[ 18 agosto 2017 ]
Dino Greco sottopone ad esame critico il breve saggio Sinistra transgenica pubblicato giorni or sono su SOLLEVAZIONE.
Fedeli alla massima che per cambiare occorre agire, ma prima di agire occorre pensare, siamo ben lieti di consegnare la critica di Dino ai nostri lettori.
Dino Greco sottopone ad esame critico il breve saggio Sinistra transgenica pubblicato giorni or sono su SOLLEVAZIONE.
Fedeli alla massima che per cambiare occorre agire, ma prima di agire occorre pensare, siamo ben lieti di consegnare la critica di Dino ai nostri lettori.
Cari compagni,
scusandomi per l’eccessivo
schematismo provo a mettere in fila alcune considerazioni sul breve ma importante
saggio di Moreno Pasquinelli, “Sinistra transgenica”, che mi pare contenga il nocciolo duro, il
fondamento teorico e il presupposto politico della Confederazione per la Liberazione Nazionale (CLN).
Rovesciando l’ordine del discorso di Moreno, comincio dal tema “cruciale” che per me come per voi è il progetto su
cui far nascere una soggettività sociale e politica capace di mettere sul serio
(e non per finta) in discussione l’ordine delle cose presente.
Quella che nella vulgata
corrente, per uno di quei paradossi che la storia talvolta ci riserva, continua
a chiamarsi (e ad essere chiamata) sinistra, credo abbia da tempo superato lo
stadio della manipolazione transgenica.
Qui si è perfettamente
compiuta una totale mutazione.
Del ceppo originario non vi è
più la ben che minima traccia. Questo è talmente vero che le classi dominanti
usano la “destra” e la “sinistra” politica indifferentemente, solo in base a
calcoli di convenienza.
Possiamo tranquillamente
definirle “destra e sinistra del capitale”.
La tua
ricostruzione/decostruzione dell’ideologia progressista, (dalla rinunzia a
rovesciare i rapporti di proprietà capitalistici per sostituirvi la mitologia
della crescita, all’infatuazione per la sola rivoluzione di cui si può parlare,
quella tecnologica, all’astratta declamazione di diritti e valori, in un mondo
in cui non esistono più classi, ma solo individui in reciproca concorrenza) non
fa una grinza.
Ne deriva che non soltanto il
Pd, ma anche i suoi transfughi, di qualunque genia e provenienza, del tutto
interni a questa ideologia e – diciamolo – avvinti agli interessi di cui sono
espressione, sono per noi come la peronospora per la vite. Igiene mentale,
prima che politico, impone che da costoro ci si tenga lontani come da una
malattia infettiva.
Quella che invece chiami (e
per comodità chiamiamo) la “sinistra radicale”, essa vive davvero, nella sua
caleidoscopica frantumazione, un processo di straniamento, essendo il frutto svergolo
di un sincretismo culturale che ha fuso in un mix incoerente teorie o pezzi di
teorie le più varie, spesso ridotte a vuoti catechismi e a imparaticci
ideologici, che mentre hanno svuotato di potenzialità euristica la potente
elaborazione dei classici, non hanno saputo dotarsi della strumentazione
critica indispensabile per decifrare la struttura complessa del mondo moderno, con
categorie non già bell’e pronte,
ma da elaborare analizzando la mutata realtà, come Marx ha sempre raccomandato
di fare e come i grandi rivoluzionari, da Lenin a Mao a Gramsci hanno fatto.
Solo quando si è conquistato questo bagaglio critico si è potuto tentare di cambiare
il mondo e non – parafrasando Marx - solo “le frasi” di questo mondo.
Ebbene, la “sinistra
radicale” oscilla dalla recita stucchevole di improbabili vangeli all’improvvisazione
che la rende succube e dunque vittima di altrui ideologie e di interessi
sociali ben più consapevoli di sé.
