[ 30 agosto ]
«La cancellazione della cittadinanza nazionale e dei suoi valori in nome dell'ideale universalistico della cittadinanza universale è una strada che conduce, nonostante le buone intenzioni dei suoi sostenitori, nelle braccia dell'imperialismo statunitense e del suo progetto di egemonia mondiale mascherato sotto le vesti della diffusione planetaria dei valori occidentali».
È sempre più evanescente la grande, nobile idea, riproposta da Thomas Marshall nella seconda metà del secolo scorso, della cittadinanza come luogo in cui si realizzano le condizioni politiche, economiche e sociali della piena appartenenza di un soggetto ad una comunità organizzata: l'ambito della realizzazione effettiva —non della semplice titolarità giuridica— di aspettative sociali collettivamente riconosciute come legittime, espressione di una solidarietà pubblica fruita e condivisa da tutti i cittadini. E si dissolve a maggior ragione l'idea welfarista del carattere inclusivo ed espansivo dei diritti soggettivi in una traiettoria evolutiva che dovrebbe correggere la deriva discriminatoria dell'economia di mercato, procedendo per tappe successive dai diritti civili a quelli politici e a quelli sociali, verso approdi sempre più egualitari.
Nei paesi occidentali, a partire dalla fine della Guerra fredda, si sono verificate profonde mutazioni del sistema politico ed economico, tali da stravolgere le strutture stesse della cittadinanza. Dalla società dell'industria e del lavoro siamo passati alla società postindustriale dominata dalla rivoluzione tecnologico-informatica e dallo strapotere delle forze economiche che sfruttano le dimensioni globali dei mercati proiettando le disuguaglianze sociali su scala planetaria. Il fallimento del 'socialismo reale' e la spinta della globalizzazione hanno messo in crisi anche le istituzioni del Welfare State e fortemente contratto i diritti sociali, a cominciare dal diritti al lavoro, soprattutto delle nuove generazioni. I processi di globalizzazione economica consentono alle grandi corporations industriali e finanziarie di sottrarsi ai vincoil delle legislazioni nazionali, in particolare all'imposizione fiscale. Nello stesso tempo lo sviluppo tecnologico ha aumentato la produttività delle grandi imprese che tendono a disfarsi della forza-lavoro che non sia altamente specializzata e di questa si servono secondo le modalità del lavoro interinale o a tempo determinato, con la conseguenza di un costante aumento della inoccupazione giovanile e della disoccupazione.
Nel frattempo la democrazia parlamentare ha ceduto il passo alla 'videocrazia' e alla 'sondocrazia': la logica della rappresentanza è surrogata dalla logica della pubblicità commerciale, assunta a modello della propaganda politica. Il codice politico è contaminato dal codice multimediale della spettacolarità e della personalizzazione. Il potere persuasivo dei grandi mezzi di comunicazione di massa ha vanificato anche gli ultimi residui 'partecipativi' e 'rappresentativi' della democrazia pluralista à la Schumpeter. I partiti di massa sono scoparsi. Le direzioni centrali dei partiti non ricorrono più alla mediazione comunicativa delle strutture di base e del proselitismo degli iscritti e dei militanti. Non ne hanno più alcun bisogno perché ci sono strumenti molto più efficaci ed economici per farlo: i canali delle televisioni pubbliche e private. In questo senso i nuovi soggetti politici non sono più, propriamente, dei 'partiti': sono delle ristrettissime élites di imprenditori elettorali che, in concorrenza pubblicitaria fra di loro, si rivolgono direttamente alle masse dei cittadini-consumatori offrendo, attraverso lo strumento televisivo e secondo precise strategie di marketing, i propri prodotti simbolici. Usando altre tecniche di marketing —in particolare il sondaggio di opinione— gli imprenditori elettorali analizzano la situazione del mercato politico, registrano le reazioni del pubblico alle proprie campagne pubblicitarie e influenzano circolarmente queste reazioni attraverso la pubblicazione selettiva, spesso manipolata, dei risultati dei sondaggi. E mentre l'astensionismo politico tende ad aumentare in tutto il mondo occidentale, a cominciare dagli Stati Uniti, le forze politiche sono sempre più impegnate nelle sofisticate alchimie di riforme elettorali che fanno della volontà del 'popolo sovrano' l'oggetto passivo e inconsapevole dei calcoli di breve periodo della classe politica.
Sul piano internazionale si affievolisce il potere di gran parte degli Stati nazionali e si scompongono gli equilibri geopolitici e geoeconomici che si erano stabilizzati nel secondo dopoguerra. E si profila una "costituzione imperiale" del mondo: gerarchica, violenta, eversiva dell'ordinamento giuridico internazionale. Una inarrestabile deriva concentra il potere internazionale —anzitutto quello militare— nelle mani di un ristretto direttorio di grandi potenze sotto la guida della massima potenza nucleare del pianeta, gli Stati Uniti d'America. Anche sotto questo profilo l'ideale della cittadinanza —strettamente legato alla forma politica dello Stato sovrano— sembra esposto a sollecitazioni distruttive. Nel contesto neo-imperiale la violazione dei diritti fondamentali delle persone è un fenomeno di imponenti proporzioni. Se si deve prestare fede ai documenti delle Nazioni Unite e ai rapporti di organizzazioni non governative com Amnesty International e Human Rights Watch, milioni di persone oggi sono vittime, in tutti i continenti, di gravi violazioni dei loro diritti fondamentali. L'ampiezza del fenomeno è la conseguenza non solo del carattere dispotico di molti regimi statali, ma anche di decisioni arbitrarie di soggetti internazionali dotati di grande potere politico, economico e militare: un potere che i processi di globalizzazione hanno reso soverchiante e incontrollabile e contro il quale la sola replica in atto è oggi la violenza del global terrorism, tanto sanguinaria quanto impotente. Sotto accusa sono le guerre di aggressione delle potenze occidentali, la pena di morte, la tortura, i maltrattamenti carcerari —si pensi a Guantanamo, Abu Ghraib, Bagram— il genocidio, la povertà, le epidemie, il debito estero che dissangua i paesi più poveri, la devastazione dell'ambiente, lo sfruttamento neoschiavistico dei minori e delle donne, l'oppressione razzista di popoli emarginati: dai palestinesi ai curdi, ai tibetani, ai rom, agli indoamericani, agli aborigeni africani, australiani e neozelandesi.
