[ 20 agosto ]
«Care compagne e cari compagni, innanzitutto grazie a tutte ed a tutti voi che avete reso possibile quest’Assemblea Costituente Nazionale.
Abbiamo dato una grande prova di noi, dei comunisti, ed abbiamo avuto modo di cogliere questo anche nel fatto che gli organi di stampa e di informazione, che si sono occupati molto di noi in questi giorni, non hanno avuto nessuno spazio per fare la caricatura della scelta politica che compiamo.
E’ un progetto, il nostro, alla cui realizzazione siamo impegnati da tempo e che oggi registra un decisivo passaggio.
Ciò che abbiamo alle spalle è un lungo e difficile lavoro collettivo, evidenziato dall’appello per la costituzione dell’Associazione per la Ricostruzione del Partito Comunista, dalle numerose iniziative dalla stessa promosse in tante parti del paese, dalle tante assemblee costituenti, territoriali e regionali, che hanno preceduto quest’assise. Un lavoro importante, in crescendo, che ha consentito a tante e tanti di partecipare, di confrontarsi, di essere parte attiva nel processo e, conseguentemente, di portare quota parte del merito della sua riuscita. Al lavoro collettivo dobbiamo proporci di ispirarci sempre, anche e soprattutto in questo processo di ricostruzione del partito comunista, non abbiamo bisogno di una figura salvifica, abbiamo bisogno di tutte e tutti noi, ed è questo è il segnale che dobbiamo dare.
Oggi, noi, con la messa in campo del Partito Comunista Italiano, determiniamo le condizioni per guardare avanti, per costruire un futuro grande come una storia, la nostra, come sintetizza lo slogan posto alla base di quest’ assemblea.
Siamo pienamente consapevoli che si tratta di una ripartenza, di un processo, il cui esito è tutt’altro che scontato e, quindi, non di un punto di arrivo. Restiamo convinti che ciò sia necessario, oltre che possibile. Abbiamo avuto modo di sottolinearlo a più riprese, la questione della ricostruzione, in Italia, del Partito Comunista, è quanto mai attuale perché è sottolineata da quello che accade, dal perché accade, come evidenziato dalla relazione introduttiva, dai numerosi interventi che si sono succeduti in queste tre giornate.
Dopo la caduta del muro, con tutto il suo carico simbolico, con il crollo dell’esperienza del cosiddetto socialismo reale, le cui ragioni abbiamo analizzato, anche attraverso il documento politico del quale si è discusso, si discute, il capitalismo, propostosi come trionfante, ha imperversato per oltre un ventennio.
Pace, democrazia, sviluppo, prosperità erano date per scontate. Una colossale bugia: il prodotto di tale processo è sotto gli occhi di tutti.
Mi limito al riguardo ad alcune considerazioni, che danno anche il senso della linea che ci siamo dati e che tenacemente dobbiamo perseguire.
La prima attiene alla situazione internazionale, sempre più preoccupante, alla spinta imperialista, sempre più evidente.
L’espansionismo ad est della NATO, emblematica la vicenda dell’Ucraina, che ha rotto gli equilibri geopolitici europei e non solo, l’unilateralismo rivendicato e praticato dagli USA, l’esito, drammatico, delle destabilizzazioni mascherate da “primavera araba”, la guerra all’Iraq, alla Libia, alla Siria ( che dura da oltre quattro anni ed ha prodotto centinaia di migliaia di morti, oltre cinque milioni di sfollati) dicono tanto. E tanto dice la creazione del califfato tra Siria ed Iraq ad opera dell’ISIS, la spinta dello stesso in Libia. Il terrorismo islamico è un dramma speculare all’imperialismo, “ l’ennesimo mostro sfuggito di mano”, per dirla con le parole di Hillary Clinton. Tanto dice l’irrisolta questione palestinese, quanto sta accadendo nello Yemen, quanto continua ad accadere in Afghanistan, e l’elenco potrebbe continuare. Oltre vent’anni di conflitti, sempre più ampi, sanguinosi, lontani dal risolversi, ed il rischio di una guerra su larga scala è sempre più forte.
Del resto per il capitalismo, un sistema che per svilupparsi abbisogna di distruggere ciò che costruisce, “finché c’è guerra c’è speranza”, per dirla con il titolo di un film di successo. Non stupisca la scarsa o nulla risposta del movimento pacifista, su di esso continua a pesare quanto accaduto in passato, anche l’ambiguità espressa in diverse occasioni dalla stessa sinistra. Noi non abbiamo dubbi: no alla guerra, no alla NATO, una realtà che si connota sempre più come il braccio armato dell’imperialismo euro atlantico a guida americana, e che costa al nostro paese oltre 85 milioni di euro al giorno. Così come sottolineiamo l’importanza dei cosiddetti BRICS ( Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) al fine di una dimensione multipolare di contro all’unilateralismo statunitense.
La seconda considerazione concerne le conseguenze che tale processo ha avuto ed ha sull’assetto istituzionale, democratico, sociale generale, di tanti Paesi, dell’Europa, segnatamente dell’Italia.
Tutto ciò, infatti, ha piegato e piega le istituzioni, ai diversi livelli, agli interessi di parte, i processi decisionali si sono spostati verso la finanza, i mercati, svuotando sovranità e democrazia di stati nazionali e di organizzazioni internazionali ( dov’è finita l’ONU nonostante il tanto che accade?). Sostituita da un simulacro è progressivamente venuta meno la democrazia partecipata, tutto è delegato ad una cerchia sempre più ristretta, ad una persona, al demiurgo di turno. Si è affermato il primato della governabilità, un ordinamento basato sul decisionismo, sul consenso plebiscitario.
Il libero mercato, la competitività, sono divenute le parole d’ordine e ad esse tutto deve essere subordinato.
Non è forse questo, ad esempio, il senso del TTIP, contro il quale ci battiamo, in discussione tra USA ed UE in questi giorni, che ha come obbiettivo quello di armonizzare, cioè di rendere priva di contrasti, la normativa in materia di salute, di lavoro, di sicurezza, ecc? Nessuno, in buona fede, può affermare che tale processo avverrebbe allineando le diverse realtà al livello più garantista per il mondo del lavoro, per le masse popolari, che non si tradurrebbe in ancora più libertà d’azione per i grandi monopoli. Il processo di Unione Europea non ha portato all’Europa unita dei lavoratori, dei popoli, bensì ad un’Europa preda della finanza, i trattati sui quali essa si regge hanno creato una struttura sovra nazionale che consegna i poteri decisionali alla Commissione Europea, alla Banca Centrale Europea. Oggi, a fronte dell’esito del referendum tenutosi giovedì scorso nel Regno Unito pro o contro l’Unione Europea, la questione del se e come cambiare quest’ Europa essenzialmente finanziaria, assai poco economica, per nulla sociale è centrale.
Ridiscutere, ridefinire i trattati europei è per tanti la questione dirimente, quella sulla quale si gioca il senso dell’appartenenza o meno alla stessa. Per molti ciò che serve è “più Europa”, un ruolo di governo reale in capo al Parlamento Europeo, un esercito europeo, e così via. Noi non consideriamo quest’Europa la nostra Europa, la consideriamo irriformabile, e la recente esperienza della Grecia dice molto al riguardo. Siamo indisponibili ad un’ulteriore cessione di sovranità, lavoriamo per un’alternativa, e nel documento politico in discussione diciamo molto al riguardo.