L’approdo ad un ingenuo
globalismo cosmopolita, la credenza che “porsi al livello del capitale”
significhi collocarsi sul terreno da esso scelto per riaffermare il proprio
dominio, l’idea che battersi per riconquistare la sovranità popolare,
nazionale, non rappresenti che una gravissima capitolazione nei confronti dello
sciovinismo nazionalistico della destra fascistizzante, la credenza che il
potere – esso sì sovrano – dell’oligarchia capitalistica europea sia
contendibile non mettendo in discussione l’architettura monetaristica che ne
rappresenta l’instrumentum regni,
dicono di quanto carente sia la comprensione di cosa sia la formazione
economico-sociale europea, il “blocco storico” che ad essa ha dato vita. E,
soprattutto, di quale strategia, essa sì radicale, si debba costruire per
abbattere il mostro e per tornare a parlare a quei proletari, a quelle masse
diseredate di cui ci si erige, senza sense
of humor, a rappresentanti.
Una strategia di patriottismo
costituzionale, che ridia significato alla seconda parte dell’articolo 1 (“La
sovranità appartiene al popolo”), sorretta da un solido impianto programmatico di
classe, è ciò di cui ha bisogno come l’aria la sola sinistra che si può
fregiare di questo nome. Il resto sono solo giaculatorie al vento che lasciano
il tempo che trovano.
Per quanto riguarda la prima
parte del lavoro di Moreno, quella che si riferisce al “teorema fondazionale”, più
precisamente al pensiero di Marx, mi permetto qualche sommaria osservazione.
Ogni autore, persino il più lungimirante
e acuto – e dio sa quanto Marx lo sia stato – è figlio del suo tempo.
Anche il Moro, malgrado la
stupefacente potenza innovativa del suo pensiero, non è immune da
condizionamenti culturali (la vulgata positivista, l’evoluzionismo darwiniano, ecc.),
ma gli faremmo un torto grave se gli intestassimo una sorta di filosofia della
storia, una cosmologia sociale che vaticina l’immancabile trionfo del comunismo
e l’uscita dalla preistoria della società umana.
La famosa “Prefazione a per la critica dell’economia
politica” del 1859 è stata spesso usata come la prova regina, come la
‘pistola fumante’ che inchioderebbe Marx e ne farebbe il mandante morale del
meccanicismo secondo-internazionalista:
“Una formazione sociale non perisce
finché si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e
superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate
in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza”.
In realtà, tutta l’imponente
opera di Marx, vista nel suo insieme, dalle opere filosofiche giovanili (pensa
a quell’autentico giacimento teorico condensato nelle due paginette che hanno
per titolo “Tesi su Feuerbach”) fino alle opere più mature, non è che la
confutazione del materialismo meccanicistico, del soggettivismo idealistico e
di ogni escatologismo rivoluzionario.
In Marx non c’è nessuna
torsione deterministica.
Marx è un pensatore
dialettico. Egli ritiene che date determinate condizioni si dia la possibilità
di un’azione rivoluzionaria, non la necessità di essa.
L’interazione reciproca fra
struttura e sovrastruttura, fra realtà oggettiva e soggetto che operando
consapevolmente forza la situazione data è sempre presente in Marx.
Non si capirebbe altrimenti
perché egli abbia dedicato l’intera sua vita alla costruzione del partito
rivoluzionario.
Lenin rovescia il paradigma
(la gramsciana “rivoluzione contro il Capitale”)
e applica il suo straordinario genio tattico ad un processo di trasformazione
rivoluzionaria nel punto d’Europa in cui il capitalismo è meno sviluppato,
immaginando (vale la pena sottolinearlo) che di lì a poco la rivoluzione
avrebbe infiammato l’Italia e la Germania e stramazzando di fronte alla
successiva constatazione che la Russia sarebbe rimasta sola.
Chiedo: è lecito pensare che l’arretratezza
dello sviluppo delle forze produttive e l’inesistenza di un’esperienza di
democrazia borghese in quel paese (si passa d'emblée
dall’autocrazia semifeudale zarista al socialismo) abbiano fortemente segnato
di sé la storia successiva, i tratti dell’esperimento profano, come lo ha
definito Rita Di Leo, e segnato, per così dire, una rivincita del Capitale
sulla rivoluzione?
