Sergio Cesaratto è stato uno degli oratori al III. Forum no euro svoltosi a Chianciano Terme. Qui sotto il testo integrale del suo intervento alla sessione d'apertura. Una prolusione densa, su cui in molti dovrebbero meditare.
Da sinistra: Lapavitsas, langthaler e Cesaratto |
Ogni volta che devo intervenire a un convegno politico sull’Euro/pa mi prende un po’ di ansia. Cosa dire di nuovo, che non ci siamo già detti. E che fare? Sia disegnare vie d’uscita dal presente, che delineare il futuro, sono compiti impervi. All’interno della crisi europea, inoltre, il nostro paese vive una crisi verticale che viene da lontano. Su questo ho scritto in una delle lezioni del mio libro: la scelta delle classi dirigenti di questo paese, con poche eccezioni, è stato di scontro con le istanze popolari, da ultimo attraverso il vincolo estero, prima dello SME e poi dell’euro. Il paese nel suo complesso ha pagato duramente tale incapacità a governare in maniera progressiva il conflitto sociale. Oggi il paese è impoverito sotto ogni punto di vista, materialmente, culturalmente, tecnologicamente, ed è privo di classi dirigenti oneste e capaci a quasi ogni livello.
Il dibattito ha tuttavia fatto emergere in questi giorni alcuni temi su cui esercitare un nostro sforzo di analisi.
Quale strategia di superamento dell’euro? Quali slogan convincenti da proporre?
Mi riferisco soprattutto allo scambio Varoufakis-Fassina (qui, qui, e qui). Da un lato la strategia proposta dall’ex ministro greco è che un governo progressista dovrebbe farsi cacciare disubbidendo ai Trattati europei. Qui bisogna stare attenti. I Trattati fiscali sono assolutamente coerenti con la moneta unica: paesi senza una propria banca centrale hanno necessariamente vincoli di bilancio (è così per esempio per ciascuno degli Stati che compongono gli USA, dove però a compensazione c’è un governo federale con un cospicuo bilancio e una banca centrale cooperativa). Fassina coglie in un qualche modo il punto: “La strategia di «disobbedienza ostinata», sebbene molto difficile, può essere [solo] efficace in un paese europeo che ancora dispone della sua moneta e della sua banca centrale.” Certo, si può ricorrere a escamotages come quello di emettere una moneta nazionale “parallela” come proposto anche in Italia. Ma si tratta, con tutto il rispetto per i proponenti, di sotterfugi dalle gambe corte. Quindi violare i Trattati implica la rimessa in discussione di tutto l’impianto europeo. Mission impossible per qualunque singolo Stato (o persino coalizione di Stati).
Alla proposta di Varoufakis, Fassina propone una strategia di separazione consensuale dell’unione monetaria salvando l’UE. In tal modo si eviterebberoritorsioni del resto dell’Europa, come accadrebbe a paesi che sfidassero l’Europa venendo espulsi. La salvaguardia dell’UE svolgerebbe anche una funzione protettiva da accuse di anti-europeismo o nazionalismo. In questo si dimentica che anche l’UE è creatura liberista.