Non possiamo essere noi a fare la guardia ad un bidone vuoto!
Mauro Alboresi [nella foto] è stato eletto segretario nazionale del Partito Comunista d'Italia il quale, già a partire dal simbolo, si considera nella tradizione del defunto P.C.I.
Siamo lieti di comunicare ai lettori che Mauro Alboresi parteciperà al III. Forum internazionale no euro.
Il Partito Comunista d'Italia si è costituito nel giugno scorso, con un congresso svoltosi a Bologna.
Pubblichiamo d'appresso l'intervento con cui Alboresi ha chiuso il congresso. Ognuno potrà farsi un'idea dei punti di forza come di debolezza di questo nuovo partito sorto dopo lo scioglimento del Partito dei Comunisti Italiani (Diliberto ricordate?)
«Care compagne e cari compagni, innanzitutto grazie a tutte ed a tutti voi che avete reso possibile quest’Assemblea Costituente Nazionale.
Abbiamo dato una grande prova di noi, dei comunisti, ed abbiamo avuto modo di cogliere questo anche nel fatto che gli organi di stampa e di informazione, che si sono occupati molto di noi in questi giorni, non hanno avuto nessuno spazio per fare la caricatura della scelta politica che compiamo.
E’ un progetto, il nostro, alla cui realizzazione siamo impegnati da tempo e che oggi registra un decisivo passaggio.
Ciò che abbiamo alle spalle è un lungo e difficile lavoro collettivo, evidenziato dall’appello per la costituzione dell’Associazione per la Ricostruzione del Partito Comunista, dalle numerose iniziative dalla stessa promosse in tante parti del paese, dalle tante assemblee costituenti, territoriali e regionali, che hanno preceduto quest’assise. Un lavoro importante, in crescendo, che ha consentito a tante e tanti di partecipare, di confrontarsi, di essere parte attiva nel processo e, conseguentemente, di portare quota parte del merito della sua riuscita. Al lavoro collettivo dobbiamo proporci di ispirarci sempre, anche e soprattutto in questo processo di ricostruzione del partito comunista, non abbiamo bisogno di una figura salvifica, abbiamo bisogno di tutte e tutti noi, ed è questo è il segnale che dobbiamo dare.
Oggi, noi, con la messa in campo del Partito Comunista Italiano, determiniamo le condizioni per guardare avanti, per costruire un futuro grande come una storia, la nostra, come sintetizza lo slogan posto alla base di quest’ assemblea.
Siamo pienamente consapevoli che si tratta di una ripartenza, di un processo, il cui esito è tutt’altro che scontato e, quindi, non di un punto di arrivo. Restiamo convinti che ciò sia necessario, oltre che possibile. Abbiamo avuto modo di sottolinearlo a più riprese, la questione della ricostruzione, in Italia, del Partito Comunista, è quanto mai attuale perché è sottolineata da quello che accade, dal perché accade, come evidenziato dalla relazione introduttiva, dai numerosi interventi che si sono succeduti in queste tre giornate.
Dopo la caduta del muro, con tutto il suo carico simbolico, con il crollo dell’esperienza del cosiddetto socialismo reale, le cui ragioni abbiamo analizzato, anche attraverso il documento politico del quale si è discusso, si discute, il capitalismo, propostosi come trionfante, ha imperversato per oltre un ventennio.
Pace, democrazia, sviluppo, prosperità erano date per scontate. Una colossale bugia: il prodotto di tale processo è sotto gli occhi di tutti.
Mi limito al riguardo ad alcune considerazioni, che danno anche il senso della linea che ci siamo dati e che tenacemente dobbiamo perseguire.
La prima attiene alla situazione internazionale, sempre più preoccupante, alla spinta imperialista, sempre più evidente.
L’espansionismo ad est della NATO, emblematica la vicenda dell’Ucraina, che ha rotto gli equilibri geopolitici europei e non solo, l’unilateralismo rivendicato e praticato dagli USA, l’esito, drammatico, delle destabilizzazioni mascherate da “primavera araba”, la guerra all’Iraq, alla Libia, alla Siria ( che dura da oltre quattro anni ed ha prodotto centinaia di migliaia di morti, oltre cinque milioni di sfollati) dicono tanto. E tanto dice la creazione del califfato tra Siria ed Iraq ad opera dell’ISIS, la spinta dello stesso in Libia. Il terrorismo islamico è un dramma speculare all’imperialismo, “ l’ennesimo mostro sfuggito di mano”, per dirla con le parole di Hillary Clinton. Tanto dice l’irrisolta questione palestinese, quanto sta accadendo nello Yemen, quanto continua ad accadere in Afghanistan, e l’elenco potrebbe continuare. Oltre vent’anni di conflitti, sempre più ampi, sanguinosi, lontani dal risolversi, ed il rischio di una guerra su larga scala è sempre più forte.
Del resto per il capitalismo, un sistema che per svilupparsi abbisogna di distruggere ciò che costruisce, “finché c’è guerra c’è speranza”, per dirla con il titolo di un film di successo. Non stupisca la scarsa o nulla risposta del movimento pacifista, su di esso continua a pesare quanto accaduto in passato, anche l’ambiguità espressa in diverse occasioni dalla stessa sinistra. Noi non abbiamo dubbi: no alla guerra, no alla NATO, una realtà che si connota sempre più come il braccio armato dell’imperialismo euro atlantico a guida americana, e che costa al nostro paese oltre 85 milioni di euro al giorno. Così come sottolineiamo l’importanza dei cosiddetti BRICS ( Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) al fine di una dimensione multipolare di contro all’unilateralismo statunitense.
La seconda considerazione concerne le conseguenze che tale processo ha avuto ed ha sull’assetto istituzionale, democratico, sociale generale, di tanti Paesi, dell’Europa, segnatamente dell’Italia.
Tutto ciò, infatti, ha piegato e piega le istituzioni, ai diversi livelli, agli interessi di parte, i processi decisionali si sono spostati verso la finanza, i mercati, svuotando sovranità e democrazia di stati nazionali e di organizzazioni internazionali ( dov’è finita l’ONU nonostante il tanto che accade?). Sostituita da un simulacro è progressivamente venuta meno la democrazia partecipata, tutto è delegato ad una cerchia sempre più ristretta, ad una persona, al demiurgo di turno. Si è affermato il primato della governabilità, un ordinamento basato sul decisionismo, sul consenso plebiscitario.
Il libero mercato, la competitività, sono divenute le parole d’ordine e ad esse tutto deve essere subordinato.
Non è forse questo, ad esempio, il senso del TTIP, contro il quale ci battiamo, in discussione tra USA ed UE in questi giorni, che ha come obbiettivo quello di armonizzare, cioè di rendere priva di contrasti, la normativa in materia di salute, di lavoro, di sicurezza, ecc? Nessuno, in buona fede, può affermare che tale processo avverrebbe allineando le diverse realtà al livello più garantista per il mondo del lavoro, per le masse popolari, che non si tradurrebbe in ancora più libertà d’azione per i grandi monopoli. Il processo di Unione Europea non ha portato all’Europa unita dei lavoratori, dei popoli, bensì ad un’Europa preda della finanza, i trattati sui quali essa si regge hanno creato una struttura sovra nazionale che consegna i poteri decisionali alla Commissione Europea, alla Banca Centrale Europea. Oggi, a fronte dell’esito del referendum tenutosi giovedì scorso nel Regno Unito pro o contro l’Unione Europea, la questione del se e come cambiare quest’ Europa essenzialmente finanziaria, assai poco economica, per nulla sociale è centrale.