A scanso di fraintendimenti:
io credo che (al di là di ogni ricostruzione controfattuale di quell’evento
epocale) noi dovremo essere eternamente grati a quel pugno di uomini e di donne
che hanno provato a scrivere un’altra Storia.
Allo stesso modo, penso che
la lezione di Lenin e quella dei Quaderni
del carcere di Gramsci sulle ragioni della storica subalternità del
proletariato italiano alle classi dominanti e sulle condizioni per una rivoluzione
in Occidente - oggi totalmente rimosse anche a causa del drammatico
analfabetismo politico che regna sovrano nell’arcipelago comunista - dovrebbero
essere ritrascinate a forza nel dibattito politico, insieme al tema centrale
della nazione e dello Stato, trattati, per una clamorosa amnesia politica, come
cani morti.
Ciò avviene proprio in quanto
non si mette più a tema la concreta analisi di come, con quali forze, con quali
alleanze, con quale attrezzatura culturale e programmatica organizzare la una
seria lotta politica (compresi gli appuntamenti elettorali, purché questi non si
trasformino nel feticcio che la sinistra “radicale” tenta di esorcizzare
rimanendone poi sistematicamente vittima, in forme che nel tempo hanno prodotto
un discreto effetto comico).
Ora, se quella che chiamavamo
“classe operaia centrale” si è quantitativamente alquanto prosciugata, mentre se
n’è andata evaporando la “coscienza di sé”, da trent’anni a questa parte demolita
a colpi di piccone (con il contributo complice del sindacato la cui
degenerazione è stata speculare a quella della sinistra post-comunista) è tuttavia
aumentato fortemente l’esercito proletario, l’area vasta di coloro che sono
oggetto, in varie forme e modalità, dello sfruttamento che estrae dal loro
lavoro plusvalore assoluto.
Questo è il nostro démos,
oggi balacanizzato e senza guida, a cui offrire una prospettiva, un progetto di
riscatto, una ideologia che lo renda coeso, una credibile strategia nella quale
identificarsi e per cui tornare a combattere, qui ed ora.
Dovremo farlo nelle forme
possibili, con il tanto di coraggio necessario (che non è spregiudicato
avventurismo), evitando di rimettere in circolo, nella sinistra che tenta di
rinascere, tossine letali.
Dino Greco |
Ancora un paio di cose.
La prima.
Quando Moreno parla del processo di
americanizzazione che ha snaturato la sinistra storica (del Pci, per
intenderci), aprendola ad una progressiva metamorfosi, una sorta di “fuga
nell’opposto”, per raccontarla con linguaggio meta-psicanalitico, dice cose
vere ma compie un passo della gamba - almeno a me pare - troppo veloce.
So bene che l’uovo del
serpente maturava lì dentro.
Ho vissuto personalmente e
drammaticamente quella fase, la feroce lotta interna che si svolse nel partito.
Potrei persino indicare le
rotture di faglia fondamentali che ne hanno sviato il percorso (una per tutte,
a mio avviso la più dirompente: l’XI congresso del ’66, con la vittoria di
Amendola e l’abbandono – sebbene mai apertamente dichiarato – della necessità
di riforme che intervengano sui rapporti di proprietà, come scritto nel titolo
III della Costituzione, non a caso oggetto di un durissimo scontro nel
dibattito della Costituente del ’47 la cui attualità dovremmo ricordare).
Insomma, il processo va
descritto meglio, in tutti i suoi aspetti, senza semplificazioni o salti
arbitrari, non solo per dare a Cesare quel che è di Cesare, ma per capire bene
cosa è successo e perché e quale utilità possiamo trarre da un’analisi seria della
sinistra italiana dal ’48, dalla promulgazione della Costituzione, alla definitiva
liquidazione del Pci.
Questo aiuterebbe a capire
proprio perché è da lì, da quella Costituzione, che bisogna riprendere il
cammino, senza sconti per nessuno. Con buona pace di coloro che pensano che
essa sia un mediocre compromesso borghese e che non vale la pena di impegnarsi
per meno della rivoluzione.
