[ 21 ottobre ]
Un amico ha scritto in un breve post:
“di fondo siamo un paese che odia se stesso, non si stima. Anche per questo aspettiamo sempre di essere salvati da qualcuno da fuori”.
Credo sia una corretta riflessione, con qualche piccola glossa: probabilmente questa, che a volte chiamiamo “auto-razzismo”, è solo un’altra faccia della povertà di spirito civico che caratterizza il paese da secoli. Siamo in qualche modo stretti nei nostri gruppi e/o individui e non riconosciamo più ampie “parentele” ai nostri concittadini legali. La nazione (che viene da natio -onis, in latino “nascita”) implicherebbe invece che ci siamo reciprocamente parenti, dunque prevede un’identità reciproca tra le persone ed il loro paese. Essere “parenti” significa essere presso di sé nell’altro, una definizione che si può teoricamente estendere, diluendosi, fino all’intera umanità (come voleva Sant’Agostino) articolandola come un ordine collettivo. Una relazione reciproca dell’essere, non in proprio ma in comune (cfr Aristotele, L’Etica nicomachea, 1161).
Invece noi riconosciamo come parenti solo le cerchie strette, al limite della nostra regione, e perdiamo passione per le “altre” cerchie. Al contrario, proprio poiché le pensiamo “altre”, nutriamo per esse il sentimento di una ostilità latente più o meno graduata ed esplicita.
Più che odiare “noi stessi”, come scrive l’amico, noi odiamo, insomma, quelli che consideriamo “altri”. Quelli che sul piano legale sono i nostri concittadini. Per essa, noi odiamo in effetti una parte dell’Italia per come essa è. Come scrisse Cavour dovevamo fare gli italiani, ma siamo andati nella direzione opposta.
Dunque, quando cerchiamo il “vincolo esterno” (che, di volta in volta, è monetario –come lo SME o l’Euro-; politico – come il Trattato di Maastricht e le sue istituzioni –; giuridico – come la prevalenza del diritto europeo; persino democratico –quando si cerca di schermare la società per tradurla nella politica in modo più ‘semplice’, o più ‘efficiente’) non è per legarci le mani, ma più propriamente per legarle agli “altri”. L’autorazzismo è qui propriamente razzismo, e si intreccia con l’ideologia funzionale della corruzione.
Naturalmente, di volta in volta, questi “altri”, che non riconosciamo come parte della “nascita” comune, saranno il ‘pigro’ Sud o il ‘rapace’ nord, le élite ‘corrotte’ o la plebe ‘domandante’, le ‘arretrate’ periferie o la ‘vorace’ metropoli.
In un “paese lungo”, nel quale inoltre la lunga durata della storia riaffiora continuamente (gli 800 anni del regno delle sicilie, i tanti centri Italia, i due nord; il dualismo città/campagna; gli scontri sociali), i pochi momenti di costruzione dell'unione affondano nei molti momenti di divisione. La Prima guerra nella Seconda (che aggiunge profonde fratture organizzate politicamente); la ricostruzione e la crescita nello slabbramento del tessuto già visto bene da Pasolini; la lunga crisi che divarica ancora i deboli tessuti del paese. E poi, la memoria del fallimento di Cavour, del sangue e della violenza, del rancore, delle retoriche difensive ed aggressive, di quanto vedeva Gramsci.
A causa di queste guerre civili a bassa intensità che ci attraversano noi ci rifugiamo in un “nostro” ristretto, in piccole ‘nascite’, e respingiamo come “altro” quel che dovremmo invece sentire come parente. Dunque ricerchiamo il modo di legarlo attraverso vincoli, che naturalmente siano esterni.
Un paese che si odia (perché non è tale) allora, talvolta, fugge dalla Nazione nel “Nazionalismo”; cioè in un progetto solo reattivo, politico e sociale. Reagisce in modo forzato, violento, all’insufficienza di spirito civico che diventa limite alla mobilitazione delle forze, cercando di identificare degli opportuni nemici esterni. Proietta la negatività che si sente, l’insufficienza della ‘nascita’, su un altro-‘altro’. Questo straniero, che può anche essere entro i confini legali, ci consente di rinviare ad una differenza ‘naturale’ sostitutiva dell’unità mancante.