Nella sua replica Varoufakis ha avuto gioco facile nel mostrare a Fassina che il solo accenno a una trattativa su una separazione consensuale porterebbe al caos finanziario. Referendum o trattative proprio non si possono fare, i mercati non lo consentirebbero. Per difendere l’idea che da ultimi si può reagire positivamente a una espulsione, è interessante che Varoufakis dichiari che egli era pronto a rompere con la Troika nel luglio 2015 ed essere espulso avendo già predisposto un piano X – sebbene fiducioso che dietro una minaccia credibile (come si usa dire in teoria del giochi di cui l’ex ministro è esperto), la Troika avrebbe alla fine accettato un memorandum più ragionevole. Lui sarebbe comunque rimasto “imperturbabile”, accettando l’espulsione, se le “istituzioni” non avessero accondisceso. Il governo greco sarebbe però stato diviso in merito e non giocò la carta della minaccia credibile [Qui ci sarebbe da ricordare che le proposte più ragionevoli che Varoufakis avrebbe accettato sulla carta non sono diverse da quelle nei fatti adottate in pratica - e simili a quelle perorate dal FMI, l’attore più “umano” della Troika. Le richieste siglate da Tsipras erano così assurde da non poter essere implementate alla lettera sicché le istituzioni si dovranno alla fine accontentare che la Grecia ne attui solo una parte; la storia è simile a quella della riduzione del debito pubblico al 60% del Pil in 20 anni in ciascun paese europeo: così assurda che nessuno vi ha posto mano; ciò non toglie che la morsa dell’austerità non sia continuata. Insomma, Varoufakis avrebbe comunque accettato un pacchetto killer. Sarebbe tuttavia utile a tutti conoscerlo questo Piano X! ]
Dunque superamento consensuale no; violazione dei Trattati neppure; fuori dall’euro: forse non troppo popolare. Che proporre allora? Non blocchiamoci su questo. Noi sappiamo come un’area valutaria potrebbe funzionare meglio e perché è però impossibile che l’Europa muti in questa direzione - principalmente per l’opposizione tedesca a dismettere il mercantilismo ma anche, giustificatamente, perché quel popolo non vuole essere obbligato a una solidarietà fiscale verso altri popoli. Sappiamo che l’euro è il principale ostacolo (sebbene non l’unico) a politiche di piena occupazione, e che l’UE impone politiche liberiste (per esempio impedisce politiche industriali di intervento pubblico diretto). Abbiamo proposte per un’Europa post-euro (e forse post-UE) - per esempio applicare le idee di Keynes per un nuovo ordine monetario europeo. Insomma abbiamo molte proposte “illuminate” da contrapporre a chi ci tratta da populisti. Populisti saranno loro col loro mantra delle riforme strutturali e il fallimento delle loro politiche![1] Alla gente e a quel poco di “movimenti” che esistono dobbiamo indicare euro ed Europa come strumenti di smantellamento di occupazione e diritti sociali. In questo la sinistra si deve riproporre come portatrice del diritto a lavoro, salute e istruzione per tutti e a tutti i costi.
Noi non sappiamo quale scenario si prospetta: una tempesta perfetta con crollo dell’euro in seguito a un evento fatale come una Presidente Le Pen che fa la dura, o un crisi bancaria italiana che faccia scendere in piazza i risparmiatori?
Quello che è chiaro è che al di là delle elucubrazioni internazionaliste di Varoufakis e di qualche sciagurato nostro conterraneo, la sinistra di ciascun paese, mai andasse al governo, dovrà essere pronta ad affidarsi solo alle proprie forze, a meno dell’apertura di inattesi scenari keynesiani internazionali (potrebbero aprirsi sulle rovine di una caduta dell’euro, chissà?). Si tratta di attuare un’economia dei controlli su merci e capitali, quasi un’economia di guerra, e in un paese solo, e in questo non stiamo reinventando niente che si sapesse (se lo si voleva sapere). Vorrei solo aggiungere che la situazione è ancor più difficile di 40 anni fa quando la sinistra laburista perorava l’economia dei controlli: allora c’erano i paesi socialisti e paesi in via di sviluppo progressisti con cui rapportarsi, attualmente è più complesso. Oggi un paese progressista è solo di fronte a un capitalismo globale selvaggio. Non so se tutto questo possa avere un seguito popolare. Certo odora molto di elementi di socialismo (per giunta in un paese solo!). E ciò vuol dire che sull’economia dei controlli pesa la tara storica della sconfitta del socialismo reale. Una buona ragione per raccogliere la sfida e pensarci meglio su.
L’idea che l’obiettivo della piena occupazione e della giustizia sociale non possano fare affidamento su contesti internazionali favorevoli e addirittura solidali ci porta all’altra vexata quaestio di quale internazionalismo.
Quale internazionalismo?
Varoufakis attacca Lexit e quanti a sinistra ritengono che la battaglia cominci dal (sebbene non si risolva completamente nel) proprio paese e che, come ben sanno i popoli dei paesi nordici, lo spazio democratico coincide, almeno in questa fase storica, con quello dello Stato-nazione, mentre le strutture sovranazionali hanno fondamentalmente una funzione reazionaria. Per Varoufakis ci si deve affidare a un internazionalismo inteso come un continuum fra le lotte ai diversi livelli di governo (municipale, nazionale, sovranazionale) indipendentemente dallo Stato nazionale entro cui si svolgono.