La seconda, ovvero, la
questione migrante, che ha molte facce e che non si riduce alla questione
dell’accoglienza dei profughi.
Ora, Moreno polemizza contro
l’accoglienza indiscriminata, ma allora bisognerebbe capire come, con quali
risposte e quali politiche si affronta l’esodo consistente (sebbene non di
massa come si racconta) che è in corso.
Perché l’esodo, prodotto – per
dirlo con una formula sommaria - dei disastri del neo-colonialismo che
l’Occidente continua a scatenare, non si ferma.
L’Italia (come l’Europa) lo
risolve sostanzialmente – al netto cioè delle chiacchiere pseudo-umanitarie –
con i lager, in Libia come in Turchia, come qui da noi.
Se l’approdo naturale degli
sbarchi non fossero le nostre coste il nostro governo si comporterebbe
esattamente come la Francia, come l’Austria e compagnia cantante.
Parzialmente diverso l’atteggiamento
della Germania, ma soltanto perché di fronte a un tasso di disoccupazione
frizionale i padroni sanno di dovere rimpiazzare diversi milioni di lavoratori che
entro pochi anni usciranno dal mercato del lavoro. E il ricambio autoctono non
è sufficiente.
Soltanto per questo Frau Merkel
resiste alla crociata xenofoba interna e obbedisce alla richiesta di apertura
alla migrazione che viene dalla Confindustria tedesca.
Non un’accoglienza
indiscriminata, però: Siriani sì (in quanto più colti e più pronti ad entrare
nel circuito produttivo), Iracheni e Sub-Sahariani no.
Quanto al noto refrain,
“aiutiamoli a casa loro”, esso rappresenta l’apoteosi dell’ipocrisia perché non
c’è nessuno che vi creda, a partire da chi ne fa un uso propagandistico.
Tornando alla vexata quaestio, chiedo a Moreno: in cosa
consiste l’accoglienza “discriminata”?
Permettetemi un ricordo.
Nella mia esperienza di
sindacalista, quando dirigevo la Camera del lavoro di Brescia, una delle più entusiasmanti
esperienze di lotta di classe fu quella che si sviluppò nel 2000 intorno alla
richiesta di permesso di soggiorno di migliaia di lavoratori immigrati venuti,
come quasi tutti, clandestinamente nel nostro paese e utilizzati “in nero”
nell’apparato produttivo bresciano: Senegalesi e Ghanesi in siderurgia,
Pakistani nei macelli e nelle aziende alimentari, Indiani Sick nelle stalle
industriali, Cinesi nell’indotto delle confezioni in serie.
Non vi fu all’origine nessuna
intenzione di realizzare una sorta di mistica culturale, un melting pot fra
diverse etnie: il miracolo lo fece la lotta di classe, che per mesi unì i capi
delle diverse comunità con i quadri italiani delle maggiori e più combattive
fabbriche bresciane, Cgil e centri sociali.
Piazza della Loggia fu occupata
per un mese, tenemmo in scacco la polizia che non riuscì ad attuare l’ordine di
sgombero del ministero degli interni (c’era il centro-sinistra e titolare del
dicastero era il ministro Bianco), si impegnò il recalcitrante governo della
città, anch’esso di centro-sinistra, in un confronto permanente, l’intera
società bresciana ne fu profondamente scossa.
Vincemmo. Quella lotta
straordinaria, che dissolse come neve al sole tutti i pregiudizi e tutti luoghi
comuni, culminò con un viaggio in pullman da Brescia a Roma, in pieno Giubileo,
sfidando la “zona rossa” che portava al Viminale, squarciando persino l’ostinato
silenzio dei media, per imporre la concessione dei permessi di soggiorno.
Ne dovettero concedere 5
mila, consegnati, nella stessa piazza epicentro della lotta, direttamente dai
protagonisti di quella battaglia al ritmo di 500 al giorno.