Ridiscutere, ridefinire i trattati europei è per tanti la questione dirimente, quella sulla quale si gioca il senso dell’appartenenza o meno alla stessa. Per molti ciò che serve è “più Europa”, un ruolo di governo reale in capo al Parlamento Europeo, un esercito europeo, e così via. Noi non consideriamo quest’Europa la nostra Europa, la consideriamo irriformabile, e la recente esperienza della Grecia dice molto al riguardo. Siamo indisponibili ad un’ulteriore cessione di sovranità, lavoriamo per un’alternativa, e nel documento politico in discussione diciamo molto al riguardo.
Non possiamo essere noi a fare la guardia ad un bidone vuoto!
Non proponiamo una chiusura nazionalista, non siamo di destra, non crediamo che il motore della storia sia il rapporto, il conflitto tra Stati. Noi proponiamo una diversa visione della cooperazione economica e politica, ragioniamo di un piano “B”, di un’alternativa rispetto a questa dimensione euro-atlantica, ed in tale ottica affrontiamo la stessa questione dell’Euro, da tanti definita “ moneta senza Stato”. Facciamo ciò ricercando la massima unità d’azione, proponendoci di aggregare il massimo possibile delle forze a livello europeo.
Sotto l’attacco del capitalismo si è assistito anche alla devastante trasformazione della società italiana, nella sua struttura, nei suoi caratteri fondanti.
E’ precipitata la condizione materiale di tanta parte della popolazione, i diritti conquistati nei decenni precedenti, non casualmente, ma attraverso la lotta del movimento operaio, di un Partito Comunista Italiano motore di tale processo, sono stati messi in discussione, disattesi. La condizione del lavoro è stata sacrificata sull’altare della centralità dell’impresa, la precarietà ne è divenuta il tratto distintivo, e la precarietà del lavoro è diventata ben presto precarietà del vivere quotidiano, condannando un’intera generazione all’assenza di futuro.
Altro che la classe operaia va in paradiso, essa è precipitata all’inferno!
Il cosiddetto “pacchetto Treu”, la cosiddetta “legge Biagi” ed in ultimo, in ordine di tempo, non certamente per portata, il cosiddetto”job act”, rappresentano i passaggi decisivi di tale processo. Chi pensava a quest’ultimo come alla chiusura del cerchio si sbagliava. L’attacco alla contrattazione nazionale, suggerito, unitamente alla privatizzazione di ciò che resta di pubblico, dal Fondo Monetario Internazionale all’Italia, e che ha già trovato attenzione nel governo Renzi, è all’ordine del giorno. La scelta di Federmeccanica, di Confindustria, di superare il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, il suo carattere unificante, solidale, il suo essere strumento di redistribuzione della ricchezza prodotta, del profitto ( emblematica la vicenda del settore metalmeccanico in lotta, al quale va tutta la nostra solidarietà) non è quindi casuale. Essa è funzionale a ripristinare nel nostro Paese, così come è in tanti contesti, quel rapporto duale, profondamente iniquo, tra lavoratore e datore di lavoro, meglio sarebbe dire padrone, contro il quale si affermò lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori, che in questi anni, altrettanto non casualmente, è stato oggetto di un attacco tale da averne profondamente svuotato senso e portata. In relazione a ciò, in un rapporto di causa/effetto, potremmo parlarne a lungo, si evidenzia la stessa crisi di rappresentanza e di rappresentatività del sindacalismo italiano. La lotta della CGT, dei lavoratori francesi, ai quali va tutta la nostra solidarietà, contro le politiche del lavoro di Hollande, che copia Renzi, semplicemente perchè entrambi si dicono di sinistra ma sono intrisi di cultura liberista e fanno politiche di destra, di contro al poco o nulla a suo tempo messo in campo al riguardo dal sindacalismo italiano, dalla stessa CGIL (non ci sfugge il ruolo da “sola contro tutti” avuto dalla FIOM) dice molto. Così come molto dice, a proposito di quest’ultimo, l’atteggiamento avuto nei confronti della cosiddetta “riforma Fornero” della previdenza. Considero assurdo che la bandiera del no ad essa, anzichè dal sindacato e da gran parte della sinistra, sia stata impugnata dalla Lega Nord, che su di essa ha costruito le condizioni per rilanciarsi. E’ il passaggio dalla contrattazione alla concertazione, derubricata presto dai governi succedutisi alla guida del paese in mero dialogo sociale, che occorre analizzare. La concertazione, infatti, per le caratteristiche che le sono proprie, finisce con l’assumere la neutralità delle questioni, dei problemi, e quindi l’obbligatorietà delle risposte, con il rinunciare ad un punto di vista alternativo, alla sua affermazione, ad essere un sindacato di classe. Abbiamo bisogno di un sindacato che si propone di intervenire sulle cause che determinano i processi, non che si limita a ridurne, ad ammortizzarne gli effetti, in un processo senza fine, come dimostrano i tanti esempi possibili. Noi sosteniamo la campagna referendaria, le proposte messe in campo dalla CGIL in materia di lavoro, appoggiamo le lotte dei lavoratori, ci battiamo per unificare la classe lavoratrice, perchè i sindacati tornino ad essere quel soggetto che abbiamo conosciuto.
Per fare questo serve stare nel mondo del lavoro, nel sindacato, da comunisti, ed a ciò dovremo dedicare molta attenzione in prospettiva. Le politiche liberiste imperano, il Governo Renzi, che muove in assoluta continuità con quelli presieduti da Letta, Monti, Berlusconi che l’hanno preceduto, garantisce tali politiche perché è espressione, oggi, del blocco di potere dominante, ne è il garante.
E in Italia si pone sempre più una “questione democratica”.
La Costituzione è stata progressivamente sottoposta ad un duro attacco ( quanti possibili esempi al riguardo) e lo è ancora. Le riforme, meglio sarebbe dire controriforme, affermatesi e/o prospettate, lo evidenziano. Per restare a questi ultimi anni si pensi alle Province, che esistono ancora, sotto forma di enti di secondo grado, ma i rappresentanti delle stesse non sono più eletti dai cittadini, così come non lo sono i sindaci delle Città Metropolitane. Si pensi, soprattutto, al Senato, oggetto della cosiddetta “riforma Boschi”, al rapporto tra questa e la nuova legge elettorale, il cosiddetto ”Italicum”, che decorrerà dal prossimo primo luglio. Con essa, il Senato, pur ridotto nel numero dei suoi esponenti, con funzioni del tutto discutibili, per tanti del tutto inutili, rimane, ma ai cittadini è tolta la possibilità di eleggere chi ne deve fare parte. Che la Ministro Boschi citi a sostegno della propria riforma le posizioni di Togliatti e di Berlinguer a favore del superamento del bicameralismo non solo è falso, è vergognoso, perché quanto prospettato dalla stessa non è tale, e soprattutto perché a ciò si accompagnava un sistema elettorale proporzionale puro, l’idea di un Parlamento che evidenziava l’articolazione della società italiana, il conflitto in essa presente, e che attraverso le sue dinamiche determinava di volta in volta gli equilibri. Il cosiddetto “ Italicum” è invece una pessima legge elettorale, peggio della cosiddetta “ legge truffa” di antica memoria, poiché quella, almeno, assegnava il premio di maggioranza al soggetto politico che aveva conseguito il 50% più uno dei voti, mentre questa, attraverso il meccanismo del doppio turno proposto, finisce con il consegnare il 55% dei seggi ad una forza politica attestatasi sul 25% dei voti, una forza in grado di definire anche gli organi di garanzia. Occorre avere consapevolezza del fatto che Renzi ha portato a compimento il processo involutivo conseguente allo scioglimento del PCI e prospetta il “ partito della nazione”.