Come ha sostenuto Lee Jones su Jacobin (la rivista dove si è svolto il dibattito) un ottimo critico di Varoufakis (qui): Varoufakis “ignora il fatto che il solo ‘demos’ reale che attualmente esiste risiede a livello domestico [nazionale] … a parte una piccolo cosmopolitismo … popolare fra le élite metropolitane, la vasta maggioranza degli europei rimane primariamente attaccata e interessata nella politica democratica nazionale”.
Chi usa un linguaggio a dir poco saccente a proposito di chi rivendica lo Stato nazionale come terreno irrinunciabile di esercizio della lotta democratica, potrebbe utilmente rileggersi i saggi di uno dei maestri dell’economia eterodossa, Massimo Pivetti:
“Il lavoro dipendente può considerarsi come il soggetto collettivo maggiormente interessato alla sovranità dello Stato-nazione, condizione necessaria tanto della sovranità popolare che della tutela effettiva degli interessi del lavoro dipendente. La sua forza relativa all’interno di una nazione ed il quantum di sovranità della stessa in campo economico sono direttamente correlati e tendono ad interagire: una perdita di sovranità nazionale tende a provocare una riduzione della forza relativa del lavoro dipendente, che, a sua volta, tende a tradursi in un’ulteriore perdita di sovranità.”
E così si esprimeva Bob Rowthorn, uno dei principali esponenti post-Keynesiani di Cambridge e fautore della Alternative Economic Strategy:
“La crisi che colpisce milioni di cittadini britannici è ora su di noi. Se la sinistra intende sfruttare questa situazione, essa deve adottare un programma che offra alla gente qualche speranza, e deve dunque ragionare in termini di qualcosa di più pratico della rivoluzione europea o mondiale. Coloro che attaccano una strategia nazionale per il socialismo in Gran Bretagna come destinata al fallimento e si appellano a una rivoluzione europea o mondiale possono sembrare molto rivoluzionari. Ma nei fatti la loro è la dottrina della disperazione, e per quanto molte delle loro opinioni possano ispirare una piccola avanguardia di simpatizzanti, essi non possono che ispirare demoralizzazione fra le masse di lavoratori a cui non offrono niente” (Citato in Sei lezioni, p. 182; si veda anche la discussione qui).
[Ça va sans dire che le proposte di controllo dei movimenti di capitale e delle merci di Pivetti e Rowthorn sono note da decenni e da loro le abbiamo apprese, come ho sempre ampiamente precisato nei miei scritti - ma questa è una delicatezza un po’ passé].
Estrapolare citazioni dal loro contesto è sempre rischioso, ma è pur sempre Marx che nella Critica al Programma di Gotha scrive limpidamente che:
“S'intende da sé, che per poter combattere, in generale, la classe operaia si deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe, e chel'interno di ogni paese è il campo immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto comunista, non per il contenuto, ma ‘per la forma’” (Marx 1975, mio corsivo, si veda anche qui).[2]
La posizione di Varoufakis e dei suoi accoliti nostrali al riguardo è dunque estremamente debole e impregnata di ideologismo. Qui non si tratta di difendere il concetto di Nazione come un valore in sé o negare l’aspirazione alla fratellanza fra i popoli o le classi lavoratrici. Il problema è se è una strategia plausibile quella che propone l’arena europea come terreno di possibile scontro fra forze popolari e borghesia, oppure se già sarebbe molto se questo scontro riprendesse nei singoli paesi con l’obiettivo di ripristinare condizioni di controllo democratico sulle leve monetarie e fiscali dell’economia. L'unica strategia possibile è attualmente che intanto in ciascun paese ciascun popolo si batta per riappropriarsi della propria democrazia, altro che nazionalismo! Come ben commenta Lee Jones: “Varoufakis meramente respinge questo in maniera retorica, in favore di un internazionalismo sinistrese ottocentesco. Tuttavia il meccanismo per realizzare questa solidarietà internazionale è una lotta da svolgersi a diversi livelli cosicché i governi – i governi nazionali – diventano capaci di resistere ai dicktat dell’UE. Varoufakis perciò, ha bisogno e detesta lo Stato nazionale e i “national publics”,[3] rifugiandosi così nella fantasia del ‘repubblicanesimo transnazionale’” (qui, corsivo nell’originale).