Di fronte a questo panorama c'è chi non abbandona un atteggiamento ottimistico.
Queste tesi —tipiche di quelli che Hedley Bull ha ironicamente chiamato Western globalists— sono ispirate da presupposti filosofici che rinviano o all'universalismo umanitario del comunismo utopistico o alla tradizione del moralismo kantiano che ha trovato autorevoli epigoni in autori come Hans Kelsen, Jürgen Habermas, John Rawls, Ultich Beck.
Che cosa è possibile fare? Quali strategie, in particolare la sinistra europea, può adottare sul terreno della difesa delle conquiste fondamentali della cittadinanza democratica? Soltanto una piena consapevolezza dei valori e, nello stesso tempo, dei limiti e delle tensioni della cittadinanza e, in essa, della Stato di diritto, può consentire una elaborazione teorica e un impegno politico adeguato, nel quadro di una più generale ricostruzione delle istituzioni democratiche. Sul terreno propriamente politico una coerente teoria della cittadinanza dovrebbe proporre una 'lotta per i diritti' che non si risolva in parole d'ordine generiche e moralistiche. In alternativa alla retorica secolare del bene comune e dei doveri dei cittadini occorrerebbe mettere a punto una tavola di rivendicazioni normative rivolte contro i rischi crescenti di discriminazione chi vanno incontro i cittadini —per non parlare degli stranieri— non affiliati alle grandi corporazioni economiche, finanziarie, multimediali, professionali e religiose.
Mentre la tutela dei diritti civili —liberty and property— appartiene, per così dire, alla normalità fisiologica della cittadinanza e dello Stato di diritto, solo una pressione conflittuale può ottenere che questo livello minimo venga superato: solo il conflitto sociale è in grado di restituire effettività all'esercizio dei diritti politici, riscattandoli dalla loro condizione di puro cerimoniale elettorale, e di garantire l'adempimento effettivo delle aspettative che stanno dietro ai cosiddetti 'diritti sociali'. Si tratta di interessi e di aspettative che lo Stato di diritto come tale non è incline a riconoscere stabilmente, se non in termini assistenziali e comunque largamente ineffettivi.
Infine, andrebbe tematizzata l'esigenza di garantire non soltanto le libertà politiche e il diritto all'informazione dei cittadini, ma anche la loro 'autonomia cognitiva'. Il problema richiederebbe una lunga elaborazione. Ma si può comunque sostenere che i temi della 'nuova censura' e del 'diritto di replica' a difesa della autonomia cognitiva dei cittadini contro i monopoli della comunicazione elettronica, dovrebbero essere posti all'ordine del giorno di una battaglia per l''aggiornamento della democrazia', per usare l'espressione di Jacques Derrida. Senza una lotta contro la concentrazione e l'accumulazione comunicativa, oggi favorite dai processi di globalizzazione informatica, la democrazia è destinata a divenire una finzione procedurale, una ingannevole parodia multimediale.
Sul piano internazionale, fuori dall'ambigua retorica cosmopolitica della 'cittadinanza universale' e del 'governo mondiale', occorrerebbe porre in primo piano il tema dei "regimi internazionali" in quanto forme di cooperazione fra gli Stati che operano senza fare ricorso agli strumenti coercitivi di giurisdizioni penali e di polizie soprannazionali. L'assenza di una autorità globale favorisce lo sviluppo di un reticolo normativo policentrico che emerge da processi diffusi di negoziazione multilaterale fra gli Stati e di aggregazione autoregolativa (governance). E' una forma di 'anarchia cooperativa' che seppure per ora limitata ad aree specifiche —la ricerca spaziale, la meteorologia, la disciplina delle attività umane dell'Antartico, la pesca oceanica, fra le molte altre— contraddice clamorosamente la logica della giurisdizione penale centralizzata, vincolante e universale, sostenuta dai giuristi che si ispirano al cosmopolitismo kantiano e kelseniano.
Per contenere ed equilibrare lo strapotere della potenza imperiale degli Stati Uniti, occorrerebbe puntare su un macro-regionalismo multipolare che dia affatto per scontato il superamento degli Stati nazionali e dei valori della cittadinanza. E non sottovaluti la forza coesiva delle radici etniche e culturali dei gruppi sociali, ma tenti pazientemente di intrecciare la tutela dei diritti fondamentali con i particolarismi dell'appartenenza e delle identità collettive, soprattutto se sostenute da tradizioni millenarie. Di grande rilievo in questo quadro strategico potrebbe essere il contributo di un'Europa unita che non si limitasse a svolgere il suo ruolo di potenza economica e finanziaria, ma riuscisse a ritrovare le sue radici identitarie nell'intreccio delle culture mediorientali e mediterranee, incluse quelle arabo-islamiche. Ricostruire la sua identità 'non occidentale' consentirebbe all'Europa di recuperare quella dignità e autorità di soggetto politico internazionale che è andata smarrendo via via che gli Stati Unti sono emersi come il 'vero Occidente': potente, dinamico, espansivo, secondo la logica imperiale della dottrina Monroe e dell'universalismo wilsoniano. Un' Europa autonoma affrancata dalla subordinazione al Washington consensus, potrebbe nn solo svolgere un ruolo di equilibrio fra le grandi potenze e operare per la pace, ma anche liberare i cittadini europei —in modo tutto particolare i cittadini italiani dalla loro condizione di sudditi dell'impero atlantico.
(...)
