[ 9 ottobre 2018 ]
Sul SOLE 24 ORE di oggi l'analista Morya Longo spiega come potrebbero reagire nelle prossime settimane i mercati finanziari — quelli a cui lo Stato è costretto a finanziarsi non essendo più sovrano. Ci dice, in buona sostanza, che essi prezzano l'uscita dell'Italia dall'euro. Come lo Stato dovrebbe reagire in caso di vendite massicce dei suoi titoli di debito? Ne parliamo sabato a Roma.
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Spread e Borse: perché il mercato non crede all’Italia
di Morya Longo
a Borsa di Milano è sui minimi da aprile 2017. Lo spread tra i BTp e i Bund è più volte salito in questi giorni oltre i 300 punti, arrivando fino al record dal 2013. Il divario tra i titoli di Stato italiani e quelli spagnoli è addirittura su livelli mai visti prima (200 punti), superando anche i 178 toccati nel 2011. Segno che l’Italia, sui mercati, balla da sola. Che gli investitori non abbiano apprezzato la Nota di Aggiornamento del Def è insomma evidente. Meno scontato, invece, è il motivo: in fondo tanti Governi hanno provato a “tirare” sul deficit o hanno provato a sbattere i pugni sul tavolo a Bruxelles. Perché questa volta il mercato è così teso?
I motivi di fondo sono tre. Uno: in pochi credono che il Pil possa crescere come il Governo prevede. Questo crea molti dubbi sulla tenuta dei conti pubblici in futuro. Due: sui mercati resta un timore di fondo (nonostante le smentite) che prima o poi lo scontro con Bruxelles possa portare l’Italia fuori dall’euro. Tre: le agenzie di rating. Bene inteso, i mercati possono sbagliare. È successo molte volte in passato. Ma oggi questo è il loro modo di vedere le cose. E, giusto o sbagliato che sia, col loro “punto di vista” l’Italia deve fare i conti.
1. Tra sogno e realtà
Il pilastro della politica economica del Governo è la crescita. Il Def stima un’espansione del Pil dell’1,5% nel 2019, dell’1,6% nel 2020 e dell’1,4% nel 2021. Il problema è che sul mercato pochi credono raggiungibili questi obiettivi. Se si prende la banca dati di Bloomberg (che colleziona le previsioni di tutte le maggiori istituzioni del mondo), la media degli economisti stima per l’Italia una crescita dell’1,1% nel 2019 e dell’1% nel 2020. Anche chi ha aggiornato le stime dopo la pubblicazione del Def (tra venerdì e ieri) non sfoggia grande ottimismo: Barclays, Morgan Stanley, Ubs e UniCredit prevedono nel 2019 una crescita dell’1,1%, Nomura dell’1%, Fitch dell’1,2% e JP Morgan dell’1,3%. Solo i tedeschi di Commerzbank hanno allineato le stime all’1,5% del Governo, ma vedono più nero negli anni successivi.
Questo perché il Governo ha molta più fiducia degli economisti internazionali sugli effetti benefici della Manovra in arrivo. Secondo alcuni calcoli (escludendo il disinnesco dell’aumento dell’Iva), il Governo starebbe stimando che ogni 100 euro di Manovra sia in grado di provocare un aumento del Pil superiore a 100 euro. Ovviamente i calcoli dipendono da come si fanno, ma una cosa è certa: quasi nessuno sul mercato condivide le stime del Governo. Questo crea incertezza: se la crescita si rivelasse inferiore a quella prevista nel Def, allora anche i rapporti tra deficit e debito sul Pil potrebbero essere destinati a salire nei prossimi anni.
2. I pugni sul tavolo
Qui viene il secondo timore: le tensioni con l’Europa. Questo non è il primo Governo del Continente, né sarà l’ultimo, che ha aspri dibattiti con Bruxelles. Ma questa volta c’è un rumore di fondo che allarma gli investitori più del solito: la paura (mai sopita) che l’Italia possa usare lo scontro con Bruxelles come pretesto per uscire dall’euro prima o poi. Ieri il Vicepremier Di Maio ha nuovamente negato questa eventualità: «Non vogliamo uscire né dall’euro né dall’Unione Europea», ha detto. Qualche dubbio in più nel pomeriggio l’ha diffuso la francese Marine Le Pen, secondo la quale «Matteo Salvini ha detto che per ora non è una priorità» uscire dall’euro. Lanciando, con quel «per ora», un segnale non poco equivoco.
Il mercato resta teso. E attualmente “prezza” (seppur in minima parte) questo rischio. Lo dimostrano i Cds, cioè le polizze assicurative che servono agli investitori per coprirsi dal rischio di insolvenza di qualunque debitore. Per i Paesi europei esistono due tipi di “polizze”: quelle precedenti al 2013 assicurano gli investitori dal solo rischio di insolvenza, mentre quelle successive al 2013 coprono anche dal rischio di ridenominazione del debito. Cioè di uscita dall’euro. Ebbene: nel caso dell’Italia, assicurarsi anche da Italexit costa il 2,76% dell’importo che si “copre”, mentre assicurarsi dal solo rischio di default costa l’1,70%. Segno che il mercato tutt’ora non esclude questa eventualità. Che gli investitori vedono come il fumo negli occhi: chi ha prestato a uno Stato euro non desidera infatti che gli vengano restituite lire.
Il terzo tema è legato ai primi due: a fine ottobre arriverà la decisione delle agenzie di rating. Particolarmente temuta è quella di Moody’s, che ha già messo il rating italiano sotto osservazione per un possibile declassamento. Se agisse in questo senso, il rating italiano arriverebbe a un solo “gradino” dal livello “speculativo” (in gergo definito junk, spazzatura). A prescindere dalla stima o meno che gli italiani possano avere per le agenzie di rating, il loro giudizio è importante perché in base al loro voto si determinano le scelte di molti investitori. Se il rating scendesse a livello «junk» (o si avvicinasse troppo), molti fondi sarebbero costretti a ridurre l’esposizione sul debito italiano. Per un motivo tecnico, dunque, il giudizio delle agenzie di rating potrebbe peggiorare il nostro spread. Dunque pesare su economia e conti pubblici. Così si torna al punto uno.
1 commento:
C’e anche una quarta possibilità: che i “mercati” e le agenzie di valutazione non siano totalmente autonomi, ma subiscano le influenze di quei poteri forti che, tramite operazioni reali e diffusione di voci, fanno pressioni sui governi per ottenere le politiche favorite o al limite rovesciarli. Emblematico il ruolo tutt’altro che indipendente della Bce
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