Fassina ha dunque ragione quando argomenta che Varoufakis ha una visione ingenua, ma diffusa a sinistra, per cui la lotta in Europa è fra l’insieme dei popoli e l’insieme delle grandi banche; nei fatti, invece, paesi come la Germania vedono una connivenza fra capitale nazionale e grandi sindacati (se volete chiosate “purtroppo”, a me interessano i fatti non il moralismo di sinistra) nel sostenere politiche mercantiliste, ricorda opportunamente Fassina. O vogliamo parlare del perseguimento di interessi nazionali nella politica estera e commerciale dei singoli grandi Stati europei? Quello che non va bene in Fassina è invece l’attestarsi sulla difesa della UE per accreditarsi come europeista (e perciò internazionalista), dimenticando che anche l’UE è creatura liberista (per non parlare della sua politica estera, quando ve n’è una, come nel caso del sostegno ai nazisti ucraini).
Quindi io direi che le accuse che ci vengono mosse vanno rispedite alla fonte con gli interessi di velleitarismo politico, di ideologismo, di disinteresse per le condizioni materiali delle grandi masse. Dobbiamo però stare attenti alle parole che usiamo, non utilizzare le medesime della destra (come sovranismo). E naturalmente non contaminarci con la destra. Ciò detto, ci sono anche elementi in comune con Varoufakis, in particolare l’irriformabilità dell’Europa attuale. Siccome dobbiamo fare politica e unire le forze, bene non rompiamo i ponti con lui e i movimenti che anche in Italia guardano a lui.
Polany moment
Il voto popolare per la Brexit o i consenso di Sanders (ma anche quello di Trump) sono stati accostati a quello che il famoso antropologo ungherese Karl Polany definiva come “doppio movimento”. Come sapete Polany riteneva l’economia di mercato come una violazione della vita comunitaria, e quando l’invadenza del libero mercato si fa troppo pressante, la società reagirebbe domandando protezione contro gli effetti più devastanti del mercato, per esempio attraverso le istituzioni dello stato sociale. Ma, Polany riteneva, anche attraverso il fascismo. E infatti notate come molti movimenti di destra si pongano oggi come paladini dello stato sociale e dell’occupazione, almeno per gli autoctoni (laddove questi ultimi percepiscono gli immigrati come un aspetto dello smantellamento delle protezioni conquistate nel secolo scorso). Non so quanto le tesi di Polany siano scientificamente comprovate, ma certo la nostra percezione è che la distruzione in corso delle garanzie “dalla culla alla tomba” offerte dallo stato sociale e dal pieno impiego sia una violazione di principi basilari di umanità. Unione europea ed euro sono veicoli, armi di questa distruzione di massa. Persino a “lor signori” è chiaro che quello che viene chiamato populismo è un ya basta! a questa violazione continua dei diritti più elementari, lavoro, salute, istruzione (e democrazia costituzionale). Noi siamo parte di questo movimento di reazione.
Addendum
Del prof. Massimo Pivetti, uno dei maggiori economisti eterodossi del mondo, si veda:
Pivetti, M. 1998. Monetary versus political unification in Europe. On Maastricht as an exercise in ‘vulgar’ political economy, Review of Political Economy, Vol. 10, no. 1, 5-26.
Pivetti, M. 2011, Le strategie dell’integrazione europea e il loro impatto sull'Italia, in Un’altra Italia in un’altra Europa – Mercato e interesse nazionale, L.Paggi (ed), Firenze, Carocci.
Pivetti, M. 2013a. On the gloomy European project: an introduction,Contributions to Political Economy, vol. 32, 1-10
E a giorni: A.Barba & M.Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, in uscita con Imprimatur, di cui parleremo a lungo. Ampi stralci delle sue tesi sono richiamati in S.Cesaratto, Alternative interpretations of a stateless currency crisis, Cambridge Journal of Economics (in corso di pubblicazione).