Il Partito Democratico non è di sinistra, dichiara di sinistra politiche che in realtà sono di destra.
Siamo di fronte ad un processo irreversibile, e la cosiddetta “sinistra interna del PD” dovrebbe trarne le conseguenze, anziché dibattersi inutilmente, stucchevolmente ( sentire Bersani che afferma, dopo avere approvato provvedimenti come il job act, come la riforma del Senato, che non consentirà una determinata riforma delle banche di credito cooperativo, francamente fa cadere le braccia). Noi dobbiamo parlare a tanta parte della base del PD, non a tutta, ai tanti che in essa si considerano di sinistra, addirittura comunisti ( nonostante il dichiararsi tali senza fare parte di un partito comunista sia una sorta di contraddizione in termini), non al PD in quanto partito, perché esso è un nostro avversario politico.
Noi siamo alternativi al Partito Democratico!
La terza considerazione è relativa al perché tutto ciò è potuto accadere.
La risposta sta nel fatto che il capitalismo, in tutti questi anni, ha potuto muovere senza un reale contrasto, senza una reale alternativa in campo. Tutto ciò che è accaduto ed accade, in particolare in Europa ed in Italia, evidenzia la globale sconfitta della sinistra. La crisi della stessa, nelle sue diverse articolazioni, è da tempo un dato oggettivo. Lo svuotamento progressivo della sinistra socialista, socialdemocratica, anche e soprattutto nelle sue evoluzioni , si pensi a Blair ieri, ad Hollande oggi, è emblematico. Essa è stata sempre più permeata da un punto di vista “altro”, ed attraverso ciò il liberismo, inteso come estremizzazione della logica capitalista, ha finito con il fare premio. Non è casuale che tutti i provvedimenti assunti a livello europeo abbiano avuto il voto favorevole dei gruppi parlamentari europei liberale, popolare, socialista. La crisi della sinistra riformista, che ha in gran parte assunto la logica delle compatibilità, delle riforme condivise, della neutralità dei problemi, e quindi dell’obbligatorietà delle scelte ( emblematico l’approdo ai cosiddetti “governi tecnici”, alle grandi coalizioni, etc.) è insieme causa/effetto dell’affermarsi di questo capitalismo. Un sistema che registra la sua affermazione più importante, più ancora che nelle profonde trasformazioni strutturali e nel primato dell’economia e della finanza sulla politica, nel senso comune, di massa, circa la vita, improntato al pensiero unico, a quel pensiero unico.
La cosiddetta “ sinistra radicale” è risultata in tanta parte poco capace di misurarsi con il nuovo, di rappresentarlo, di darvi respiro (chi ricorda più Tsipras?). La crisi dei partiti comunisti ha investito tutti i paesi del vecchio continente e si è imposta anch’essa all’attenzione generale, e su di essa, anche con il documento politico posto alla base di questa assemblea, abbiamo detto, diciamo molto. Se questo, schematicamente, è ciò che è accaduto ed accade, se quelle sottolineate sono le ragioni alla base di ciò, ecco perchè oggi, che il capitalismo è in crisi ( una crisi strutturale, di sistema, manifestatasi nel 2008 e le cui ragioni sono note), non è in campo una alternativa forte, credibile, sentita come tale e, quindi, la politica che ne è all’origine non cambia, anzi, la crisi è usata a tal fine, l’obbiettivo resta quello di farne pagare il prezzo ai ceti popolari, in tanta parte del mondo, in Europa ( emblematico, ancora una volta, il caso della Grecia), in Italia.
Cosa fare è la questione.
La risposta a tale crisi, possibile, oltre che necessaria, non può essere cercata dentro le compatibilità impostesi. La questione del più o meno rigore, del più o meno flessibilità, nelle politiche europee, degli stati membri, è poco più che uno stucchevole balletto. Essa va ricercata fuori da esse, prospettando una reale alternativa. Questa è la sfida: dare una prospettiva alla pressante richiesta di cambiamento in atto, che la drammaticità della crisi amplifica. Noi non ci arrendiamo, dalla crisi si deve, si può uscire da sinistra, nonostante tanto di quello che accade, in Europa ed in Italia, evidenzi la tendenza di una uscita a destra dalla stessa (la riproposizione dei nazionalismi, l’aumento della xenofobia, la ripresa del razzismo, la costruzione di muri e barriere sono di ciò emblematici). Per ritornare ad essere percepiti come utili alla vita delle persone, per ricostruirsi, occorre riassumere la materialità dei problemi, la centralità del lavoro, riconnettersi con esse, ridarvi speranza, futuro. La sconfitta con la quale facciamo i conti è una sconfitta politica e culturale assieme ed è da lì che occorre ripartire. Essa è parte, in particolare nel nostro Paese, della crisi della politica nel suo insieme, causa/effetto della crisi etica e morale nella quale da molti anni lo stesso è precipitato. Da tempo, nel comune sentire, la parola “politica” è divenuta una parola vuota, priva di senso, dalla quale rifuggire, nonostante alla “politica alta” di un tempo, capace di suscitare speranza, di indicare una strada, si debba tanto ( e qui ritorna il senso, profondo, dell’esperienza dei comunisti in Italia, del tanto che hanno saputo dare attraverso la loro azione di governo dei Comuni, delle Regioni). Ciò è dipeso dal venire meno di tale funzione, dall’autoreferenzialità che le sue forme hanno via via assunto, dal fatto che la classe dirigente in tanta parte è divenuta ceto, è sempre più percepita come altro da sé: quel “sono tutti uguali” fa male, ma è divenuta convinzione di tanti. Ciò che dicono le ultime elezioni amministrative è emblematico: il centrodestra, pur attraversato da molteplici contraddizioni ed in crisi di leadership, se si presenta unito è ancora competitivo; il PD, sconfitto, registra la fine di quella “luna di miele” con l’elettorato riconducibile alle ultime elezioni europee; la sinistra, nelle sue diverse articolazioni, in diversi casi è oltre la dimensione della mera testimonianza ma registra risultati molto al di sotto delle aspettative; il M5S, nonostante i molti limiti e le contraddizioni che lo caratterizzano, è il vincitore della tornata elettorale e per tanti rappresenta il soggetto in grado di rompere con la situazione data.
No, non sono, non siamo tutti uguali.