Cittadinanza diritti cosmopolitici
Si profila una terza, crescente incompatibilità: è quella fra i diritti di cittadinanza e i cosiddetti 'diritti cosmopolitici'. Si tratta di una antinomia che riguarda la tensione fra il particolarismo delle cittadinanze nazionali e l'universalismo dei processi di globalizzazione. Secondo numerosi autori —David Held, Richard Falk e Antonio Cassese, ad esempio— questa tensione potrebbe rivelarsi 'espansiva' e 'inclusiva', nel senso che l'interferenza delle normative internazionali con gli ordinamenti giuridici degli Stati potrebbe dilatare e rendere più concreta la capacità dei cittadini di ottenere il rispetto dei propri diritti attraverso il ricorso ad autorità giudiziarie sovranazionali.
Secondo questi autori, all'interno dell'ordinamento giuridico internazionale convivono due diversi modelli normativi: il 'modello di Vestfalia' e il 'modello della Carta delle Nazioni Unite'. Per 'modello di Vestfalia' si intende l'assetto originario del diritto internazionale moderno, per il quale soggetti di diritto sono esclusivamente gli Stati, non esiste alcun 'legislatore internazionale' e l'ordinamento giuridico è costituito quasi esclusivamente da norme primarie, mentre mancano le norme di organizzazione E gli strumenti di applicazione coattiva del diritto.
Invece, secondo il modello che è venuto profilandosi sulla base del disegno normativo della Carta delle Nazioni Unite, un ruolo, sia pure per ora limitato, è concesso anche agli individui, ai gruppi sociali, alle organizzazione non governative e ai popoli dotati di un'organizzazione rappresentativa. E sono in vigore norme internazionali che obbligano gli Stati a rispettare la dignità e i diritti fondamentali degli individui: si è verificata, insomma, una parziale erosion of the domestic jurisdiction. Si sarebbero inoltre affermati dei veri e propri 'principi generali' e non solo sono ritenuti vincolanti dagli Stati, ma prevalgono come jus cogens inderogabile sui trattati e norme consuetidinarie.
Il vecchio modello, si riconosce, prevale ancora nettamente dal punto di vista dell'effettività, mentre la logica 'comunitaria' e 'globalistica' che caratterizza il profilo normativo delle Nazioni Unite non è riuscita ad affermarsi che in misura molto limitata. Ma il progresso dell'ordinamento giuridico internazionale, si sostiene, non può che andare nel senso di un totale superamento del 'vecchio modello' di Vestfalia. Quest'ultimo riflette le caratteristiche 'primitive e individualistiche' delle relazioni tra gli Stati nell'Europa del Seicento e del Settecento, mentre è soltanto con la Carta delle Nazioni Unite che è stato fondato un moderno assetto giuridico internazionale.
In questa prospettiva, che potremmo chiamare 'cosmopolitismo' o 'globalismo giuridico', si congiungono tre aspettative normative: quella del centralismo giurisdizionale, quella del pacifismo giuridico e quella del global costitutionalism, che collegandosi strettamente alla teoria dei diritti dell'uomo punta sulla capacità di un governo mondiale di tutelare internazionalmente quelle libertà fondamentali degli individui che gli Stati non sono in grado di assicurare.
Ciò che tuttavia si potrebbe opporre all'ottimismo cosmopolitico espresso da questi autori —ottimismo circa la realizzabilità di uno 'Stato di diritto' planetario e di una 'cittadinanza cosmopolitica'— è la sempre più netta divisione del mondo in un ristretto numero di paesi ricchi e potenti e in un gran numero di paesi poveri e deboli. In questa situazione non sembra possibile dar vita a un ordinamento giuridico internazionale che non sia rigidamente gerarchico e che non neghi il principio stesso della eguaglianza formale dei soggetti di diritto, come fa la Carta delle Nazioni Unite quando istituisce la figura dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e attribuisce loro un diritto di veto.
Ma c'è un secondo antagonismo fra cittadinanza e 'diritti cosmopolitici', probabilmente ancora più drammatico e carico di futuro, che viene espresso dalla lotta per l'acquisto delle cittadinanze 'pregiate' dell'Occidente da parte di grandi masse di soggetti appartenenti ad aree continentali senza sviluppo e con un elevato tasso demografico. Questa lotta assume la forma della migrazione di massa di soggetti economicamente e politicamente molto deboli —soggetti senza cittadinanza e senza diritti— ma che esercitano, grazie alla loro infiltrazione capillare negli interstizi delle cittadinanze occidentali, una irresistibile pressione per l'eguaglianza. La replica da parte delle cittadinanze minacciate da questa pressione 'cosmopolitica' —in termini sia di rigetto o di espulsione violenta degli immigrati, sia di negazione pratica della loro qualità di soggetti civili— sta scrivendo e sembra destinata a scrivere nei prossimi decenni le pagine più luttuose della storia civile politica dei paesi occidentali.
È la stessa nozione marshalliana di cittadinanza che viene sfidata dalla richiesta di un numero crescente di soggetti non appartenenti alle maggioranze autoctone occidentali di diventare cittadini pleno jure dei paesi dove vivono e lavorano. Si tratta di una sfida molto rischiosa perché la stessa dialettica di 'cittadino' e 'straniero' viene alterata dalla pressione di fenomeni migratori difficilmente controllabili. Ed è una sfida dirompente perché tende a far esplodere sia gli elementi della costruzione 'prepolitica' della cittadinanza, sia i processi sociologici di formazione delle identità collettive, sia infine le stesse strutture dello Stato di diritto. A queste strutture viene rivolta la pressante richiesta di riconoscimento multietnico non solo dei diritti individuali dei cittadini immigrati, ma delle stesse identità etniche di minoranze caratterizzate da una notevole distanza culturale rispetto alle cittadinanze ospitanti.
(...)
«La cancellazione della cittadinanza nazionale e dei suoi valori in nome dell'ideale universalistico della cittadinanza universale è una strada che conduce, nonostante le buone intenzioni dei suoi sostenitori, nelle braccia dell'imperialismo statunitense e del suo progetto di egemonia mondiale mascherato sotto le vesti della diffusione planetaria dei valori occidentali».
Danilo Zolo [nella foto ] è uno dei più prestigiosi filosofi del diritto viventi.
Autore di numerosi libri e saggi, molti dei quali tradotti in svariate lingue.