[1] Riconosco che nel convegno alcune relazioni hanno dato un’accezione positiva al termine populismo, se inteso come intransigente difesa dei diritti sociali di grandi masse popolari.
[2] Marx, K., Critica del Programma di Gotha, 1875, https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1875/gotha/index.htm
[3] “National publics” è così definito da Wikipedia: “Publics are small groups of people who follow one or more particular issue very closely. They are well informed about the issue(s) and also have a very strong opinion on it/them.”
8 commenti:
Qui prima di pensare ad una convergenza europei dei fini, dobbiamo risolvere internamente i nostri conflitti di classe.
La Germania, come dice qualcuno, non è una signora bionda. I doverosi trasferimenti fiscali dal Nord al Sud sarebbe perfettamente accettati dal popolo tedesco se fossero pagati dalle loro elites industriali e finanziarie, che fino a questo momento si sono ingrassate anche sulle spalle dei propri cittadini.
Una Comunità Europea dei Popoli ( CEP, segnatevi il nome) è necessaria e possibile, ma passa dalla riappropriazione da parte del popolo dello proprio spazio nazionale.
Dalla UE si esce solo riappropriandosi dell'Italia.
Citazione di Marx decontestualizzata. Vediamo di non tirare il moro per la giacchetta.
Mino
Leggo dal link all'articolo di Massimo Pivetti (grassetto mio):
"In secondo luogo, l’assenza, anche nel trentennio ‘keynesiano’ del capitalismo avanzato (i cosiddetti trenta gloriosi) di politiche sistematiche di pieno impiego, con il conseguente fenomeno esclusivo dell’emigrazione di massa di forza-lavoro nazionale, durato dalla fine della guerra fino agli anni Sessanta inoltrati"
Non lo conoscevo ma è davvero una soddisfazione leggerlo, visto che ne ero ormai convinto da tempo. Dovrebbero tenerlo a mente tutti gli adoratori acritici del trentennio dorato, specialmente quelli che invece la chiamano era di sostanziale piena occupazione. A cosa serve poi il "sostanziale" se non a insabbiare le disuguaglianze che erano presenti pure in quel periodo?
Ringraziamo Cesaratto per il link.
MARX E LO STATO NAZIONE
"Mino" scrive:
«Citazione di Marx decontestualizzata. Vediamo di non tirare il moro per la giacchetta».
Non potendo Sergio Cesaratto rispondere, essendo impegnato a Madrid all'Università politica di Podemos, lo facciamo noi —nello spazio angusto del commento.
E' vero che nel "Manifesto del partito comunista" del 1848 Marx svolge una difesa d'ufficio dell'espansione capitalistica come leva di modernizzazione mondiale, come forza motrice del progresso verso il socialismo —Engels giungerà a difendere in questo senso anche il colonialismo.
Bene. Quel Marx, sostiene Cesaratto, commise un errore: vedeva solo un aspetto dell'espansione capitalistica, non quello opposto, generatore di barbarie sociale e sottosviluppo economico.
La questione —per chi abbia davvero studiato Marx e seguito l'evoluzione del suo pensiero e delle sue analisi— è che lo stesso Marx si avvide del grave errore. Basta andarsi a rileggere quel che scrisse sulla penetrazione colonialista in Cina e quindi il suo sostegno alla rivolta dei Taiping (1851-1864).
Ancor più netto lo stacco rispetto alle idee del 1848 in occasione della sua discussione coi populisti russi, ove Marx convenne con una delle tesi dei populisti, che cioè la Russia avrebbe potuto evitare, nella sua marcia verso il progresso socialista, di passare attraverso l'inferno del capitalismo.
Ancor più evidente la svolta di Marx sulla questione irlandese.
Da una posizione iniziale di disprezzo verso il nazionalismo irlandese al pieno sostegno alla lotta indipendentista, con l'argomento strategico che solo il successo del movimento indipendentista irlandese avrebbe potuto spezzare il connubio colonialista e corporativo tra capitale e classe operaia inglese.
Inutile girarci attorno: sulla questione nazionale abbiamo due Marx, quello giovanile, e quello maturo.
A noi pare che il secondo abbia visto lungo, e giusto.