Una cosa del genere, non è solo nostra, non è solo una mossa che si è imposta negli anni trenta, è attuale e vi partecipano in molti. Ad esempio, verso questa tentazione inclina anche l'altro grande paese recente e fratturato d'Europa: la Germania. In cui combattono le spinte alla proiezione verso l'esterno che salva (l'europeismo e l'atlantismo su cui molte élite progressiste o comunque 'illuminate' hanno puntato nel dopoguerra) e quelle alla coltivazione dell'orgoglio. Quell'orgoglio che è una forma palese di nazionalismo in toni di grigio e di proiezione di differenza tra sé e l'altro. Di costruzione del sé e dell’altro. Del sé a spese dell’altro.
Quindi, anche qui, una forma di violenza (come si vede ormai benissimo).
Durkheim, muovendo dall’Affaire Dreyfus, nel 1896 scrive nella “Fisica dei costumi” che la morale civica presume un sentimento che motivi le cittadine ed i cittadini a partecipare, nella reciproca considerazione delle loro differenze, alla discussione ed individuazione dei principi fondamentali e vincolanti dell’agire comune e statale. Questo sentimento consente di anteporre alle loro preferenze e convinzioni il bene della comunità democratica, impegnandosi per lo sviluppo comune. Dato che le cittadine ed i cittadini possono essere disposti a tale passo solo se giudicano desiderabili, e degni di essere difesi, i corsi di azione comuni, è necessario quindi, scrive Durkheim, una qualche misura di “patriottismo”.
Come scrive Axel Honnett in “Il diritto della libertà” (p.378), questa obbligazione emotivamente radicata nei confronti del bene della propria comunità non deve però scivolare nell’anteporre i “fini nazionali” ai principi morali universalistici, identificando qualsiasi gruppo “esterno” come nemico. Come se gli amici richiedessero dei nemici per essere identificati.
Malgrado questo rischio, o forse proprio per questo, l’amor proprio sociale è legittimo, anzi necessario, ma può essere diretto a fini diversi dall’essere più grandi o ricche a danno degli “altri”. La morale civica può essere radicata in una forma ben intesa di universalismo morale che punta ad avere piuttosto “la migliore struttura morale”, cioè essere “la più giusta, la meglio organizzata” sotto questo profilo. Cioè che si radichi, in linea con le tradizioni universalistiche che emergono chiaramente in occidente intorno al progetto illuminista (pur essendo evidentemente di molto antecedenti), in un patriottismo costituzionale.
Secondo la formula di Honnett, cioè, che «le cittadine e i cittadini possano sentirsi confermati nella loro comune appartenenza politica e, quindi, sentirsi emotivamente legati l’uno all’altro, imparando a intendere le costituzioni delle loro comunità democratiche come stimolo a realizzare sempre meglio, alla luce delle proprie esperienze storiche, i principi morali universalistici in esse enunciati» (p.379).
Questo allargamento costante del proprio patriottismo come felice competizione per la migliore e più congrua “nascita” in comune, è connesso con l’attivazione di sfere pubbliche democratiche e con la funzione epistemica di queste. Cioè con la valenza della scoperta di sempre migliori modi di essere in comune, ed essere presso di sé nell’altro, che ha il processo di riflessione inclusivo e condotto pubblicamente intorno al centro discorsivo delle nostre Costituzioni. Della scoperta di sempre nuovi modi, ed adatti ai tempi, di articolare un più inclusivo e modo di essere all’altezza del racconto comune di sé e dei propri migliori principi.
In questo patriottismo anche l’Italia può cessare di essere assente, e diventare una Nazione che non ha bisogno di vincoli.
Che sa essere se stessa.
* Fonte: Nella Fertilità Nasce il Tempo
2 commenti:
Un buon articolo.
In Italia esiste una lunghissima tradizione umanista, se solo ci fosse più coraggio da parte della casta di intellettuali, cosi da ridiventare avanguardia, e non più "casta", diverrebbero un esempio, entro i nostri limiti, per incoraggiare anche gli altri all'estero.
Anche la parte sana della chiesa deve fare la sua parte, essendo essa stessa parte del processo italico di rinascimento culturale, e mettere a cuccia i suoi diavoli interni.
Ma questa spinta storica, non può prescindere da uno sforzo collettivo nella divulgazione, nel tornare a saper parlare e farsi capire con noi del popolo.
"Se vuoi essere perfetto, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri" Da oltre duemila anni ce lo sentiamo ripetere e sai come è finita ? che il tesoro, anziché essere custodito nei "Cieli", è finito tutto a Wall Street.
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