Ci pare molto utile pubblicare alcune parti di un suo libro del 2007: Da cittadini a sudditi. La cittadinanza politica vanificata (Edizioni Punto Rosso).
Autore di numerosi libri e saggi, molti dei quali tradotti in svariate lingue.
Ci pare molto utile pubblicare alcune parti di un suo libro del 2007: Da cittadini a sudditi. La cittadinanza politica vanificata (Edizioni Punto Rosso).
INTRODUZIONE
Da cittadini a sudditi: è questo il processo di regressione politica oggi in corso nelle 'democrazie del benessere' occidentali. La qualifica di cittadino si oppone a quella di straniero, sempre meno a quella di suddito. La cittadinanza torna ad essere un dato formale, con una connessione sempre più incerta con i diritti dei cittadini, con la loro dignità e autonomia, con il loro sentimento di solidarietà e di appartenenza ad una comunità politica. La cittadinanza tende a divenire una pura ascrizione anagrafica che sopravvive come strumento di discriminazione dei non cittadini. In Europa —in Italia in particolare— ha sinora operato come una clausola che esclude i migranti 'extracomunitari' dalla titolarità o dal godimento dei diritti fondamentali. È una clausola che li riduce, soprattutto se irregolari, ad una condizione di non-persone, che li rifiuta, li respinge o li rinchiude in carcere. Una condizione non razzista della cittadinanza esigerebbe che a tutti gli stranieri che vivono e lavorano in Europa venisse concessa la piena cittadinanza in tempi rapidi e senza condizioni capestro.
Da cittadini a sudditi: è questo il processo di regressione politica oggi in corso nelle 'democrazie del benessere' occidentali. La qualifica di cittadino si oppone a quella di straniero, sempre meno a quella di suddito. La cittadinanza torna ad essere un dato formale, con una connessione sempre più incerta con i diritti dei cittadini, con la loro dignità e autonomia, con il loro sentimento di solidarietà e di appartenenza ad una comunità politica. La cittadinanza tende a divenire una pura ascrizione anagrafica che sopravvive come strumento di discriminazione dei non cittadini. In Europa —in Italia in particolare— ha sinora operato come una clausola che esclude i migranti 'extracomunitari' dalla titolarità o dal godimento dei diritti fondamentali. È una clausola che li riduce, soprattutto se irregolari, ad una condizione di non-persone, che li rifiuta, li respinge o li rinchiude in carcere. Una condizione non razzista della cittadinanza esigerebbe che a tutti gli stranieri che vivono e lavorano in Europa venisse concessa la piena cittadinanza in tempi rapidi e senza condizioni capestro.
È sempre più evanescente la grande, nobile idea, riproposta da Thomas Marshall nella seconda metà del secolo scorso, della cittadinanza come luogo in cui si realizzano le condizioni politiche, economiche e sociali della piena appartenenza di un soggetto ad una comunità organizzata: l'ambito della realizzazione effettiva —non della semplice titolarità giuridica— di aspettative sociali collettivamente riconosciute come legittime, espressione di una solidarietà pubblica fruita e condivisa da tutti i cittadini. E si dissolve a maggior ragione l'idea welfarista del carattere inclusivo ed espansivo dei diritti soggettivi in una traiettoria evolutiva che dovrebbe correggere la deriva discriminatoria dell'economia di mercato, procedendo per tappe successive dai diritti civili a quelli politici e a quelli sociali, verso approdi sempre più egualitari.
Nei paesi occidentali, a partire dalla fine della Guerra fredda, si sono verificate profonde mutazioni del sistema politico ed economico, tali da stravolgere le strutture stesse della cittadinanza. Dalla società dell'industria e del lavoro siamo passati alla società postindustriale dominata dalla rivoluzione tecnologico-informatica e dallo strapotere delle forze economiche che sfruttano le dimensioni globali dei mercati proiettando le disuguaglianze sociali su scala planetaria. Il fallimento del 'socialismo reale' e la spinta della globalizzazione hanno messo in crisi anche le istituzioni del Welfare State e fortemente contratto i diritti sociali, a cominciare dal diritti al lavoro, soprattutto delle nuove generazioni. I processi di globalizzazione economica consentono alle grandi corporations industriali e finanziarie di sottrarsi ai vincoil delle legislazioni nazionali, in particolare all'imposizione fiscale. Nello stesso tempo lo sviluppo tecnologico ha aumentato la produttività delle grandi imprese che tendono a disfarsi della forza-lavoro che non sia altamente specializzata e di questa si servono secondo le modalità del lavoro interinale o a tempo determinato, con la conseguenza di un costante aumento della inoccupazione giovanile e della disoccupazione.
Nel frattempo la democrazia parlamentare ha ceduto il passo alla 'videocrazia' e alla 'sondocrazia': la logica della rappresentanza è surrogata dalla logica della pubblicità commerciale, assunta a modello della propaganda politica. Il codice politico è contaminato dal codice multimediale della spettacolarità e della personalizzazione. Il potere persuasivo dei grandi mezzi di comunicazione di massa ha vanificato anche gli ultimi residui 'partecipativi' e 'rappresentativi' della democrazia pluralista à la Schumpeter. I partiti di massa sono scoparsi. Le direzioni centrali dei partiti non ricorrono più alla mediazione comunicativa delle strutture di base e del proselitismo degli iscritti e dei militanti. Non ne hanno più alcun bisogno perché ci sono strumenti molto più efficaci ed economici per farlo: i canali delle televisioni pubbliche e private. In questo senso i nuovi soggetti politici non sono più, propriamente, dei 'partiti': sono delle ristrettissime élites di imprenditori elettorali che, in concorrenza pubblicitaria fra di loro, si rivolgono direttamente alle masse dei cittadini-consumatori offrendo, attraverso lo strumento televisivo e secondo precise strategie di marketing, i propri prodotti simbolici. Usando altre tecniche di marketing —in particolare il sondaggio di opinione— gli imprenditori elettorali analizzano la situazione del mercato politico, registrano le reazioni del pubblico alle proprie campagne pubblicitarie e influenzano circolarmente queste reazioni attraverso la pubblicazione selettiva, spesso manipolata, dei risultati dei sondaggi. E mentre l'astensionismo politico tende ad aumentare in tutto il mondo occidentale, a cominciare dagli Stati Uniti, le forze politiche sono sempre più impegnate nelle sofisticate alchimie di riforme elettorali che fanno della volontà del 'popolo sovrano' l'oggetto passivo e inconsapevole dei calcoli di breve periodo della classe politica.