La distinzione tra destra e sinistra ha un senso, eccome, così come lo ha la distinzione tra l’essere di sinistra e l’essere comunisti, e noi siamo comunisti! Lo siamo perché propugniamo un’alternativa di sistema, perché non ci accontentiamo di una pur importante alternativa di governo, perché siamo consapevoli che la sinistra, anche quella che si dice di alternativa, con poche eccezioni, si dichiara al più antiliberista, mentre noi siamo anche e soprattutto anticapitalisti. Siamo consapevoli che il processo contro riformatore, reazionario in atto, si è potuto affermare nel tempo a fronte del venire meno di un forte e radicato partito comunista, in grado di mantenere intatta la capacità di analisi e di critica degli assetti capitalistici esistenti, di prospettare un’alternativa di sistema, ed al contempo di lavorare quotidianamente per la difesa delle classi subalterne, dando alle loro istanze la necessaria sponda politica ed istituzionale. Nella nostra realtà il conflitto è tutt’altro che assente, il problema sta nel fatto che esso si esprime sovente in maniera spontanea, non organizzata , che non riesce a darsi uno sbocco politico adeguato. Proporsi di ricostruire il Partito Comunista, nel quadro ampio della sinistra di classe, di un fronte democratico contro la guerra, quindi, non è uno slogan, è una necessità. E’ una linea priva di un’alternativa credibile se si ha l’obbiettivo della pace, dell’uguaglianza, del superamento delle varie forme di sfruttamento vigenti, se si vuole rimettere in campo una prospettiva, immaginare un futuro che non sia il progressivo precipitare della condizione dei più, che dopo questi lunghi anni all’insegna del mercato si ritrovano più poveri, insicuri, soli.
Noi non ci rassegniamo.
Ci proponiamo la costruzione di una forza politica comunista unificata, non chiusa nel settarismo, né protesa a rincorrere l’opportunismo delle mode correnti. Alla deriva elettoralistica abbiamo già dato, alle prossime scadenze elettorali vogliamo esserci innanzitutto con il nostro simbolo. Vogliamo essere una forza comunista capace di confrontarsi con la sinistra, con le forze sane del Paese, senza rinunciare alla propria sovranità sulle questioni di fondo, tesa a ricercare la massima sintesi unitaria possibile. Lo abbiamo detto e lo ripetiamo: siamo per la massima unità a sinistra, ma propugniamo forme unitarie che non richiedono alle sue componenti la rinuncia all’autonomia politica ed organizzativa.
Si ad un soggetto unitario, no ad un soggetto unico!
La proposta che avanziamo è di dare vita ad un fronte unitario della sinistra, ed in relazione ad essa, nelle prossime settimane, ricercheremo il più ampio confronto possibile. Puntiamo a ricostruire un soggetto comunista al passo con i tempi (non intendiamo “scimmiottare” il PCI che abbiamo conosciuto), che sappia fare tesoro della parte migliore della storia del movimento comunista italiano ed internazionale.
Per noi il motore della storia è e resta il conflitto tra capitale e lavoro.
Vogliamo quindi un partito comunista consapevole della sua funzione: portare nello scontro sociale e nella dialettica politica una visione generale delle contraddizioni dello sviluppo capitalistico, rappresentare la prospettiva storica del socialismo e del comunismo quale risposta alla crisi di civiltà nella quale sta precipitando il capitalismo. Puntiamo ad un soggetto strutturato, capace di raccogliere organicamente le forze attorno ad un progetto politico ed organizzativo chiaro sul piano dell’identità, dei riferimenti internazionali, degli interessi di classe che intende rappresentare, dei simboli, delle scelte strategiche, etc. Per fare ciò non serve dare spazio all’eclettismo e l’esperienza, pur importante, del PRC lo evidenzia, in quanto la questione della rifondazione comunista, del cosa significhi essere comunisti nelle condizioni date, è ancora tutta lì, irrisolta. Serve una dimensione ideale ed ideologica strutturata, strettamente connessa con quella programmatica, ed anche relativamente ad essa diciamo molto, ad esempio attraverso la tesi 20 “proposte per un programma minimo” del documento politico in discussione.
Quanto contenuto in essa rappresenta il cosa dobbiamo fare da domani.
Possiamo riassumere con uno slogan questo programma minimo: più Stato, meno mercato!
Abbiamo chiara la necessità di rilanciare il ruolo dello Stato nell’economia e nella finanza. Ricordiamo quando Ciampi ci spiegava la necessità di privatizzare il sistema bancario italiano, oggi abbiamo chiaro quali sono stati i risultati di tale politica ed anche su quel terreno vogliamo invertire la rotta. Dobbiamo sottolineare con forza, per riconnetterci con il mondo del lavoro, che la questione dei diritti del lavoro è la questione decisiva. Apprezziamo molto quando, anche a sinistra, si sottolinea questo o quel diritto sociale, per il quale noi stessi ci siamo battuti, ci battiamo, ma siamo convinti che se non si affermano i diritti del lavoro non c’è nessun diritto sociale che tiene. Con questo progetto noi, da domani, ci impegnamo su alcune questioni precise sul piano del’iniziativa politica, e su queste puntiamo ad avere, a guadagnarci, l’attenzione degli organi di stampa e di informazione, dell’opinione pubblica.
Noi siamo per una sanità pubblica, gratuita, di qualità, e diciamo no alla compartecipazione alla spesa da parte dell’utenza, no ai ticket!
Vogliamo riaffermare il diritto alla salute, lo stesso non può essere subordinato alle condizioni economiche dei singolo, la sanità deve essere pagata con la fiscalità generale. Noi diciamo che occorre una scuola pubblica, gratuita, di qualità: non è una buona scuola quella che ci hanno proposto, tutt’altro! Noi vogliamo che la scuola, l’università, la cultura ritornino ad essere un diritto per tutti e non una questione per pochi, di censo. Tutti debbono potere aspirare ad essere parte della classe dirigente di domani, non possiamo consentire che l’attuale riproduca semplicemente se stessa.
Questa dimensione ideale, ideologica, programmatica, ci chiama ad un grosso sforzo relativamente a ciò che dobbiamo essere, a ciò che deve essere il Partito, la sua struttura.
Abbiamo sottolineato la necessità di fare leva sull’insieme, sul’apporto di tutte e di tutti, e la sfida dell’intellettuale collettivo la dobbiamo raccogliere sino in fondo, a partire da noi. Serve mettere in campo un Partito Comunista sorretto dal senso profondo del centralismo democratico, che non intendiamo, né dobbiamo intendere come “qualcuno decide e gli altri eseguono”, perchè non è questo il centralismo democratico. Non consentirò mai che si decida a maggioranza all’interno degli organismi dirigenti per tacitare una posizione diversa. Pertanto lo sforzo di tutti, di tutte, deve essere quello di ricercare, attraverso il confronto più ampio e partecipato possibile, una sintesi possibile, condivisibile che, questa sì, diviene vincolante per tutte, per tutti.
Questa deve essere la nostra bussola!