Mi dispiace ma Mino ha ragione. La frase di Marx è stata ingenuamente estrapolata da questo passo della 'Critica':
(...) In opposizione al Manifesto comunista e a tutto il socialismo precedente, Lassalle aveva concepito il movimento operaio dal più angusto punto di vista nazionale. Si va dietro a lui in questo, e ciò dopo l'azione dell'Internazionale! S'intende da sé, che per poter combattere, in generale, la classe operaia si deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l'interno di ogni paese è il campo immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto comunista, non per il contenuto, ma "per la forma." Ma "l'ambito dell'odierno Stato nazionale," per esempio del Reich tedesco, si trova, a sua volta, economicamente "nell'ambito" del mercato mondiale, politicamente "nell'ambito" del sistema degli Stati. Ogni buon commerciante sa che il commercio tedesco è al tempo stesso commercio estero, e la grandezza del signor Bismarck consiste appunto in una specie di politica internazionale. E a che cosa il Partito operaio tedesco riduce il suo internazionalismo? Alla coscienza che il risultato del suo sforzo "sarà l'affratellamento internazionale dei popoli," - frase presa a prestito dalla Lega borghese della libertà e della pace, e che deve passare come equivalente dell'affratellamento internazionale delle classi operaie, nella lotta comune contro le classi dominanti e i loro governi. Nemmeno una parola, dunque delle funzioni internazionali della classe operaia tedesca! E così essa deve far fronte alla propria borghesia, affratellata, contro di essa, con la borghesia di tutti gli altri paesi, e alla politica di cospirazione internazionale del signor Bismarck (...).
L'idea di un Marx maturo 'nazionalista' è una sciocchezza, ma comunque la si pensi Cesaratto ha scelto il passo più inadatto di tutti per giustificare la sua visione.
Redwolf
Nazionalismo?
A Redwolf
Cesaratto, se lo ritiene necessario risponderà da par suo.
Che egli venga accusato di essere “nazionalista”, conoscendolo, appare come minimo grottesco.
Né noi pensiamo che ci sia stato un Marx giovane internazionalista e uno maturo nazionalista.
Marx dice: «S'intende da sé, che per poter combattere, in generale, la classe operaia si deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l'interno di ogni paese è il campo immediato della sua lotta».
Questo, a noi, basta e avanza per mettere in guardia certi sinistrati che si aggrappano alla sottana di Marx per difendere l’idea che oramai il solo campo da gioco è quello dell’Unione europea (Tsiprioti, rifondaroli ecc) o addirittura “l’Impero” (Negri e compagnia). Sinistrati che quindi condannano come reazionaria se non proprio fascistoide ogni riferimento alla riconquista delle sovranità nazionali.
Qui sta il punto, non trasformiamo una cogente questione strategica in disputa libresca.
E' evidente che, come reazione al devastante liberomercatismo cosmpolitico del grande capitale, c'è una spinta che sorge proprio dal basso, dalle classi oppresse, alla rinazionalizzazione del campo da gioco sociale e politico.
Occorre andare incontro, senza per questo diventare nazionalisti, alla reazione popolare alla globalizzazione, alla domanda di sicurezza e protezione sociale che chiama in causa lo stato nazionale e il suo intervento nell’economia contro le cieche leggi di mercato, paravento per il predominio del grande capitale finanziario.
Respingere come nazionalismo reazionario questa domanda di sicurezza sociale e protezione statale contro il far west globalista è la via sicura per spingere le masse tra le braccia delle destre xenofobe e neofasciste.
Questo errore fu già fatto dai partiti comunisti e socialdemocratici europei negli anni ’20 e ’30.
Non si dovrà ripetere.
La Redazione Sollevazione scrive: "non trasformiamo una cogente questione strategica in disputa libresca".
Benissimo, ragazzi. Ma allora dite al vostro amico economista di evitare frasi dotte che poi, a una lettura più attenta, diventano dei boomerang alquanto imbarazzanti.
Redwolf
REPETITA JUVANT
Marx dice: «S'intende da sé, che per poter combattere, in generale, la classe operaia si deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l'interno di ogni paese è il campo immediato della sua lotta».
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