Norberto Bobbio e Danilo Zolo |
Come Norberto Bobbio ha osservato, si è verificata un inversione del rapporto fra controllori e controllati: i soggetti politici che detengono il potere di comunicare attraverso i mezzi di comunicazione di massa —pubblici e soprattutto privati— si muovono in uno spazio che è al di fuori e al di sopra della cittadinanza. Non sono soltanto sottratti ad un controllo democratico ma sono in grado di esercitare un'influenza insinuante sui modelli di consumo e sulle propensioni politiche dei cittadini riducendoli così a nuovi sudditi, a servi inconsapevoli di una tirannia subliminale, obbedienti a un regime di potere in larga parte occulto. L'eccessiva pressione simbolica cui sono sottoposti impedisce ai destinatari della comunicazione multimediale di selezionare razionalmente i contenuti. Per nessuno, neppure per lo specialista più esperto, è agevole controllare i significati e l'attendibilità dei messaggi che riceve, né stabilire una relazione interattiva con la fonte emittente. E ciò vale in particolare per la comunicazione pubblicitaria, che è la più impegnata nell'escogitare moduli comunicativi sofisticati, psicologicamente complessi e seduttivi.
Non sono le grandi ideologie che in questo modo si affermano. Si afferma il loro surrogato impolitico: l'abulia operativa, la docilità sociale, la passività consumistica, la venerazione del potere e della ricchezza altrui, la dipendenza cognitiva e immaginativa, la disposizione a credere. In questo senso la grande emittente televisiva, pubblica e privata, è il nucleo centrale del 'potere invisibile', è l'epicentro di quegli arcana imperii —le trame eversive, le organizzazioni criminali, le manovre finanziarie segrete, la corruzione, gli interessi privati che si annodano nelle pieghe del formalismo legislativo— che Bobbio riteneva assolutamente incompatibili con i valori di una cittadinanza democratica. La mancata demolizione delle strutture del potere invisibile era per Bobbio la più grave delle "promesse non mantenute" della democrazia liberale.
Sul piano internazionale si affievolisce il potere di gran parte degli Stati nazionali e si scompongono gli equilibri geopolitici e geoeconomici che si erano stabilizzati nel secondo dopoguerra. E si profila una "costituzione imperiale" del mondo: gerarchica, violenta, eversiva dell'ordinamento giuridico internazionale. Una inarrestabile deriva concentra il potere internazionale —anzitutto quello militare— nelle mani di un ristretto direttorio di grandi potenze sotto la guida della massima potenza nucleare del pianeta, gli Stati Uniti d'America. Anche sotto questo profilo l'ideale della cittadinanza —strettamente legato alla forma politica dello Stato sovrano— sembra esposto a sollecitazioni distruttive. Nel contesto neo-imperiale la violazione dei diritti fondamentali delle persone è un fenomeno di imponenti proporzioni. Se si deve prestare fede ai documenti delle Nazioni Unite e ai rapporti di organizzazioni non governative com Amnesty International e Human Rights Watch, milioni di persone oggi sono vittime, in tutti i continenti, di gravi violazioni dei loro diritti fondamentali. L'ampiezza del fenomeno è la conseguenza non solo del carattere dispotico di molti regimi statali, ma anche di decisioni arbitrarie di soggetti internazionali dotati di grande potere politico, economico e militare: un potere che i processi di globalizzazione hanno reso soverchiante e incontrollabile e contro il quale la sola replica in atto è oggi la violenza del global terrorism, tanto sanguinaria quanto impotente. Sotto accusa sono le guerre di aggressione delle potenze occidentali, la pena di morte, la tortura, i maltrattamenti carcerari —si pensi a Guantanamo, Abu Ghraib, Bagram— il genocidio, la povertà, le epidemie, il debito estero che dissangua i paesi più poveri, la devastazione dell'ambiente, lo sfruttamento neoschiavistico dei minori e delle donne, l'oppressione razzista di popoli emarginati: dai palestinesi ai curdi, ai tibetani, ai rom, agli indoamericani, agli aborigeni africani, australiani e neozelandesi.
Di fronte a questo panorama c'è chi non abbandona un atteggiamento ottimistico.
Antonio Negri, ad esempio, ha sostenuto che la crisi delle cittadinanze nazionali, l'erosione della sovranità degli Stati e l'affermarsi di un ordine imperiale del mondo è foriero anche di sviluppi positivi, nel senso che prelude all'affermarsi di una cittadinanza cosmopolitica, di un "universalismo delle 'moltitudini' capaci di insediarsi entro le strutture di potere dell'impero globale", occupandole senza distruggerle.
Altri autori hanno sostenuto che la cittadinanza nazionale è una istituzione che deve essere cancellata e che la sua crisi merita di essere guardata con favore e assecondata. Lungi dall'essere un fattore di inclusione e di eguaglianza, la cittadinanza è un privilegio di status, è l'ultimo relitto premoderno delle diseguaglianze personali in contrasto con l'universalità dei diritti fondamentali. Non ci sarà pace e giustizia nel mondo, né rispetto dei diritti soggettivi, si sostiene, finché non saranno abbattute le frontiere degli Stati dietro le quali si annida il particolarismo delle cittadinanze nazionali. Solo una cittadinanza universale e un ordinamento giuridico globale sono finalità coerenti per chi abbia a cuore la tutela e la promozione dei diritti fondamentali delle persone e non dei soli cittadini.