La lotta ebbe come
conclusione simbolica la “manifestazione delle rose”, così passata nella
memoria collettiva perché i migranti, in particolare le donne, donarono ai
passanti, taluni increduli, altri sorridenti, migliaia di rose rosse.
Fu quello il momento di
inabissamento della Lega nord che per molto tempo non riuscì più a guadagnare
ascolto.
Come
Camera del lavoro di Brescia pubblicammo un’istant book per ricostruire la storia di quella vicenda,
fatto da 5 interviste ad altrettanti migranti che di quella epopea furono i
protagonisti e da una bellissima documentazione fotografica.
La morale di questo breve
raccontino è che se c’è in campo una soggettività politica e sindacale forte
riesci a tenere insieme tutto, puoi dare a tutti, migranti e non, risposte
convincenti e non contraddittorie. E la convinzione di un destino comune o di nessun
destino si rafforza.
Dove invece la soggettività
politico-sindacale latita si scatena inesorabilmente la lotta fra poveri,
portatrice di mille e ancora mille divisioni di cui si pasce il potere
costituto.
Ma è data un’alternativa?
Continuiamo a discuterne.
11 commenti:
Al aiutiamoli a casa loro non ci crederà nessuno ma chi crede che una soluzione alla povertà estrema di 4 miliardi di esseri umani sia il trasferimento altrove?
Io non voglio emigrare in germania. Non voglio dover esservi costretto in futuro se questo paese diventerà una seconda grecia...almeno al nord...perché il sud lo è già. Difatti in germania è pieno zeppo di meridionali.
Io voglio avere il diritto di vivere una vita tranquilla dove sono nato e dove abito.
Non mi sembra retorica.
Mi sembra l unica vera soluzione.
L accoglienza è un palliativo...per loro perché ne accogliamo cmq a una velocità inferiore rispetto a quanto si riproducono...e non risolve il problema della miseria nei loro paesi. A causa della quale partono.
Anzi semplicemente la sposta da là a qua.
C è veramente qualcuno che crede che questa sia una soluzione?
Come si può definirsi di sinistra e voler rappresentare i proletari , mentre spesso si fa propaganda identitaria ( anche nel pezzo “Sinistra transgenica” ) , dato che la maggioranza degli attuali proletari non ha origini “italiane” ?
Nel 2000 non c'erano ancora tutte le fratture sociali che sono incorso adesso e nemmeno un numero di immigrati così rilevante come oggi. L'esperienza bresciana è figlia del suo tempo. Oggi le condizioni sono veramente troppo diverse. Nel 2000 i pacchetti Treu stavano intaccando il sistema del lavoro ma 17 anni dopo la situazione è ben peggiore.
L'esperienza citata dall'autore è del 2000. Sono passati 17 anni. In questi anni le coesioni sociali e le appartenenze sono collassate. L'immigrazione è cresciuta. Il sentimento dell'italiano medio e (dell'immigrato integrato) è di timore nei confronti delle nuove immigrazioni e non certo di solidarietà nei confronti queste.
Non esiste più un nucleo storico aggregante. Ma esiste la nostalgia per la nazione come essa era fino agli anni 60.
Il presupposto della lotta di classe come motore della storia è un'assunzione metafisica.
La lotta di classe è solo una delle molte forme del conflitto e non è nemmeno la prevalente. Il concetto di interesse di classe è un'astrazione ben chiarita da Polanyi.
Di norma le elite tengono in conto l'interesse di tutte le classi (sempre più di 2) in quanto interesse generale (pur in maniera graduata)e non certo per ragioni morali, ma per ragioni di stabilità e di ordine pubblico.
Il ritorno ormai visibile all'interesse nazionale è un tentativo di una parte delle elite di rimediare alle tensioni maturate in questi 30 anni di globalizzazione.
Vedrete sparire l'attivismo dirittoumanistico e le tutele "antidiscriminatorie" delle "minoranze".
saluti Radek
"Il ritorno ormai visibile all'interesse nazionale è un tentativo di una parte delle elite di rimediare alle tensioni maturate in questi 30 anni di globalizzazione".
