laddove una nuova guerra con l’India la renderebbe un obiettivo primario e prossimo. Per chi non lo sapesse, l’esercito pakistano non è soltanto di proporzioni notevoli, ma anche efficiente e attrezzato (peraltro da una quantità inesausta di armi americane tra le più efficaci sul piano tecnologico, che hanno costituito la carta di scambio più importante per il lealismo pakistano, sia all’epoca della “guerra fredda” che in quella della “lotta al terrorismo”), ben diverso e senza misura competitiva, per esempio, dall’armata sopravvalutata che fu di Saddam o da quella di Gheddafi. La città è sostanzialmente tranquilla né mi risulta esser stata teatro, recentemente, di manifestazioni di un qualche rilievo né di attentati eclatanti. Nulla a che vedere, dunque, con la pericolosa Peshawar né con la conflittuale Valle dello Swat e nemmeno col conglomerato ormai sovradimensionato e teatro di rivolte e attentati formato dalla capitale Islamabad e da Rawalpindi, per parlare di altri luoghi prossimi a Abbottabad. Chi scrive, avendo percorso la città e l’area circostante in un’epoca assai meno turbolenta di quella attuale (cinque anni fa), è incorso in numerosi check point tutti gestiti efficacemente da gentili militari dell’esercito e non dalla scalcinata polizia. E’ stato possibile persino avvicinare in piena notte, sotto lo sguardo compiacente dei soldati di guardia, il monumento più significativo della città dopo la roccia fatta graffire dal Re buddista Ashoka più di duemila anni fa, in cui si celebrava la fine di ogni guerra all’insegna di una meditazione sulla vanità dell’umana violenza e di una dieta rigorosamente vegetariana: un elicottero indiano da combattimento abbattuto nella guerra del 1970, in cui una fioca luce illuminava due manichini insanguinati che rappresentavano i piloti indiani. L’altitudine notevole (1600 mt. circa s.l.m.) garantisce un’efficienza operativa e addestrativa impensabile nelle pur prossime pianure del Punjiab, dove di snoda la lunga e torrida “estate indiana”.
Prima costatazione ovvia: in un contesto di tal tipo qualcuno può pensare che il blitz americano sarebbe andato così liscio senza il placet dell’esercito pakistano (più che di quello dell’ISI, il potente servizio segreto)? Oltretutto, in assenza di una qualsiasi reazione durante e dopo l’attacco, gli americani hanno provveduto da soli a rallentare e incasinare l’operazione, perdendo un elicottero (la tesi ufficiale è un’avaria, ma non va escluso un incidente in fase d’atterraggio o di decollo).
Seconda costatazione ovvia: persino a detta dei comunicati ufficiali Bin Laden disponeva di un paio d’inservienti (nominati “corrieri” non si sa bene in base a quale ipotesi o forse erano muniti di cappello da postini?) e di una certa quantità di mogli e figli, tutti disarmati. Che l’uomo più ricercato del mondo non disponesse nemmeno di un coltello a serramanico e se ne stesse in famiglia senza telefoni né connessioni internet indica la sua condizione agli “arresti domiciliari” nel centro dell’area più militarizzata del Pakistan. In sostanza Bin Laden era inattivo o operativamente sotto controllo strettissimo, dacché è conseguente supporre che la villetta fosse sotto sorveglianza costante e capillare da parte di chi comanda in Pakistan (la formula è d’obbligo, giacché non è affatto scontato sapere chi è in questo momento egemone, in una fase, peraltro dalla storia lunga, di guerra di fazioni tra esercito, ISI e varie compagini politiche, con dosaggi variabili di potere reale ma con una dominanza costante dell’esercito).