Queste tesi —tipiche di quelli che Hedley Bull ha ironicamente chiamato Western globalists— sono ispirate da presupposti filosofici che rinviano o all'universalismo umanitario del comunismo utopistico o alla tradizione del moralismo kantiano che ha trovato autorevoli epigoni in autori come Hans Kelsen, Jürgen Habermas, John Rawls, Ultich Beck.
Si tratta di filosofie globaliste che sembrano ignorare che la dottrina dei diritti dell'uomo, l'esperienza dello Stato di diritto e del costituzionalismo, le istituzioni liberal-democratiche si sono affermate nel contesto delle cittadinanze nazionali sviluppatesi, dopo il superamento dell'universalismo politico e giuridico del medioevo, entro i confini degli Stati nazionali europei.
La proiezione universalistica di queste esperienze, al di là della sua vistosa assenza di realismo politico, dà per scontata la natura universale dei valori (europei ed occidentali) ai quali esse si sono ispirate, a cominciare dai diritti dell'uomo e dalle istituzioni democratiche. Ma si tratta di un'assunzione tanto rischiosa quanto controversa, poiché l'universalismo etico e giuridico dei Western globalists ha dato ampia prova di essere paradossalmente in sintonia con l'universalismo neocoloniale delle potenze occidentali.
Nell'ultimo decennio del secolo scorso autori globalisti e cosmopoliti come Habermas, Rawls, Beck e, almeno in parte, lo stesso Bobbio, hanno approvato come giuste perché "umanitarie" le guerre di aggressione scatenate dall'Occidente contro Stati sovrani non in grado di difendersi: si pensi alla guerra per il Kosovo e alle aggressioni contro l'Afghanistan e l'Iraq. La cancellazione della cittadinanza nazionale e dei suoi valori in nome dell'ideale universalistico della cittadinanza universale è una strada che conduce, nonostante le buone intenzioni dei suoi sostenitori, nelle braccia dell'imperialismo statunitense e del suo progetto di egemonia mondiale mascherato sotto le vesti della diffusione planetaria dei valori occidentali. E finisce così per giustificare la strage di decine di migliaia di civili innocenti e la devastazione dei diritti più elementari.
Che cosa è possibile fare? Quali strategie, in particolare la sinistra europea, può adottare sul terreno della difesa delle conquiste fondamentali della cittadinanza democratica? Soltanto una piena consapevolezza dei valori e, nello stesso tempo, dei limiti e delle tensioni della cittadinanza e, in essa, della Stato di diritto, può consentire una elaborazione teorica e un impegno politico adeguato, nel quadro di una più generale ricostruzione delle istituzioni democratiche. Sul terreno propriamente politico una coerente teoria della cittadinanza dovrebbe proporre una 'lotta per i diritti' che non si risolva in parole d'ordine generiche e moralistiche. In alternativa alla retorica secolare del bene comune e dei doveri dei cittadini occorrerebbe mettere a punto una tavola di rivendicazioni normative rivolte contro i rischi crescenti di discriminazione chi vanno incontro i cittadini —per non parlare degli stranieri— non affiliati alle grandi corporazioni economiche, finanziarie, multimediali, professionali e religiose.
Mentre la tutela dei diritti civili —liberty and property— appartiene, per così dire, alla normalità fisiologica della cittadinanza e dello Stato di diritto, solo una pressione conflittuale può ottenere che questo livello minimo venga superato: solo il conflitto sociale è in grado di restituire effettività all'esercizio dei diritti politici, riscattandoli dalla loro condizione di puro cerimoniale elettorale, e di garantire l'adempimento effettivo delle aspettative che stanno dietro ai cosiddetti 'diritti sociali'. Si tratta di interessi e di aspettative che lo Stato di diritto come tale non è incline a riconoscere stabilmente, se non in termini assistenziali e comunque largamente ineffettivi.
Infine, andrebbe tematizzata l'esigenza di garantire non soltanto le libertà politiche e il diritto all'informazione dei cittadini, ma anche la loro 'autonomia cognitiva'. Il problema richiederebbe una lunga elaborazione. Ma si può comunque sostenere che i temi della 'nuova censura' e del 'diritto di replica' a difesa della autonomia cognitiva dei cittadini contro i monopoli della comunicazione elettronica, dovrebbero essere posti all'ordine del giorno di una battaglia per l''aggiornamento della democrazia', per usare l'espressione di Jacques Derrida. Senza una lotta contro la concentrazione e l'accumulazione comunicativa, oggi favorite dai processi di globalizzazione informatica, la democrazia è destinata a divenire una finzione procedurale, una ingannevole parodia multimediale.
Sul piano internazionale, fuori dall'ambigua retorica cosmopolitica della 'cittadinanza universale' e del 'governo mondiale', occorrerebbe porre in primo piano il tema dei "regimi internazionali" in quanto forme di cooperazione fra gli Stati che operano senza fare ricorso agli strumenti coercitivi di giurisdizioni penali e di polizie soprannazionali. L'assenza di una autorità globale favorisce lo sviluppo di un reticolo normativo policentrico che emerge da processi diffusi di negoziazione multilaterale fra gli Stati e di aggregazione autoregolativa (governance). E' una forma di 'anarchia cooperativa' che seppure per ora limitata ad aree specifiche —la ricerca spaziale, la meteorologia, la disciplina delle attività umane dell'Antartico, la pesca oceanica, fra le molte altre— contraddice clamorosamente la logica della giurisdizione penale centralizzata, vincolante e universale, sostenuta dai giuristi che si ispirano al cosmopolitismo kantiano e kelseniano.
