[ 11 ottobre ]
I primi due capitoli ospitano una serie di approfondimenti sui temi di Utopie letali: il primo sui meccanismi della crisi capitalistica, il secondo sull’incapacità delle sinistre di farvi fronte. Tuttavia con forti elementi di novità.
Il terzo e il quarto capitolo introducono elementi di novità più radicali, che non mancheranno di provocare un dibattito che prevedo più serrato, e in certi casi acrimonioso, di quello innescato da Utopie letali. Si tratta infatti di pagine che segnano una doppia svolta nel mio percorso teorico-politico. La prima (nel terzo capitolo) consiste in una definitiva presa di distanza, non solo dalle teorie post operaiste (il che era già avvenuto in precedenti lavori a proposito di categorie come economia e lavoratori della conoscenza), ma anche dal paradigma operaista originario – presa di distanza che riguarda nozioni fondanti quali il metodo della tendenza, il concetto di composizione di classe (perlomeno nella sua formulazione "classica") e l’interpretazione operaista della categoria marxiana di general intellect. Mossa, quest’ultima, che comporta a sua volta il commiato da alcuni aspetti della stessa teoria marxiana, a partire dall’idea secondo cui la contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione conduce necessariamente al superamento del capitalismo. Si tratta, in sostanza, di uno strappo radicale rispetto all’ottimismo tecnologico – venato di positivismo e illuminismo - che caratterizza l’intera tradizione del movimento operaio.
Il commiato dal paradigma operaista implica un rovesciamento di prospettiva nell’identificazione dei soggetti politici della lotta anticapitalista: l’attenzione si sposta dai settori che si presume incarnino il livello più alto di contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione —i centri del comando capitalistico nelle metropoli del mondo— alle periferie interne ed esterne, alle masse operaie supersfruttate dei Paesi in via di sviluppo, ai migranti, alle comunità che vivono ai margini del sistema, alle classi medie precipitate dalla crisi nell’inferno del terziario arretrato, del precariato, della sottoccupazione, agli esclusi ed emarginati di ogni regione e di ogni settore produttivo.
L’ultimo tema dà, non a caso, il titolo al libro. Questo perché sono convinto che le chance di rilanciare la lotta anticapitalista siano appese alla possibilità di costruire un’egemonia proletaria e socialista all’interno di quei movimenti populisti di sinistra che —in America Latina, Europa e Stati Uniti— sono oggi gli unici che abbiano saputo unificare e rappresentare le classi subordinate.
LA VARIANTE POPULISTA
«Si tratta infatti di pagine che segnano una doppia svolta nel mio percorso teorico-politico. La prima (nel terzo capitolo) consiste in una definitiva presa di distanza, non solo dalle teorie post operaiste (il che era già avvenuto in precedenti lavori a proposito di categorie come economia e lavoratori della conoscenza), ma anche dal paradigma operaista originario – presa di distanza che riguarda nozioni fondanti quali il metodo della tendenza, il concetto di composizione di classe (perlomeno nella sua formulazione "classica") e l’interpretazione operaista della categoria marxiana di general intellect. Mossa, quest’ultima, che comporta a sua volta il commiato da alcuni aspetti della stessa teoria marxiana, a partire dall’idea secondo cui la contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione conduce necessariamente al superamento del capitalismo».
Finalmente ci siamo.
Dopo due anni abbondanti di lavoro (ho iniziato a ragionarci su poco dopo la pubblicazione di Utopie letali) esce il mio nuovo libro da DeriveApprodi, di cui vedete qui sotto la copertina.
D'appresso un estratto dalla Prefazione del libro:
I primi due capitoli ospitano una serie di approfondimenti sui temi di Utopie letali: il primo sui meccanismi della crisi capitalistica, il secondo sull’incapacità delle sinistre di farvi fronte. Tuttavia con forti elementi di novità.
Nel primo c’è un’accentuazione dell’elemento politico della crisi, cioè della sua funzione di strumento del capitale per disarticolare le classi subordinate e annientarne la capacità di resistenza. In particolare, concentro l’attenzione sul progetto egemonico incarnato dall’ideologia ordoliberista e dalle istituzioni postdemocratiche su cui si fonda – progetto che assume l’aspetto di una vera e propria utopia, prospettando la costruzione di un uomo nuovo. Il capitolo si conclude con un’analisi dei processi di trasformazione del modo di produzione che sfruttano le tecnologie digitali (e delle mistificazioni ideologiche che li accompagnano).
Nel secondo mi spingo oltre le critiche che avevo già rivolto alle sinistre: la tesi di fondo è che, a partire dagli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso, le culture di sinistra (socialdemocrazie, nuovi movimenti sociali, femminismo, ambientalismo, movimenti per i diritti civili, ecc.) abbiano subito una serie di mutazioni sociali, politiche e antropologiche che non ne hanno semplicemente indebolito la capacità di resistenza nei confronti dell’egemonia liberal liberista, ma le hanno trasformate in soggetti attivamente impegnati nella gestione dei nuovi dispositivi di potere.