Ritenere che la collaborazione tra americani e pakistani sia solo un’ipotesi o tutt’al più che gli americani abbiano collaborato con qualche spezzone minoritario del sistema di potere pakistano, o addirittura che gli americani l’abbiano messa nel culo al sistema di difesa e d’intelligence del Pakistan conducendo un blitz in piena autonomia, ebbene siamo ben oltre la soglia del ridicolo, non solo perché quando si parla di Pakistan persino i giornalisti sanno che si tratta dell’alleato americano di più lunga carriera e di maggior affidabilità in tutta l’Asia dopo la rivoluzione islamica in Iran, a scanso di diatribe d’ordine logistico nella conduzione delle operazioni in qualche area tribale, ma soprattutto perché le considerazioni logistiche e operative di cui sopra, quelle sul blitz, non possono farne dubitare. Ritenere che l’accordo strategico tra i due paesi possa essere stato incrinato dal rapporto ambiguo tra i fondamentalisti islamici e l’ISI, avversato dalla “purezza” americana, è semplicemente demenziale, laddove gli americani hanno coltivato rapporti strettissimi con i fondamentalisti islamici e continuano a mantenerli ovunque possano avvalersene (a suo tempo in funzione anticomunista e ora in funzione più modestamente antirussa o magari antiiraniana o anticinese o, al ribasso, per liquidare Gheddafi). Che poi ne siano meno capaci dell’ISI è un altro paio di maniche.
Più che di un blitz si è trattato dunque di un’esecuzione concordata tra americani e pakistani, ma è doveroso ora passare a qualche costatazione più ipotetica: sembra probabile avanzare l’ipotesi che una delle condizioni operative prese di comune accordo fosse che Bin Laden dovesse essere appunto ammazzato e non preso prigioniero, come sarebbe ben più convenuto alla macchina propagandistica americana in declino accelerato negli ultimi tempi. Ma un Pakistan in quasi bancarotta e attraversato da una crisi senza precedenti che mina le fondamenta stesse della sua integrità territoriale (con l’eccezione del Punjiab cresce l’irredentismo in ogni altra regione del Paese) avrebbe potuto sopportare un lungo processo a Usama dai risvolti imprevedibili e dalle conseguenze emotive enormi in tutto il mondo islamico? A voler essere precisi americani e pakistani potevano concordare sul fatto di eliminarlo anche perchè le dichiarazioni del capo di Al Quaeda, a lungo nel libro paga di ambedue le compagini, avrebbero potuto avere conseguenze inattese.
Ma certamente il punto nodale, che soltanto gli eventi futuri saranno in grado di confermare o disattendere, riguarda quale sia la contropartita che gli americani dovranno concedere ai pakistani in cambio dello scalpo di Bin Laden. Nonostante il “blitz straordinario” appaia sempre di più una buffonata che maschera un’esecuzione nemmeno difficile, il suo valore simbolico è incalcolabile e lascia supporre una contropartita adeguata. Esso avviene mentre lo stesso Obama, dopo il fallimento delle ultime offensive per “pacificare l’Afghanistan”, sospetta che anche quella guerra finisca per essere persa e che l’uccisione di Bin Laden gli possa dare l’occasione per ritirarsi facendo credere che sia stata quasi vinta. Infatti i più cretini già esultano: “la guerra è finita e abbiamo vinto”, inneggiano persino vestiti da Barman lungo Times Square.
Le condizioni sul terreno sembrano invece mature per uno scambio adeguato e l’ostaggio Bin Laden può essere venduto al suo giusto valore: Bin Laden in cambio dell’Afghanistan. Tanto più che i pakistani hanno bisogno vitale della profondità strategica dell’Afghanistan, com’è ben noto a chiunque si occupi di geopolitica. Gli americani sono stati persino più incapaci dei sovietici nella loro ambizione di controllare il Paese. Il Pakistan sa che non sono più in grado di determinare il destino dell’Afghanistan. Tenuti relativamente in disparte, costretti ad affidarsi alle promesse di una coalizione occidentale a guida americana crescentemente inefficace, bloccata anche sul piano militare dalla testarda determinazione di una vasta compagine ribelle che va ben oltre la sigla multiuso “Talebani” e che non tollera alcun tipo di occupanti, il Pakistan vuole riprendersi in mano il proprio destino geopolitico. Liberarsi di Usama (una zavorra sebbene simbolica) e degli americani (una zavorra ben più concreta) significa tentare di ricostruire un rapporto lealista con un nuovo potere afghano a cui non si permetterebbe più il delirio totalitario dei Taleban di una volta, ma nemmeno l’indifferenza agli interessi geopolitici pakistani manifestata in più occasioni dal governo Karzai. L’operazione non può che essere politica, laddove i pakistani sanno benissimo di essere detestati non meno degli americani da ogni componente del mosaico etnopolitico afgano. Ma nel labirinto afghano sanno muoversi come agli americani non sarebbe possibile neanche nei prossimi duecento anni. E’ una questione di cultura, di sottigliezza anche nel saper mentire, di relazioni plurisecolari, oltreché, naturalmente, di potenza. Naturalmente è una partita dagli esiti incertissimi, ma lo scambio con il corpo di Bin Laden può indicare che il Pakistan torna a giocarsela con ben altra autonomia. Bin Laden, da erede dell’antica furbizia dei cammellieri yemeniti da cui discende, deve aver sottovalutato la pazienza e lo spirito pratico dei contadini del Punjiab, da cui proviene la classe dirigente pakistana.