Per contenere ed equilibrare lo strapotere della potenza imperiale degli Stati Uniti, occorrerebbe puntare su un macro-regionalismo multipolare che dia affatto per scontato il superamento degli Stati nazionali e dei valori della cittadinanza. E non sottovaluti la forza coesiva delle radici etniche e culturali dei gruppi sociali, ma tenti pazientemente di intrecciare la tutela dei diritti fondamentali con i particolarismi dell'appartenenza e delle identità collettive, soprattutto se sostenute da tradizioni millenarie. Di grande rilievo in questo quadro strategico potrebbe essere il contributo di un'Europa unita che non si limitasse a svolgere il suo ruolo di potenza economica e finanziaria, ma riuscisse a ritrovare le sue radici identitarie nell'intreccio delle culture mediorientali e mediterranee, incluse quelle arabo-islamiche. Ricostruire la sua identità 'non occidentale' consentirebbe all'Europa di recuperare quella dignità e autorità di soggetto politico internazionale che è andata smarrendo via via che gli Stati Unti sono emersi come il 'vero Occidente': potente, dinamico, espansivo, secondo la logica imperiale della dottrina Monroe e dell'universalismo wilsoniano. Un' Europa autonoma affrancata dalla subordinazione al Washington consensus, potrebbe nn solo svolgere un ruolo di equilibrio fra le grandi potenze e operare per la pace, ma anche liberare i cittadini europei —in modo tutto particolare i cittadini italiani dalla loro condizione di sudditi dell'impero atlantico.
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Cittadinanza diritti cosmopolitici
Si profila una terza, crescente incompatibilità: è quella fra i diritti di cittadinanza e i cosiddetti 'diritti cosmopolitici'. Si tratta di una antinomia che riguarda la tensione fra il particolarismo delle cittadinanze nazionali e l'universalismo dei processi di globalizzazione. Secondo numerosi autori —David Held, Richard Falk e Antonio Cassese, ad esempio— questa tensione potrebbe rivelarsi 'espansiva' e 'inclusiva', nel senso che l'interferenza delle normative internazionali con gli ordinamenti giuridici degli Stati potrebbe dilatare e rendere più concreta la capacità dei cittadini di ottenere il rispetto dei propri diritti attraverso il ricorso ad autorità giudiziarie sovranazionali.
Secondo questi autori, all'interno dell'ordinamento giuridico internazionale convivono due diversi modelli normativi: il 'modello di Vestfalia' e il 'modello della Carta delle Nazioni Unite'. Per 'modello di Vestfalia' si intende l'assetto originario del diritto internazionale moderno, per il quale soggetti di diritto sono esclusivamente gli Stati, non esiste alcun 'legislatore internazionale' e l'ordinamento giuridico è costituito quasi esclusivamente da norme primarie, mentre mancano le norme di organizzazione E gli strumenti di applicazione coattiva del diritto.
Invece, secondo il modello che è venuto profilandosi sulla base del disegno normativo della Carta delle Nazioni Unite, un ruolo, sia pure per ora limitato, è concesso anche agli individui, ai gruppi sociali, alle organizzazione non governative e ai popoli dotati di un'organizzazione rappresentativa. E sono in vigore norme internazionali che obbligano gli Stati a rispettare la dignità e i diritti fondamentali degli individui: si è verificata, insomma, una parziale erosion of the domestic jurisdiction. Si sarebbero inoltre affermati dei veri e propri 'principi generali' e non solo sono ritenuti vincolanti dagli Stati, ma prevalgono come jus cogens inderogabile sui trattati e norme consuetidinarie.
Il vecchio modello, si riconosce, prevale ancora nettamente dal punto di vista dell'effettività, mentre la logica 'comunitaria' e 'globalistica' che caratterizza il profilo normativo delle Nazioni Unite non è riuscita ad affermarsi che in misura molto limitata. Ma il progresso dell'ordinamento giuridico internazionale, si sostiene, non può che andare nel senso di un totale superamento del 'vecchio modello' di Vestfalia. Quest'ultimo riflette le caratteristiche 'primitive e individualistiche' delle relazioni tra gli Stati nell'Europa del Seicento e del Settecento, mentre è soltanto con la Carta delle Nazioni Unite che è stato fondato un moderno assetto giuridico internazionale.
In questa prospettiva, che potremmo chiamare 'cosmopolitismo' o 'globalismo giuridico', si congiungono tre aspettative normative: quella del centralismo giurisdizionale, quella del pacifismo giuridico e quella del global costitutionalism, che collegandosi strettamente alla teoria dei diritti dell'uomo punta sulla capacità di un governo mondiale di tutelare internazionalmente quelle libertà fondamentali degli individui che gli Stati non sono in grado di assicurare.
Ciò che tuttavia si potrebbe opporre all'ottimismo cosmopolitico espresso da questi autori —ottimismo circa la realizzabilità di uno 'Stato di diritto' planetario e di una 'cittadinanza cosmopolitica'— è la sempre più netta divisione del mondo in un ristretto numero di paesi ricchi e potenti e in un gran numero di paesi poveri e deboli. In questa situazione non sembra possibile dar vita a un ordinamento giuridico internazionale che non sia rigidamente gerarchico e che non neghi il principio stesso della eguaglianza formale dei soggetti di diritto, come fa la Carta delle Nazioni Unite quando istituisce la figura dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e attribuisce loro un diritto di veto.
In secondo luogo, non sembra possibile attribuire carattere obbligatorio ad una giurisdizione incaricata di interpretare e applicare il diritto internazionale senza affidarne l'esecuzione coattiva alla forza militare delle grandi potenze, sottraendole quindi, di fatto o di diritto, alla competenza di tale giurisdizione. Infine, appare poco ragionevole affidare la tutela internazionale dei diritti soggettivi a strutture di potere autoritarie e non rappresentative come sono oggi le istituzioni internazionali, a cominciare dalle Nazioni Unite.
Ma c'è un secondo antagonismo fra cittadinanza e 'diritti cosmopolitici', probabilmente ancora più drammatico e carico di futuro, che viene espresso dalla lotta per l'acquisto delle cittadinanze 'pregiate' dell'Occidente da parte di grandi masse di soggetti appartenenti ad aree continentali senza sviluppo e con un elevato tasso demografico. Questa lotta assume la forma della migrazione di massa di soggetti economicamente e politicamente molto deboli —soggetti senza cittadinanza e senza diritti— ma che esercitano, grazie alla loro infiltrazione capillare negli interstizi delle cittadinanze occidentali, una irresistibile pressione per l'eguaglianza. La replica da parte delle cittadinanze minacciate da questa pressione 'cosmopolitica' —in termini sia di rigetto o di espulsione violenta degli immigrati, sia di negazione pratica della loro qualità di soggetti civili— sta scrivendo e sembra destinata a scrivere nei prossimi decenni le pagine più luttuose della storia civile politica dei paesi occidentali.