Radek, dici che è inutile agitarsi troppo, che la sovranità scenderà dall'alto?
Intervento verboso,istintivamente irritante,abbinato alla solita inconcludente prosopopea del ceto politico di quella "sinistra"(destra)immaginaria sempre più lontana dall'analisi concreta della situazione concreta.Cosa significa:"l'esodo consistente,ma non di massa" di cosiddetti "migranti"?Intanto sarebbe più opportuno chiamarli "emigranti"perché tali sono, richiedenti asilo per motivi economici e poi 200.000 ingressi l'anno cosa sono,una bazzecola per un paese devastato dalla Troika come l'Italia?La stragrande maggioranza si trasferisce qui attratta da una martellante propaganda secondo cui l'Europa viene descritta per quella che non è,una terra in cui ci si può arricchire facilmente,dove vi sono molteplici occasioni per avanzare nella scala sociale e diventare finalmente un "benestante"da rispettare(sic).E questi sarebbero i nuovi proletari che metteranno in crisi il sistema,con questi "valori'?Il sistema per il quale anelano è quello che gli viene propinato falsamente,facendo loro diventare dei complici oggettivi del Capitale,altro che "profughi"da accogliere a braccia aperte.Quanta affabulazione sinistrata saremo costretti ancora a sorbirci di fronte a FATTI OGGETTIVI oramai non più mistificabili?
Eh sì. Si capisce che questo Dino Greco è intellettualmente onesto, a cui non sfugge che la sinistra sia oramai zombi. Tuttavia, la questione migratoria è un'infallibile cartina di tornasole... che anche Greco dimostra di essere prigioniero del mondo simbolico della sinistra che fu. Non faccio spallucce, so anche io che ognuno di noi per vivere nel mondo, deve avere principi, sentirsi dentro un mondo simbolico. Ma come fa Greco a non vedere che proprio la questione migratoria chiama in causa l'avvenuta sostituzione del mondo simbolico marxista-comunista con quello cosmopolitico-liberal-cristiano? Che era appunto l'asse della critica di Pasquinelli, asse di critica che Greco dice di condividere. Dubito che lo condivida davvero.
Roberto
Più che poderosa giudico l’analisi di Moreno coraggiosa e molto opportuna e concordo sui punti della “mutazione genetica” da lui denunciati. Analisi che in realtà, ad essere franchi, non è nuova: basterebbe rileggere alcuni degli Scritti Corsari di Pasolini o alcuni testi di Ivan Illich, anticipatori temporibus illis di questa mutazione, oppure, in tempi più recenti, alcuni scritti di persone più vicine temporalmente al presente dibattito come il compianto Bontempelli e il da qualche tempo silenzioso Badiale.
Coraggiosa perché Moreno, sintetizzandole in maniera efficace e proponendole senza perifrasi al dibattito di un movimento politico in lotta, elenca quelle che sono delle vere palle al piede del pensiero di una sinistra obsoleta, palle al piede che anche Greco ribadisce nel suo intervento: dalla rinunzia a rovesciare i rapporti di proprietà capitalistici per sostituirvi la mitologia della crescita, all’infatuazione per la sola rivoluzione di cui si può parlare, quella tecnologica, all’astratta declamazione di diritti e valori, in un mondo in cui non esistono più classi, ma solo individui in reciproca concorrenza.
Il problema urgente oggi, riprendendo le parole di Greco, è far nascere una soggettività sociale e politica capace di mettere sul serio in discussione l’ordine delle cose presente. Prendo altresì atto della dichiarazione di morte che entrambi fanno di una certa “sinistra”, che certamente ha avuto grandi meriti storici ma che, col mutare dei tempi, ha perso il passo per un’analisi adeguata del reale e una azione conseguente.
Oltre a questo trovo reale e urgente il problema –sollevato ad es. da Michéa in I misteri della sinistra (si, lo so che a molti il citare Michéa fa storcere il naso)- di trovare, in sostituzione di un termine glorioso ma ormai fonte più di equivoci e malintesi, un nuovo significante capace di riunire un ampio fronte anticapitalista. Mi pare un problema da molti sottovalutato e ritenuto provocatorio.