di Marco Battuta
Affermo da tempo che in occidente la disinformazione in atto non necessita più d’imposizioni dall’alto e nemmeno di veline: è sufficiente un’“onesta” carriera di giornalista, ovvero una miscela sebbene diseguale d’ignoranza, di routine umiliante e di sudditanza ideologica agli interessi dominanti. In sostanza la differenza tra un giornalista di una testata di Damasco e uno di La Repubblica è che il primo, almeno, sa di essere pagato per scrivere delle stronzate, mentre il secondo ritiene che le stronzate che va scrivendo, e che fanno gli interessi “atlantici”, siano invece la verità “geologica” del mondo.
Sull’affaire della morte di Bin Laden la miscela di cui sopra acquisisce proporzioni gigantesche, investendo le testate di ogni schieramento politico. Che tutto questo faccia a botte con un minimo di competenza e persino di logica formale (antico patrimonio dell’occidente) non sembra preoccupare nessuno. I cosiddetti antagonisti, da parte loro, vedono in chiunque sostenga le posizioni atlantiche un coerente stratega, organico alle posizioni dell’Impero. In realtà è la quantità, per dirlo altrimenti è “il mucchio” a risultare organico. Persino i giornalisti rischiano di diventare subalterni, da quando la fanfaronata propagandistica è un campo vieppiù occupato da scrittori falliti, filosofi di mezza tacca, intellettuali da giardinetto. L’esempio di Oriana Fallaci ne ha eccitati una moltitudine in ogni paese. La scrittrice era pressoché ignota fuori dai confini italiani ma è assurta agli onori internazionali dopo una serie di pamphlet antiarabi (o se si vuole antiislamici) già ampiamente collaudati da gazzettieri locali e nei documenti delle organizzazioni xenofobe di mezza Europa.
Dunque nulla di nuovo sul piano dei contenuti né in quello dello stile, ma che vi si cimentasse una minuta e elegante signora dal passato progressista, scrivendo con la vèrve di un carrettiere, era una piccola novità. Il filosofo Bernard Levy, alla ricerca spasmodica di una visibilità internazionale, ne ha raccolto la lezione, sebbene un certo savoir faire parigino ne limiti l’efficacia che fu già di Oriana Fallaci. E’ tuttavia tra i più veloci nel fare previsioni che poi lo ridicolizzano, diventando persino esemplare di una prassi sgangherata, disinformata, priva persino della coerenza testarda dei reazionari di una volta (infatti è “di sinistra”). I suoi argomenti sono meno interessanti di quelli di un qualsiasi onesto militare, ma in Italia li pubblica il Corriere della Sera, dove ha sostituito il consunto Magdi Allam. Qui ci serve solo a dimostrare che quando si tessono le lodi dell’Impero si può scrivere qualsiasi vaccata anche in un giornale che dovrebbe vagliare la correttezza informativa di chi ci collabora. Rimarchiamo che le sue posizioni non sono organiche a nulla e a nessuno e certamente i centri di potere reali non ne hanno alcun bisogno in quanto a indicazioni; sono un’accozzaglia d’informazioni di terza mano senza altra coerenza che quella della lotta al nemico del momento (basta che sia anche nemico dei più forti), ma fanno mucchio e il mucchio s’ingrossa.