Il terzo e il quarto capitolo introducono elementi di novità più radicali, che non mancheranno di provocare un dibattito che prevedo più serrato, e in certi casi acrimonioso, di quello innescato da Utopie letali. Si tratta infatti di pagine che segnano una doppia svolta nel mio percorso teorico-politico. La prima (nel terzo capitolo) consiste in una definitiva presa di distanza, non solo dalle teorie post operaiste (il che era già avvenuto in precedenti lavori a proposito di categorie come economia e lavoratori della conoscenza), ma anche dal paradigma operaista originario – presa di distanza che riguarda nozioni fondanti quali il metodo della tendenza, il concetto di composizione di classe (perlomeno nella sua formulazione "classica") e l’interpretazione operaista della categoria marxiana di general intellect. Mossa, quest’ultima, che comporta a sua volta il commiato da alcuni aspetti della stessa teoria marxiana, a partire dall’idea secondo cui la contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione conduce necessariamente al superamento del capitalismo. Si tratta, in sostanza, di uno strappo radicale rispetto all’ottimismo tecnologico – venato di positivismo e illuminismo - che caratterizza l’intera tradizione del movimento operaio.
Il commiato dal paradigma operaista implica un rovesciamento di prospettiva nell’identificazione dei soggetti politici della lotta anticapitalista: l’attenzione si sposta dai settori che si presume incarnino il livello più alto di contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione —i centri del comando capitalistico nelle metropoli del mondo— alle periferie interne ed esterne, alle masse operaie supersfruttate dei Paesi in via di sviluppo, ai migranti, alle comunità che vivono ai margini del sistema, alle classi medie precipitate dalla crisi nell’inferno del terziario arretrato, del precariato, della sottoccupazione, agli esclusi ed emarginati di ogni regione e di ogni settore produttivo.
Un rovesciamento che introduce la seconda svolta —annunciata nel quarto e ultimo capitolo— che si articola in due movimenti: 1) messa a fuoco dei fattori di controtendenza rispetto al processo di globalizzazione, ovvero il ritorno —ancorché in forme mutate— del conflitto interimperialistico, della guerra, dei confini, dello stato di eccezione, dei campi, mentre si dissolvono gli scenari di governance "imperiale"; 2) riconoscimento del fatto che l’unica forma politica che appaia oggi in grado di unificare la galassia di soggetti conflittuali descritta poco fa è il populismo.
L’ultimo tema dà, non a caso, il titolo al libro. Questo perché sono convinto che le chance di rilanciare la lotta anticapitalista siano appese alla possibilità di costruire un’egemonia proletaria e socialista all’interno di quei movimenti populisti di sinistra che —in America Latina, Europa e Stati Uniti— sono oggi gli unici che abbiano saputo unificare e rappresentare le classi subordinate.
Per riuscirci occorrerebbe:
1) restituire a termini come popolo, blocco sociale, egemonia, guerra di posizione l’originario significato gramsciano, strappandoli alle interpretazioni depotenziate che ne offrono autori come Laclau e Mouffe; 2) appropriarsi dell’idea di popolo come unità contrapposta alla élite, della lotta di classe come opposizione alto/basso, pur senza rinunciare ad analizzare i conflitti di classe che "striano" il popolo e a lavorare perché l’egemonia sia nelle mani di chi sta in basso e non in quelle dei ceti medi; 3) riconoscere che, tanto sul piano della comunicazione e dell’innovazione linguistica, quanto su quello delle forme organizzative (vedi il recupero di forme di democrazia diretta e partecipativa), le sinistre hanno solo da imparare dall’esperienza populista. Anche da quelle di destra!
Capisco che è dura da digerire, ma è evidente che negli ultimi anni le sinistre (tutte!) hanno regalato ai populismi di destra la rappresentanza degli interessi delle classi inferiori, accontentandosi di gestire interessi e diritti di individui e minoranze appartenenti alle classi medie colte, mentre solo i populismi di sinistra hanno cercato di raddrizzare il timone. Né meno difficili da riconoscere e metabolizzare sono le conseguenze di un duplice evento epocale:
1) l’esistenza di controtendenze crescenti alla globalizzazione;2) il fatto che la lotta di classe tende a presentarsi come conflitto fra flussi globali di segni di valore, informazioni, merci e manager da un alto, territori e comunità locali che si oppongono alla colonizzazione da parte dei flussi dall’altro.
Accettare la sfida del populismo a partire questi due eventi significa comprendere che non è possibile opporsi al capitale globale senza lottare per la riconquista della sovranità popolare la quale, a sua volta, comporta la riconquista della sovranità nazionale.
Se a egemonizzare la lotta sarà il populismo di destra, assisteremo al trionfo di razzismo e xenofobia, se sarà invece quello di sinistra, potremmo assistere alla nascita di un’idea "postnazionalista" di nazione, intesa cioè come comunità di tutti quelli che lavorano e lottano in un determinato territorio.
Come ribadisco in più parti di questo lavoro, accettare tale punto di vista implica assumere un atteggiamento totalmente controcorrente rispetto a quello delle sinistre europeiste: difendere questa Europa oligarchica, ordoliberista e irriformabile significa scambiare il cosmopolitismo borghese per internazionalismo proletario. La lotta anticapitalista, nel nostro continente, passa inevitabilmente dalla lotta contro l’Europa.
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