Siamo entrati in questo processo costituente provenendo da diverse esperienze, ed è stato normale, inevitabile, per una parte, continuare a parlare di noi e loro, perchè dovevamo trovare la sintesi, l’amalgama tra esse. Con quest’assemblea abbiamo dimostrato di essere riusciti a farlo, e quindi, da oggi, dobbiamo parlare solo ed unicamente di noi! Lavoriamo per un partito nel quale, assunti i “fondamentali “, gli avversari, i nemici, sono fuori, non tra le sue fila! Serve un partito che sappia fare leva sempre più sull’intelligenza collettiva, capace di ridare protagonismo, di coinvolgere chi non si rassegna. Siamo costretti, oggi, ad essere un partito di quadri e di militanti, ma coltiviamo l’ambizione di potere esercitare presto un’ influenza di massa, di divenire un partito di massa.
Ecco perché la costituente per la ricostruzione del Partito Comunista. Noi non guardiamo indietro ma avanti, il nostro non è un punto di arrivo ma di ripartenza. Facciamo tale scelta perché sono i fatti che dimostrano, per dirla con uno slogan conosciuto, che “ non c’è lotta non c’è conquista senza un forte Partito Comunista”».
Sotto l’attacco del capitalismo si è assistito anche alla devastante trasformazione della società italiana, nella sua struttura, nei suoi caratteri fondanti.
E’ precipitata la condizione materiale di tanta parte della popolazione, i diritti conquistati nei decenni precedenti, non casualmente, ma attraverso la lotta del movimento operaio, di un Partito Comunista Italiano motore di tale processo, sono stati messi in discussione, disattesi. La condizione del lavoro è stata sacrificata sull’altare della centralità dell’impresa, la precarietà ne è divenuta il tratto distintivo, e la precarietà del lavoro è diventata ben presto precarietà del vivere quotidiano, condannando un’intera generazione all’assenza di futuro.
Altro che la classe operaia va in paradiso, essa è precipitata all’inferno!
Il cosiddetto “pacchetto Treu”, la cosiddetta “legge Biagi” ed in ultimo, in ordine di tempo, non certamente per portata, il cosiddetto”job act”, rappresentano i passaggi decisivi di tale processo. Chi pensava a quest’ultimo come alla chiusura del cerchio si sbagliava. L’attacco alla contrattazione nazionale, suggerito, unitamente alla privatizzazione di ciò che resta di pubblico, dal Fondo Monetario Internazionale all’Italia, e che ha già trovato attenzione nel governo Renzi, è all’ordine del giorno. La scelta di Federmeccanica, di Confindustria, di superare il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, il suo carattere unificante, solidale, il suo essere strumento di redistribuzione della ricchezza prodotta, del profitto ( emblematica la vicenda del settore metalmeccanico in lotta, al quale va tutta la nostra solidarietà) non è quindi casuale. Essa è funzionale a ripristinare nel nostro Paese, così come è in tanti contesti, quel rapporto duale, profondamente iniquo, tra lavoratore e datore di lavoro, meglio sarebbe dire padrone, contro il quale si affermò lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori, che in questi anni, altrettanto non casualmente, è stato oggetto di un attacco tale da averne profondamente svuotato senso e portata. In relazione a ciò, in un rapporto di causa/effetto, potremmo parlarne a lungo, si evidenzia la stessa crisi di rappresentanza e di rappresentatività del sindacalismo italiano. La lotta della CGT, dei lavoratori francesi, ai quali va tutta la nostra solidarietà, contro le politiche del lavoro di Hollande, che copia Renzi, semplicemente perchè entrambi si dicono di sinistra ma sono intrisi di cultura liberista e fanno politiche di destra, di contro al poco o nulla a suo tempo messo in campo al riguardo dal sindacalismo italiano, dalla stessa CGIL (non ci sfugge il ruolo da “sola contro tutti” avuto dalla FIOM) dice molto. Così come molto dice, a proposito di quest’ultimo, l’atteggiamento avuto nei confronti della cosiddetta “riforma Fornero” della previdenza. Considero assurdo che la bandiera del no ad essa, anzichè dal sindacato e da gran parte della sinistra, sia stata impugnata dalla Lega Nord, che su di essa ha costruito le condizioni per rilanciarsi. E’ il passaggio dalla contrattazione alla concertazione, derubricata presto dai governi succedutisi alla guida del paese in mero dialogo sociale, che occorre analizzare. La concertazione, infatti, per le caratteristiche che le sono proprie, finisce con l’assumere la neutralità delle questioni, dei problemi, e quindi l’obbligatorietà delle risposte, con il rinunciare ad un punto di vista alternativo, alla sua affermazione, ad essere un sindacato di classe. Abbiamo bisogno di un sindacato che si propone di intervenire sulle cause che determinano i processi, non che si limita a ridurne, ad ammortizzarne gli effetti, in un processo senza fine, come dimostrano i tanti esempi possibili. Noi sosteniamo la campagna referendaria, le proposte messe in campo dalla CGIL in materia di lavoro, appoggiamo le lotte dei lavoratori, ci battiamo per unificare la classe lavoratrice, perchè i sindacati tornino ad essere quel soggetto che abbiamo conosciuto.
Per fare questo serve stare nel mondo del lavoro, nel sindacato, da comunisti, ed a ciò dovremo dedicare molta attenzione in prospettiva. Le politiche liberiste imperano, il Governo Renzi, che muove in assoluta continuità con quelli presieduti da Letta, Monti, Berlusconi che l’hanno preceduto, garantisce tali politiche perché è espressione, oggi, del blocco di potere dominante, ne è il garante.
E in Italia si pone sempre più una “questione democratica”.
La Costituzione è stata progressivamente sottoposta ad un duro attacco ( quanti possibili esempi al riguardo) e lo è ancora. Le riforme, meglio sarebbe dire controriforme, affermatesi e/o prospettate, lo evidenziano. Per restare a questi ultimi anni si pensi alle Province, che esistono ancora, sotto forma di enti di secondo grado, ma i rappresentanti delle stesse non sono più eletti dai cittadini, così come non lo sono i sindaci delle Città Metropolitane. Si pensi, soprattutto, al Senato, oggetto della cosiddetta “riforma Boschi”, al rapporto tra questa e la nuova legge elettorale, il cosiddetto ”Italicum”, che decorrerà dal prossimo primo luglio. Con essa, il Senato, pur ridotto nel numero dei suoi esponenti, con funzioni del tutto discutibili, per tanti del tutto inutili, rimane, ma ai cittadini è tolta la possibilità di eleggere chi ne deve fare parte. Che la Ministro Boschi citi a sostegno della propria riforma le posizioni di Togliatti e di Berlinguer a favore del superamento del bicameralismo non solo è falso, è vergognoso, perché quanto prospettato dalla stessa non è tale, e soprattutto perché a ciò si accompagnava un sistema elettorale proporzionale puro, l’idea di un Parlamento che evidenziava l’articolazione della società italiana, il conflitto in essa presente, e che attraverso le sue dinamiche determinava di volta in volta gli equilibri. Il cosiddetto “ Italicum” è invece una pessima legge elettorale, peggio della cosiddetta “ legge truffa” di antica memoria, poiché quella, almeno, assegnava il premio di maggioranza al soggetto politico che aveva conseguito il 50% più uno dei voti, mentre questa, attraverso il meccanismo del doppio turno proposto, finisce con il consegnare il 55% dei seggi ad una forza politica attestatasi sul 25% dei voti, una forza in grado di definire anche gli organi di garanzia. Occorre avere consapevolezza del fatto che Renzi ha portato a compimento il processo involutivo conseguente allo scioglimento del PCI e prospetta il “ partito della nazione”.