Qualche esempio d’ignoranza e di fanfaronaggine? Subito dopo l’esecuzione di Bin Laden dichiara (Corriere della Sera del 4 maggio) che la giustezza dell’occupazione dell’Afghanistan risulta confermata dal fatto che il blitz non sarebbe stato possibile senza il supporto logistico delle basi americane in Afghanistan (come se gli americani non ce le avessero anche in Pakistan, in Kirgizistan e nell’Oceano Indiano, cioè a distanza di blitz rapido). Nello stesso articolo paperoneggia di conoscere Abbottabad, sintetizzata come “un luogo di militari in pensione”, laddove è soprattutto un luogo di militari in azione, dimostrando di non esserci mai stato o tutt’al più di averci passato un paio d’ore nella sua memorabile inchiesta sul giornalista americano Pearl ammazzato da Al Quaeda. I pochi che l’hanno letta ancora ridono, ricordando le pagine in cui il filosofo racconta di cambiare hotel ogni sera per sfuggire alle attenzioni dell’ISI o di Al Quaeda, che ovviamente avevano ben altro da fare che occuparsi di un buffone in gita turistico-letteraria. Fallito il tentativo di farsi fermare per mezza giornata dall’ISI e di venire rilasciato dopo una campagna d’indignazione internazionale, è fallito anche il libro. Ma è la continuità a “fare mucchio”.
Ma veniamo al punto.
Affermo da tempo che in occidente la disinformazione in atto non necessita più d’imposizioni dall’alto e nemmeno di veline: è sufficiente un’“onesta” carriera di giornalista, ovvero una miscela sebbene diseguale d’ignoranza, di routine umiliante e di sudditanza ideologica agli interessi dominanti. In sostanza la differenza tra un giornalista di una testata di Damasco e uno di La Repubblica è che il primo, almeno, sa di essere pagato per scrivere delle stronzate, mentre il secondo ritiene che le stronzate che va scrivendo, e che fanno gli interessi “atlantici”, siano invece la verità “geologica” del mondo.
Sull’affaire della morte di Bin Laden la miscela di cui sopra acquisisce proporzioni gigantesche, investendo le testate di ogni schieramento politico. Che tutto questo faccia a botte con un minimo di competenza e persino di logica formale (antico patrimonio dell’occidente) non sembra preoccupare nessuno. I cosiddetti antagonisti, da parte loro, vedono in chiunque sostenga le posizioni atlantiche un coerente stratega, organico alle posizioni dell’Impero. In realtà è la quantità, per dirlo altrimenti è “il mucchio” a risultare organico. Persino i giornalisti rischiano di diventare subalterni, da quando la fanfaronata propagandistica è un campo vieppiù occupato da scrittori falliti, filosofi di mezza tacca, intellettuali da giardinetto. L’esempio di Oriana Fallaci ne ha eccitati una moltitudine in ogni paese. La scrittrice era pressoché ignota fuori dai confini italiani ma è assurta agli onori internazionali dopo una serie di pamphlet antiarabi (o se si vuole antiislamici) già ampiamente collaudati da gazzettieri locali e nei documenti delle organizzazioni xenofobe di mezza Europa.
Dunque nulla di nuovo sul piano dei contenuti né in quello dello stile, ma che vi si cimentasse una minuta e elegante signora dal passato progressista, scrivendo con la vèrve di un carrettiere, era una piccola novità. Il filosofo Bernard Levy, alla ricerca spasmodica di una visibilità internazionale, ne ha raccolto la lezione, sebbene un certo savoir faire parigino ne limiti l’efficacia che fu già di Oriana Fallaci. E’ tuttavia tra i più veloci nel fare previsioni che poi lo ridicolizzano, diventando persino esemplare di una prassi sgangherata, disinformata, priva persino della coerenza testarda dei reazionari di una volta (infatti è “di sinistra”). I suoi argomenti sono meno interessanti di quelli di un qualsiasi onesto militare, ma in Italia li pubblica il Corriere della Sera, dove ha sostituito il consunto Magdi Allam. Qui ci serve solo a dimostrare che quando si tessono le lodi dell’Impero si può scrivere qualsiasi vaccata anche in un giornale che dovrebbe vagliare la correttezza informativa di chi ci collabora. Rimarchiamo che le sue posizioni non sono organiche a nulla e a nessuno e certamente i centri di potere reali non ne hanno alcun bisogno in quanto a indicazioni; sono un’accozzaglia d’informazioni di terza mano senza altra coerenza che quella della lotta al nemico del momento (basta che sia anche nemico dei più forti), ma fanno mucchio e il mucchio s’ingrossa.
