[ 23 agosto ]
Il divertente caso del Sole 24 Ore
Tra i motivi che intristiscono ogni anno la fine d'agosto c'è anche la rituale sagra degli economisti dello zerovirgola. Costoro non vedono l'ora che la luce dell'estate inizi a spegnersi per ricominciare a propinarci le loro ricette. Sempre le stesse, sempre smentite dai fatti.
D'altronde il loro lavoro è di far da spalla ai veri padroni, tanto quelli che stanno nei consigli d'amministrazione, quanto quelli che abitano i palazzi della politica. Le cose filavano lisce, e perfino noiose, finché la crisi è venuta a scuotere innate certezze.
E siccome da tempo i loro conti non tornano, il rito di fine estate si è fatto un po' più interessante. Non perché abbiano abbandonato i loro dogmi. Tutto sì, ma questo mai. Ma perché le loro contorsioni ci parlano di una manifesta crisi teorica. Crisi però mai riconosciuta, con effetti comici talvolta davvero esilaranti.
Avete in mente quando gli economisti mainstream - quelli che il compianto Costanzo Preve chiamava "economisti con la pipa" - ci dicevano seri, quando non serissimi, che era necessaria l'austerità, tagliare la spesa, aumentare la competitività e così avremmo avuto la crescita, la fine della disoccupazione e la felicità eterna?
Ecco, costoro non ne hanno azzeccata una. Ma sono sempre lì, perché in fondo il loro compito non era quello di centrare le previsioni, bensì quello di annunciare un futuro radioso a condizione che si accettasse un duro presente di sacrifici.
Il problema è che ormai questo giochino non incanta più nessuno. Mario Monti ci è stato davvero d'aiuto: sempre sia lodato! Ecco allora che i messaggi hanno iniziato a farsi più contorti. Adesso non si può più parlare apertamente di sacrifici, ma solo di crescita, sviluppo, investimenti, eccetera. Ma siccome siamo appunto alla fine dell'estate, la finanziaria è alle porte, ed i commissari europei hanno già indossato le lenti d'ordinanza, ecco che questi generici obiettivi devono sposarsi con deficit e debito programmato e concordato con gli occhiuti signori di cui sopra.
Siamo così tornati agli eccitanti zerovirgola da cui siamo partiti, riportandoci di fatto ad un labirinto senza uscita in cui si pronunciano frasi e si fanno discorsi senza senso. Ragionamenti senza senso perché auto-contradditori financo nella forma, figuriamoci nella sostanza! E' in questo labirinto che si aggirano i decisori politici, a partire da Renzi. Ma i loro consiglieri economici non sono da meno. Le vecchie frasi fatte di un tempo non funzionano più, quelle nuove ancora meno.
La prova di quanto sia grande la confusione anche sotto il cielo dei dominanti ci viene dal Sole 24 Ore del 21 agosto. Il confronto tra i pezzi di due editorialisti del giornale (Marco Fortis e Dino Pesole) è davvero istruttivo. Vediamo.
Dice Fortis che l'andamento del Pil italiano non sarebbe così male se non fosse che la spesa pubblica italiana è troppo bassa. Oh perbacco! Per dimostrare questa tesi, il consigliere di Renzi (e membro del Cda della Rai) fa un'operazione abbastanza semplice. Prende il periodo che va dall'ultimo trimestre del 2014 (l'ultimo per l'Italia con il segno meno) al primo trimestre 2016 e, dopo aver visto l'andamento del pil in alcuni paesi europei in questo periodo, calcola quanto ha inciso sulle variazioni di ogni paese la dinamica della spesa pubblica nazionale.
Il risultato - ancorché facilmente prevedibile - è comunque interessante: chi più spende (normalmente in deficit) più cresce.
Questo l'aumento del pil nei quindici mesi considerati: Spagna 4,34%, Germania 2,02%, Francia 1,95%, Austria 1,90%, Olanda 1,66%, Portogallo 1,47%, Italia 1,37%. Nello stesso periodo la spesa pubblica su base annua ha avuto i seguenti incrementi: Germania 18 miliardi, Spagna 9,2 miliardi, Francia 8,8 miliardi, Olanda 1,9 miliardi. E l'Italia? 28 milioni. Milioni, non miliardi...
Dunque siamo virtuosi, anzi virtuosissimi! Peccato si tratti di una virtù che crea decrescita e disoccupazione. Ecco, secondo Fortis, quale sarebbe stata la dinamica del pil senza l'effetto dell'incremento della spesa pubblica: Spagna 3,45%, Francia 1,53%, Austria 1,43%, Olanda 1,37%, Italia 1,37%, Germania 1,36%, Portogallo 1,22%. Tolta la Spagna, che necessiterebbe di un discorso a parte, difficile non notare l'appiattirsi di questi dati, che comunque indicano la modestia del rimbalzino del pil nell'intera eurozona nel periodo considerato. Ancor più difficile non notare il piccolo sorpasso italiano sulla virtuosissima Germania.