Il Partito Democratico non è di sinistra, dichiara di sinistra politiche che in realtà sono di destra.
Siamo di fronte ad un processo irreversibile, e la cosiddetta “sinistra interna del PD” dovrebbe trarne le conseguenze, anziché dibattersi inutilmente, stucchevolmente ( sentire Bersani che afferma, dopo avere approvato provvedimenti come il job act, come la riforma del Senato, che non consentirà una determinata riforma delle banche di credito cooperativo, francamente fa cadere le braccia). Noi dobbiamo parlare a tanta parte della base del PD, non a tutta, ai tanti che in essa si considerano di sinistra, addirittura comunisti ( nonostante il dichiararsi tali senza fare parte di un partito comunista sia una sorta di contraddizione in termini), non al PD in quanto partito, perché esso è un nostro avversario politico.
Noi siamo alternativi al Partito Democratico!
La terza considerazione è relativa al perché tutto ciò è potuto accadere.
La risposta sta nel fatto che il capitalismo, in tutti questi anni, ha potuto muovere senza un reale contrasto, senza una reale alternativa in campo. Tutto ciò che è accaduto ed accade, in particolare in Europa ed in Italia, evidenzia la globale sconfitta della sinistra. La crisi della stessa, nelle sue diverse articolazioni, è da tempo un dato oggettivo. Lo svuotamento progressivo della sinistra socialista, socialdemocratica, anche e soprattutto nelle sue evoluzioni , si pensi a Blair ieri, ad Hollande oggi, è emblematico. Essa è stata sempre più permeata da un punto di vista “altro”, ed attraverso ciò il liberismo, inteso come estremizzazione della logica capitalista, ha finito con il fare premio. Non è casuale che tutti i provvedimenti assunti a livello europeo abbiano avuto il voto favorevole dei gruppi parlamentari europei liberale, popolare, socialista. La crisi della sinistra riformista, che ha in gran parte assunto la logica delle compatibilità, delle riforme condivise, della neutralità dei problemi, e quindi dell’obbligatorietà delle scelte ( emblematico l’approdo ai cosiddetti “governi tecnici”, alle grandi coalizioni, etc.) è insieme causa/effetto dell’affermarsi di questo capitalismo. Un sistema che registra la sua affermazione più importante, più ancora che nelle profonde trasformazioni strutturali e nel primato dell’economia e della finanza sulla politica, nel senso comune, di massa, circa la vita, improntato al pensiero unico, a quel pensiero unico.
La cosiddetta “ sinistra radicale” è risultata in tanta parte poco capace di misurarsi con il nuovo, di rappresentarlo, di darvi respiro (chi ricorda più Tsipras?). La crisi dei partiti comunisti ha investito tutti i paesi del vecchio continente e si è imposta anch’essa all’attenzione generale, e su di essa, anche con il documento politico posto alla base di questa assemblea, abbiamo detto, diciamo molto. Se questo, schematicamente, è ciò che è accaduto ed accade, se quelle sottolineate sono le ragioni alla base di ciò, ecco perchè oggi, che il capitalismo è in crisi ( una crisi strutturale, di sistema, manifestatasi nel 2008 e le cui ragioni sono note), non è in campo una alternativa forte, credibile, sentita come tale e, quindi, la politica che ne è all’origine non cambia, anzi, la crisi è usata a tal fine, l’obbiettivo resta quello di farne pagare il prezzo ai ceti popolari, in tanta parte del mondo, in Europa ( emblematico, ancora una volta, il caso della Grecia), in Italia.
Cosa fare è la questione.
La risposta a tale crisi, possibile, oltre che necessaria, non può essere cercata dentro le compatibilità impostesi. La questione del più o meno rigore, del più o meno flessibilità, nelle politiche europee, degli stati membri, è poco più che uno stucchevole balletto. Essa va ricercata fuori da esse, prospettando una reale alternativa. Questa è la sfida: dare una prospettiva alla pressante richiesta di cambiamento in atto, che la drammaticità della crisi amplifica. Noi non ci arrendiamo, dalla crisi si deve, si può uscire da sinistra, nonostante tanto di quello che accade, in Europa ed in Italia, evidenzi la tendenza di una uscita a destra dalla stessa (la riproposizione dei nazionalismi, l’aumento della xenofobia, la ripresa del razzismo, la costruzione di muri e barriere sono di ciò emblematici). Per ritornare ad essere percepiti come utili alla vita delle persone, per ricostruirsi, occorre riassumere la materialità dei problemi, la centralità del lavoro, riconnettersi con esse, ridarvi speranza, futuro. La sconfitta con la quale facciamo i conti è una sconfitta politica e culturale assieme ed è da lì che occorre ripartire. Essa è parte, in particolare nel nostro Paese, della crisi della politica nel suo insieme, causa/effetto della crisi etica e morale nella quale da molti anni lo stesso è precipitato. Da tempo, nel comune sentire, la parola “politica” è divenuta una parola vuota, priva di senso, dalla quale rifuggire, nonostante alla “politica alta” di un tempo, capace di suscitare speranza, di indicare una strada, si debba tanto ( e qui ritorna il senso, profondo, dell’esperienza dei comunisti in Italia, del tanto che hanno saputo dare attraverso la loro azione di governo dei Comuni, delle Regioni). Ciò è dipeso dal venire meno di tale funzione, dall’autoreferenzialità che le sue forme hanno via via assunto, dal fatto che la classe dirigente in tanta parte è divenuta ceto, è sempre più percepita come altro da sé: quel “sono tutti uguali” fa male, ma è divenuta convinzione di tanti. Ciò che dicono le ultime elezioni amministrative è emblematico: il centrodestra, pur attraversato da molteplici contraddizioni ed in crisi di leadership, se si presenta unito è ancora competitivo; il PD, sconfitto, registra la fine di quella “luna di miele” con l’elettorato riconducibile alle ultime elezioni europee; la sinistra, nelle sue diverse articolazioni, in diversi casi è oltre la dimensione della mera testimonianza ma registra risultati molto al di sotto delle aspettative; il M5S, nonostante i molti limiti e le contraddizioni che lo caratterizzano, è il vincitore della tornata elettorale e per tanti rappresenta il soggetto in grado di rompere con la situazione data.
No, non sono, non siamo tutti uguali.
La distinzione tra destra e sinistra ha un senso, eccome, così come lo ha la distinzione tra l’essere di sinistra e l’essere comunisti, e noi siamo comunisti! Lo siamo perché propugniamo un’alternativa di sistema, perché non ci accontentiamo di una pur importante alternativa di governo, perché siamo consapevoli che la sinistra, anche quella che si dice di alternativa, con poche eccezioni, si dichiara al più antiliberista, mentre noi siamo anche e soprattutto anticapitalisti. Siamo consapevoli che il processo contro riformatore, reazionario in atto, si è potuto affermare nel tempo a fronte del venire meno di un forte e radicato partito comunista, in grado di mantenere intatta la capacità di analisi e di critica degli assetti capitalistici esistenti, di prospettare un’alternativa di sistema, ed al contempo di lavorare quotidianamente per la difesa delle classi subalterne, dando alle loro istanze la necessaria sponda politica ed istituzionale. Nella nostra realtà il conflitto è tutt’altro che assente, il problema sta nel fatto che esso si esprime sovente in maniera spontanea, non organizzata , che non riesce a darsi uno sbocco politico adeguato. Proporsi di ricostruire il Partito Comunista, nel quadro ampio della sinistra di classe, di un fronte democratico contro la guerra, quindi, non è uno slogan, è una necessità. E’ una linea priva di un’alternativa credibile se si ha l’obbiettivo della pace, dell’uguaglianza, del superamento delle varie forme di sfruttamento vigenti, se si vuole rimettere in campo una prospettiva, immaginare un futuro che non sia il progressivo precipitare della condizione dei più, che dopo questi lunghi anni all’insegna del mercato si ritrovano più poveri, insicuri, soli.