Qualche esempio d’ignoranza e di fanfaronaggine? Subito dopo l’esecuzione di Bin Laden dichiara (Corriere della Sera del 4 maggio) che la giustezza dell’occupazione dell’Afghanistan risulta confermata dal fatto che il blitz non sarebbe stato possibile senza il supporto logistico delle basi americane in Afghanistan (come se gli americani non ce le avessero anche in Pakistan, in Kirgizistan e nell’Oceano Indiano, cioè a distanza di blitz rapido). Nello stesso articolo paperoneggia di conoscere Abbottabad, sintetizzata come “un luogo di militari in pensione”, laddove è soprattutto un luogo di militari in azione, dimostrando di non esserci mai stato o tutt’al più di averci passato un paio d’ore nella sua memorabile inchiesta sul giornalista americano Pearl ammazzato da Al Quaeda. I pochi che l’hanno letta ancora ridono, ricordando le pagine in cui il filosofo racconta di cambiare hotel ogni sera per sfuggire alle attenzioni dell’ISI o di Al Quaeda, che ovviamente avevano ben altro da fare che occuparsi di un buffone in gita turistico-letteraria. Fallito il tentativo di farsi fermare per mezza giornata dall’ISI e di venire rilasciato dopo una campagna d’indignazione internazionale, è fallito anche il libro. Ma è la continuità a “fare mucchio”.
Ma veniamo al punto.
In primis il luogo del blitz e le sue modalità operative:
Abbottabad è una città a un’ora di macchina (assai variabile, visti i tornanti del percorso tra le colline) a nord di Islamabad, collocata amministrativamente nella North West Frontier ma senza statuto speciale da Agency. Anche gli stranieri possono andarci senza permesso speciale. A differenza del Waziristan, per esempio, le compagini tribali che risiedono nell’area non hanno mai creato soverchi problemi allo stato pakistano. Ma soprattutto la città è una sorta di grande caserma, non essendo mutato il suo ruolo di guarnigione che, alla metà dell’Ottocento, ne aveva determinato la fondazione a opera del Raj britannico, che vi aveva stanziato truppe scelte destinate a controllare i riottosi “popoli della montagna”, come li chiamava Kipling. Dopo la Partizione dell’India e la fondazione del Pakistan il ruolo di nodo militare strategico si è semmai rinforzato, dacché si trattava ormai di far fronte non soltanto all’irredentismo dei Pashtuni (a ovest) ma anche all’occupazione indiana del vicino Kashmir (a est): vi è stata collocata la più importante accademia militare del Paese e vi sono stanziate alcuni dei reparti scelti dell’esercito pakistano.