Per questo spero che il sasso nello stagno gettato da Moreno segni l’inizio su questo blog di un dibattito vero e approfondito. Concordo anch’io sulla carenza di alcuni passaggi nell’analisi di Moreno della trasmutazione genetica, in particolare sul perché essa sia stata possibile, tanto per non gettare sempre le responsabilità sulla perfida astuzia del solito “nemico” rifuggendo da una necessaria e salutare autocritica.
A.Z.
Lenin contrapponeva l'"insensata fiducia piccolo borghese nelle buone intenzioni" ai fatti oggettivi. Esiste una soggettività politico-sindacale forte? No. Una massiccia presenza di immigrati contribuisce a crearla o a renderla più difficile? "L’unione dei “proletari di tutto il mondo” nel conflitto di classe interno a ciascuna nazione è inconcepibile, a meno di ipotizzare che i rapporti di forza tra capitale e lavoro siano sufficientemente omogenei nei diversi contesti geopolitici. Prima vengono i rapporti di forza all’interno delle singole nazioni e i loro esiti: se questi sono abissalmente diversi, allora nelle nazioni più sviluppate un conflitto interno alla classe lavoratrice, indigena e immigrata, è inevitabile, con conseguente indebolimento generale del suo potere contrattuale." (Barba e Pivetti, La scomparsa della sinistra). A me pare un ragionamento abbastanza lineare.
A proposito di "grandi meriti storici" di quella specifica formazione politica che si suole definire "sinistra" e che avrebbe perso, secondo molti, la sua pricipale ragion d'essere nel corso degli anni, mutando la sua connotazione da forza di opposizione al capitale, a reggicoda e alleata dello stesso,rinnegando la sua funzione universale e universalistica.In questa narrazione vi è,a mio parere un'equivoco di fondo che pesa come un macigno e che non fa i conti con la strategia DAVVERO ATTUATA da questa sedicente "sinistra"storicamente data e che va giudicata alla prova dei FATTI.Chi si ricorda,ad esempio dell'immediato dopoguerra dove vi erano REALI possibilità per le classi dominate di avanzare sul piano sociale grazie ad una lotta di liberazione che è stata anche,e soprattutto, lotta di massa contro quelle élites che sono tornate ad essere quello che sono oggi?Bene in quel frangente storico determinante per regolare i REALI RAPPORTI DI CLASSE, la cosiddetta "sinistra"(il Pci in sostanza)in che modo rispose alle masse affamate e pronte alla ribellione?Innanzitutto soffocando ogni tentativo di spostare l'asse di tali rapporti di forza che sono sempre rimasti saldamente nelle mani di una borghesia inizialmente "nazionale",trasformata poi in "compradora".Parafrasando "il Migliore" per cui si arrivava da lontano e si andava lontano,bisogna dire che da quel lontano non ci si è mai mossi.E che dire dei vari governi di "unità nazionale",le "svolte dell'Eur",il disprezzo ed autentico odio per ogni forma di lotta VERA contro il massacro sociale pianificato dai "governi amici"(del Capitale),il tutto con una sequenza che non può essere solo frutto di un "tradimento",ma è stata invece una attenta e lucida strategia di "CONTENIMENTO"dentro le compatibilità del sistema (capitalistico)di una formazione politica autoproclamatasi"sinistra" funzionale alla riproduzione del Capitale,senza la quale lo stesso non avrebbe avuto alcuna chance di sviluppo.Non si può parlare di trasmutazione,bensì di coerente e lucida politica a fianco del capitale di cui essi erano e sono il più fedele guardiano,quello che Costanzo Preve chiamava,a ragione,"serpentone metamorfico".Luciano
per anonimo del 19 agosto 2017 22:25
Il ritorno all'interesse nazionale scende dall'alto perchè è richiesto dal basso. E' un classico processo di aggiustamento per riconseguire il consenso perduto.
saluti radek
Posta un commento