Noi non ci rassegniamo.
Ci proponiamo la costruzione di una forza politica comunista unificata, non chiusa nel settarismo, né protesa a rincorrere l’opportunismo delle mode correnti. Alla deriva elettoralistica abbiamo già dato, alle prossime scadenze elettorali vogliamo esserci innanzitutto con il nostro simbolo. Vogliamo essere una forza comunista capace di confrontarsi con la sinistra, con le forze sane del Paese, senza rinunciare alla propria sovranità sulle questioni di fondo, tesa a ricercare la massima sintesi unitaria possibile. Lo abbiamo detto e lo ripetiamo: siamo per la massima unità a sinistra, ma propugniamo forme unitarie che non richiedono alle sue componenti la rinuncia all’autonomia politica ed organizzativa.
Si ad un soggetto unitario, no ad un soggetto unico!
La proposta che avanziamo è di dare vita ad un fronte unitario della sinistra, ed in relazione ad essa, nelle prossime settimane, ricercheremo il più ampio confronto possibile. Puntiamo a ricostruire un soggetto comunista al passo con i tempi (non intendiamo “scimmiottare” il PCI che abbiamo conosciuto), che sappia fare tesoro della parte migliore della storia del movimento comunista italiano ed internazionale.
Per noi il motore della storia è e resta il conflitto tra capitale e lavoro.
Vogliamo quindi un partito comunista consapevole della sua funzione: portare nello scontro sociale e nella dialettica politica una visione generale delle contraddizioni dello sviluppo capitalistico, rappresentare la prospettiva storica del socialismo e del comunismo quale risposta alla crisi di civiltà nella quale sta precipitando il capitalismo. Puntiamo ad un soggetto strutturato, capace di raccogliere organicamente le forze attorno ad un progetto politico ed organizzativo chiaro sul piano dell’identità, dei riferimenti internazionali, degli interessi di classe che intende rappresentare, dei simboli, delle scelte strategiche, etc. Per fare ciò non serve dare spazio all’eclettismo e l’esperienza, pur importante, del PRC lo evidenzia, in quanto la questione della rifondazione comunista, del cosa significhi essere comunisti nelle condizioni date, è ancora tutta lì, irrisolta. Serve una dimensione ideale ed ideologica strutturata, strettamente connessa con quella programmatica, ed anche relativamente ad essa diciamo molto, ad esempio attraverso la tesi 20 “proposte per un programma minimo” del documento politico in discussione.
Quanto contenuto in essa rappresenta il cosa dobbiamo fare da domani.
Possiamo riassumere con uno slogan questo programma minimo: più Stato, meno mercato!
Abbiamo chiara la necessità di rilanciare il ruolo dello Stato nell’economia e nella finanza. Ricordiamo quando Ciampi ci spiegava la necessità di privatizzare il sistema bancario italiano, oggi abbiamo chiaro quali sono stati i risultati di tale politica ed anche su quel terreno vogliamo invertire la rotta. Dobbiamo sottolineare con forza, per riconnetterci con il mondo del lavoro, che la questione dei diritti del lavoro è la questione decisiva. Apprezziamo molto quando, anche a sinistra, si sottolinea questo o quel diritto sociale, per il quale noi stessi ci siamo battuti, ci battiamo, ma siamo convinti che se non si affermano i diritti del lavoro non c’è nessun diritto sociale che tiene. Con questo progetto noi, da domani, ci impegnamo su alcune questioni precise sul piano del’iniziativa politica, e su queste puntiamo ad avere, a guadagnarci, l’attenzione degli organi di stampa e di informazione, dell’opinione pubblica.
Noi siamo per una sanità pubblica, gratuita, di qualità, e diciamo no alla compartecipazione alla spesa da parte dell’utenza, no ai ticket!
Vogliamo riaffermare il diritto alla salute, lo stesso non può essere subordinato alle condizioni economiche dei singolo, la sanità deve essere pagata con la fiscalità generale. Noi diciamo che occorre una scuola pubblica, gratuita, di qualità: non è una buona scuola quella che ci hanno proposto, tutt’altro! Noi vogliamo che la scuola, l’università, la cultura ritornino ad essere un diritto per tutti e non una questione per pochi, di censo. Tutti debbono potere aspirare ad essere parte della classe dirigente di domani, non possiamo consentire che l’attuale riproduca semplicemente se stessa.
Questa dimensione ideale, ideologica, programmatica, ci chiama ad un grosso sforzo relativamente a ciò che dobbiamo essere, a ciò che deve essere il Partito, la sua struttura.
Abbiamo sottolineato la necessità di fare leva sull’insieme, sul’apporto di tutte e di tutti, e la sfida dell’intellettuale collettivo la dobbiamo raccogliere sino in fondo, a partire da noi. Serve mettere in campo un Partito Comunista sorretto dal senso profondo del centralismo democratico, che non intendiamo, né dobbiamo intendere come “qualcuno decide e gli altri eseguono”, perchè non è questo il centralismo democratico. Non consentirò mai che si decida a maggioranza all’interno degli organismi dirigenti per tacitare una posizione diversa. Pertanto lo sforzo di tutti, di tutte, deve essere quello di ricercare, attraverso il confronto più ampio e partecipato possibile, una sintesi possibile, condivisibile che, questa sì, diviene vincolante per tutte, per tutti.
Questa deve essere la nostra bussola!
Siamo entrati in questo processo costituente provenendo da diverse esperienze, ed è stato normale, inevitabile, per una parte, continuare a parlare di noi e loro, perchè dovevamo trovare la sintesi, l’amalgama tra esse. Con quest’assemblea abbiamo dimostrato di essere riusciti a farlo, e quindi, da oggi, dobbiamo parlare solo ed unicamente di noi! Lavoriamo per un partito nel quale, assunti i “fondamentali “, gli avversari, i nemici, sono fuori, non tra le sue fila! Serve un partito che sappia fare leva sempre più sull’intelligenza collettiva, capace di ridare protagonismo, di coinvolgere chi non si rassegna. Siamo costretti, oggi, ad essere un partito di quadri e di militanti, ma coltiviamo l’ambizione di potere esercitare presto un’ influenza di massa, di divenire un partito di massa.
Ecco perché la costituente per la ricostruzione del Partito Comunista. Noi non guardiamo indietro ma avanti, il nostro non è un punto di arrivo ma di ripartenza. Facciamo tale scelta perché sono i fatti che dimostrano, per dirla con uno slogan conosciuto, che “ non c’è lotta non c’è conquista senza un forte Partito Comunista”».
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