Le caserme che punteggiano la città e l’area circostante sono decine, si snodano in ogni direzione e senza soluzione di continuità per molti chilometri, tutt’al più alternandosi a grandi allevamenti di polli stratificati su più piani; la sua protezione difensiva si suppone capillare e sofisticata (soprattutto in caso di attacco aereo), laddove una nuova guerra con l’India la renderebbe un obiettivo primario e prossimo. Per chi non lo sapesse, l’esercito pakistano non è soltanto di proporzioni notevoli, ma anche efficiente e attrezzato (peraltro da una quantità inesausta di armi americane tra le più efficaci sul piano tecnologico, che hanno costituito la carta di scambio più importante per il lealismo pakistano, sia all’epoca della “guerra fredda” che in quella della “lotta al terrorismo”), ben diverso e senza misura competitiva, per esempio, dall’armata sopravvalutata che fu di Saddam o da quella di Gheddafi. La città è sostanzialmente tranquilla né mi risulta esser stata teatro, recentemente, di manifestazioni di un qualche rilievo né di attentati eclatanti. Nulla a che vedere, dunque, con la pericolosa Peshawar né con la conflittuale Valle dello Swat e nemmeno col conglomerato ormai sovradimensionato e teatro di rivolte e attentati formato dalla capitale Islamabad e da Rawalpindi, per parlare di altri luoghi prossimi a Abbottabad. Chi scrive, avendo percorso la città e l’area circostante in un’epoca assai meno turbolenta di quella attuale (cinque anni fa), è incorso in numerosi check point tutti gestiti efficacemente da gentili militari dell’esercito e non dalla scalcinata polizia. E’ stato possibile persino avvicinare in piena notte, sotto lo sguardo compiacente dei soldati di guardia, il monumento più significativo della città dopo la roccia fatta graffire dal Re buddista Ashoka più di duemila anni fa, in cui si celebrava la fine di ogni guerra all’insegna di una meditazione sulla vanità dell’umana violenza e di una dieta rigorosamente vegetariana: un elicottero indiano da combattimento abbattuto nella guerra del 1970, in cui una fioca luce illuminava due manichini insanguinati che rappresentavano i piloti indiani. L’altitudine notevole (1600 mt. circa s.l.m.) garantisce un’efficienza operativa e addestrativa impensabile nelle pur prossime pianure del Punjiab, dove di snoda la lunga e torrida “estate indiana”.
Prima costatazione ovvia: in un contesto di tal tipo qualcuno può pensare che il blitz americano sarebbe andato così liscio senza il placet dell’esercito pakistano (più che di quello dell’ISI, il potente servizio segreto)? Oltretutto, in assenza di una qualsiasi reazione durante e dopo l’attacco, gli americani hanno provveduto da soli a rallentare e incasinare l’operazione, perdendo un elicottero (la tesi ufficiale è un’avaria, ma non va escluso un incidente in fase d’atterraggio o di decollo).
Seconda costatazione ovvia: persino a detta dei comunicati ufficiali Bin Laden disponeva di un paio d’inservienti (nominati “corrieri” non si sa bene in base a quale ipotesi o forse erano muniti di cappello da postini?) e di una certa quantità di mogli e figli, tutti disarmati. Che l’uomo più ricercato del mondo non disponesse nemmeno di un coltello a serramanico e se ne stesse in famiglia senza telefoni né connessioni internet indica la sua condizione agli “arresti domiciliari” nel centro dell’area più militarizzata del Pakistan. In sostanza Bin Laden era inattivo o operativamente sotto controllo strettissimo, dacché è conseguente supporre che la villetta fosse sotto sorveglianza costante e capillare da parte di chi comanda in Pakistan (la formula è d’obbligo, giacché non è affatto scontato sapere chi è in questo momento egemone, in una fase, peraltro dalla storia lunga, di guerra di fazioni tra esercito, ISI e varie compagini politiche, con dosaggi variabili di potere reale ma con una dominanza costante dell’esercito).
Ritenere che la collaborazione tra americani e pakistani sia solo un’ipotesi o tutt’al più che gli americani abbiano collaborato con qualche spezzone minoritario del sistema di potere pakistano, o addirittura che gli americani l’abbiano messa nel culo al sistema di difesa e d’intelligence del Pakistan conducendo un blitz in piena autonomia, ebbene siamo ben oltre la soglia del ridicolo, non solo perché quando si parla di Pakistan persino i giornalisti sanno che si tratta dell’alleato americano di più lunga carriera e di maggior affidabilità in tutta l’Asia dopo la rivoluzione islamica in Iran, a scanso di diatribe d’ordine logistico nella conduzione delle operazioni in qualche area tribale, ma soprattutto perché le considerazioni logistiche e operative di cui sopra, quelle sul blitz, non possono farne dubitare. Ritenere che l’accordo strategico tra i due paesi possa essere stato incrinato dal rapporto ambiguo tra i fondamentalisti islamici e l’ISI, avversato dalla “purezza” americana, è semplicemente demenziale, laddove gli americani hanno coltivato rapporti strettissimi con i fondamentalisti islamici e continuano a mantenerli ovunque possano avvalersene (a suo tempo in funzione anticomunista e ora in funzione più modestamente antirussa o magari antiiraniana o anticinese o, al ribasso, per liquidare Gheddafi). Che poi ne siano meno capaci dell’ISI è un altro paio di maniche.