È la stessa nozione marshalliana di cittadinanza che viene sfidata dalla richiesta di un numero crescente di soggetti non appartenenti alle maggioranze autoctone occidentali di diventare cittadini pleno jure dei paesi dove vivono e lavorano. Si tratta di una sfida molto rischiosa perché la stessa dialettica di 'cittadino' e 'straniero' viene alterata dalla pressione di fenomeni migratori difficilmente controllabili. Ed è una sfida dirompente perché tende a far esplodere sia gli elementi della costruzione 'prepolitica' della cittadinanza, sia i processi sociologici di formazione delle identità collettive, sia infine le stesse strutture dello Stato di diritto. A queste strutture viene rivolta la pressante richiesta di riconoscimento multietnico non solo dei diritti individuali dei cittadini immigrati, ma delle stesse identità etniche di minoranze caratterizzate da una notevole distanza culturale rispetto alle cittadinanze ospitanti.
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Conclusione
La consapevolezza che la storia futura dell'Occidente del mondo può ancora riservarci inedite manifestazioni di irrazionalità collettiva dovrebbe indurci un atteggiamento di grande realismo. La situazione del pianeta è più che mai allarmante: si pensi a fenomeni come la normalizzazione della guerra, la diffusione delle armi di distruzione di massa, incluse le armi nucleari, il terrorismo globale, lo andate migratorie, l'esplosione dei particolarismi etnici, gli squilibri ecologici, l'asimmetria crescente nella distribuzione internazionale del potere e della ricchezza, la stessa crisi dell'istituzioni liberal-democratiche occidentali.
La consapevolezza che la storia futura dell'Occidente del mondo può ancora riservarci inedite manifestazioni di irrazionalità collettiva dovrebbe indurci un atteggiamento di grande realismo. La situazione del pianeta è più che mai allarmante: si pensi a fenomeni come la normalizzazione della guerra, la diffusione delle armi di distruzione di massa, incluse le armi nucleari, il terrorismo globale, lo andate migratorie, l'esplosione dei particolarismi etnici, gli squilibri ecologici, l'asimmetria crescente nella distribuzione internazionale del potere e della ricchezza, la stessa crisi dell'istituzioni liberal-democratiche occidentali.
L'intero pianeta rischia di divenire, come ha scritto Serge Latouche, un "pianeta dei naufraghi". E nel naufragio rischiano di affondare, dopo la grandiosa utopia novecentesca dell'emancipazione socialista e comunista, anche le illusioni del progetto illuministico della 'modernità', a cominciare dai valori e dai diritti della cittadinanza. Non dovremmo comunque dimenticare che i diritti, tutte le specie di diritti e non solo i diritti di cittadinanza, sono in sostanza delle semplici "opportunità condizionali" —per usare l'espressione di Barbalet— o, se si preferisce il lessico di Arnold Gehlen, delle Entlastungen, delle protesi sociali che consentono ai cittadini di rafforzare le loro aspettative sociali e di lottare con qualche maggiore possibilità di successo per l'affermazione di valori individuali e collettivi. E sono protesi probabilmente necessarie, ma certo non sufficienti per l'affermazione dell'ampia serie di valori che oggi, entro una grande varietà di ambiti funzionali, sono in tensione con le logiche tecnologico-informatiche ormai operanti a livello globale. In breve, i diritti soggettivi non sono che l'altra faccia del conflitto in una società sempre più complessa: vivono e muoiono con esso.
2 commenti:
La globalizzazione turbocapitalista si muove lungo due assi: la liberalizzazione del movimento dei capitali e della forza lavoro. Queste convergono a tenaglia nella distruzione dei diritti civili e sociali della popolazione bianca dei Paesi ex-sviluppati. La destra glissa sulla prima faccia del mostro; la sinistra trasforma la seconda nella propria bandiera. Col risultato che l’impero statunitense trova ovunque il proprio principale bacino di consenso a sinistra, e che ciò che resta delle classi operaie vota in massa (e con piena ragione) Le Pen, Farage, Trump e Alternative fuer Deutschland.
Questa dialettica si ritrova anche nei sinistri più avveduti come voi e Zolo. Il quale vede bene – come non accorgersene? – che l’invasione extracomunitaria è destinata a sgretolare ogni forma di coesione identaria, di spirito nazionale e di senso della cittadinanza (premessa della partecipazione democratica) nei Paesi che infetta, riducendo la cittadinanza a una specie di acquisizione di un certificato di residenza e annegando ogni appartenenza nell’indistinto del melting pot: *precisamente la nozione che ne ha il liberismo*. “Si tratta di una sfida molto rischiosa perché… l’immigrazione fa esplodere sia gli elementi della costruzione prepolitica della cittadinanza, sia i processi sociologici di formazione delle identità collettive, sia infine le stesse strutture dello Stato di diritto”.
Eh già, ma mentre nel caso del movimento dei capitali la sfida per Zolo consisteva nel boicottare lo sfacelo liberista, non appena si parla di movimento della forza-lavoro il discorso si capovolge come un calzino e la sfida diventa quella di portarne a compimento l’opera distruttiva: “una condizione non razzista della cittadinanza esigerebbe che a tutti gli stranieri che vivono e lavorano in Europa venisse concessa la piena cittadinanza in tempi rapidi e senza condizioni capestro”. Ecco la parola finale del grande avversario del sistema, patrocinatore di un ritorno alle dialettiche degli stati nazionali (per ridere).
Ricordo di aver presentato a Salerno con la Società Filosofica Italiana,alla presenza dell'Autore,il libro "L'ideologia occidentale: la giustizia dei vincitori da Norimberga a Bagdhdad" il 29 maggio 2006. Fu un grande successo di pubblico cui seguì un importante dibattito. Nello De Bellis,MLP Salerno
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