Più che di un blitz si è trattato dunque di un’esecuzione concordata tra americani e pakistani, ma è doveroso ora passare a qualche costatazione più ipotetica: sembra probabile avanzare l’ipotesi che una delle condizioni operative prese di comune accordo fosse che Bin Laden dovesse essere appunto ammazzato e non preso prigioniero, come sarebbe ben più convenuto alla macchina propagandistica americana in declino accelerato negli ultimi tempi. Ma un Pakistan in quasi bancarotta e attraversato da una crisi senza precedenti che mina le fondamenta stesse della sua integrità territoriale (con l’eccezione del Punjiab cresce l’irredentismo in ogni altra regione del Paese) avrebbe potuto sopportare un lungo processo a Usama dai risvolti imprevedibili e dalle conseguenze emotive enormi in tutto il mondo islamico? A voler essere precisi americani e pakistani potevano concordare sul fatto di eliminarlo anche perchè le dichiarazioni del capo di Al Quaeda, a lungo nel libro paga di ambedue le compagini, avrebbero potuto avere conseguenze inattese.
Ma certamente il punto nodale, che soltanto gli eventi futuri saranno in grado di confermare o disattendere, riguarda quale sia la contropartita che gli americani dovranno concedere ai pakistani in cambio dello scalpo di Bin Laden. Nonostante il “blitz straordinario” appaia sempre di più una buffonata che maschera un’esecuzione nemmeno difficile, il suo valore simbolico è incalcolabile e lascia supporre una contropartita adeguata. Esso avviene mentre lo stesso Obama, dopo il fallimento delle ultime offensive per “pacificare l’Afghanistan”, sospetta che anche quella guerra finisca per essere persa e che l’uccisione di Bin Laden gli possa dare l’occasione per ritirarsi facendo credere che sia stata quasi vinta. Infatti i più cretini già esultano: “la guerra è finita e abbiamo vinto”, inneggiano persino vestiti da Barman lungo Times Square.
Le condizioni sul terreno sembrano invece mature per uno scambio adeguato e l’ostaggio Bin Laden può essere venduto al suo giusto valore: Bin Laden in cambio dell’Afghanistan. Tanto più che i pakistani hanno bisogno vitale della profondità strategica dell’Afghanistan, com’è ben noto a chiunque si occupi di geopolitica. Gli americani sono stati persino più incapaci dei sovietici nella loro ambizione di controllare il Paese. Il Pakistan sa che non sono più in grado di determinare il destino dell’Afghanistan. Tenuti relativamente in disparte, costretti ad affidarsi alle promesse di una coalizione occidentale a guida americana crescentemente inefficace, bloccata anche sul piano militare dalla testarda determinazione di una vasta compagine ribelle che va ben oltre la sigla multiuso “Talebani” e che non tollera alcun tipo di occupanti, il Pakistan vuole riprendersi in mano il proprio destino geopolitico. Liberarsi di Usama (una zavorra sebbene simbolica) e degli americani (una zavorra ben più concreta) significa tentare di ricostruire un rapporto lealista con un nuovo potere afghano a cui non si permetterebbe più il delirio totalitario dei Taleban di una volta, ma nemmeno l’indifferenza agli interessi geopolitici pakistani manifestata in più occasioni dal governo Karzai. L’operazione non può che essere politica, laddove i pakistani sanno benissimo di essere detestati non meno degli americani da ogni componente del mosaico etnopolitico afgano. Ma nel labirinto afghano sanno muoversi come agli americani non sarebbe possibile neanche nei prossimi duecento anni. E’ una questione di cultura, di sottigliezza anche nel saper mentire, di relazioni plurisecolari, oltreché, naturalmente, di potenza. Naturalmente è una partita dagli esiti incertissimi, ma lo scambio con il corpo di Bin Laden può indicare che il Pakistan torna a giocarsela con ben altra autonomia. Bin Laden, da erede dell’antica furbizia dei cammellieri yemeniti da cui discende, deve aver sottovalutato la pazienza e lo spirito pratico dei contadini del Punjiab, da cui proviene la classe dirigente pakistana.
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