Ora, il renziano Fortis avrà voluto dimostrare in qualche modo l'innocenza del suo amico fiorentino nell'asfittico andamento dell'economia nazionale, ma il suo ragionamento non fa una pecca. Anzi, se ne fa una - che egli stesso riconosce - sta nell'aver sottostimato il peso della spesa pubblica, visto che egli ha considerato solo l'apporto diretto al pil (1 miliardo di spesa = 1 miliardo di pil) e non i suoi effetti moltiplicativi che notoriamente ci sono.
Dunque, viva la spesa pubblica! Sennonché, cambiando pagina del giornale di Confindustria, ci imbattiamo nell'editoriale di Dino Pesole, il quale ci dice che bisogna ridurre le tasse - quelle di lorsignori s'intende, ma questo va da se - senza però venir meno al dogma della riduzione del debito. Quindi, per Pesole, ai tagli alle tasse deve corrispondere un'equivalente, se non addirittura maggiore, taglio alla spesa pubblica, che egli quantifica in "almeno 10-12 miliardi".
In questo modo l'autore si mette la coscienza a posto: le tasse vanno ridotte come richiede il suo datore di lavoro, la spesa pubblica pure tanto lì pagheranno solo i poveracci, mentre agli eurocrati di Bruxelles verranno consegnati dei graziosi numerini a conferma che siamo servi. Ovviamente le riduzioni fiscali di cui si parla, e che il governo ha già in programma, sono quelle che interessano ai padroni del vapore: riduzione di 3,5 punti dell'Ires, ampliamento del super-ammortamento a vantaggio delle imprese, estensione della tassazione agevolata sui premi di produzione, mantenimento della decontribuzione per i neoassunti. Dell'annunciata riduzione dell'Irpef, che interesserebbe anche i comuni mortali, non si parla invece più.
Se indicare le tasse da ridurre può essere facile, assai più arduo indicare le spese da falcidiare. Lorsignori a volte diventano pudici e preferiscono non parlarne. Non sta bene annunciare gli ennesimi tagli alla scuola e alla sanità, nuovi ticket da pagare, nuovi attacchi alle pensioni, altri trucchi da inventare per rimpiazzare i soldini messi in tasca agli industriali. Roba che riguarda i poveri, che a loro fanno un certo che...
Sul punto Pesole è del tutto reticente. Ma la cifra minima di 10-12 miliardi rimane. Coi dogmi europei non si scherza. Resta il fatto che la sua manovra andrebbe spiegata a Fortis. Dodici miliardi di tagli, considerando un moltiplicatore di 1,4 come stima il Fondo Monetario Internazionale, danno un calo del pil di 16,8 miliardi, cioè un meno 1% e spiccioli. Alla faccia della crescita! La verità è che taglio della spesa ed aumento del pil sono (almeno in una fase come questa) due cose che non possono stare assieme. Dunque, niente botte piena e moglie ubriaca. Pesole se ne faccia una ragione e scelga tra l'invecchiamento del vino e l'incremento del tasso alcolemico della moglie.
Come la mettiamo allora con la divertente inconciliabilità delle due tesi esposte sulle rosee pagine del Sole? Uno dice giustamente che la spesa pubblica è un carburante imprescindibile per la ripresa, l'altro afferma che bisogna continuare a tagliarla. Entrambi vorrebbero ovviamente la crescita, ma se il secondo fa aperta professione di fede eurista come Dio Euro comanda, il primo se ne astiene, ma senza enunciare una critica esplicita al mostro domiciliato a Bruxelles, salvo renzianamente rivendicare una «valutazione meno ragioneristica degli spazi di flessibilità». Insomma: due atteggiamenti diversi, ma un'identica reticenza nell'andare al cuore del problema.
Se in termini logici la contraddizione tra i due editorialisti del Sole 24 Ore appare insanabile, il loro confuso ragionare ha una sola spiegazione. I due sanno bene come stanno le cose. Sanno che la loro dottrina neliberista ha fallito, come pure il loro credo austeritario. Sanno che non si esce dalla crisi con gli zerovirgola della famosa "flessibilità" sulla quale gioca Renzi. Di più: sanno anche che l'Europa è agli sgoccioli, ma se riescono probabilmente a pensarlo, proprio non ce la fanno a dirlo. Neppure Fortis. D'altronde, «il coraggio, chi non ce l'ha non se lo può dare».
Tra i motivi che intristiscono ogni anno la fine d'agosto c'è anche la rituale sagra degli economisti dello zerovirgola. Costoro non vedono l'ora che la luce dell'estate inizi a spegnersi per ricominciare a propinarci le loro ricette. Sempre le stesse, sempre smentite dai fatti.
D'altronde il loro lavoro è di far da spalla ai veri padroni, tanto quelli che stanno nei consigli d'amministrazione, quanto quelli che abitano i palazzi della politica. Le cose filavano lisce, e perfino noiose, finché la crisi è venuta a scuotere innate certezze.
E siccome da tempo i loro conti non tornano, il rito di fine estate si è fatto un po' più interessante. Non perché abbiano abbandonato i loro dogmi. Tutto sì, ma questo mai. Ma perché le loro contorsioni ci parlano di una manifesta crisi teorica. Crisi però mai riconosciuta, con effetti comici talvolta davvero esilaranti.
Avete in mente quando gli economisti mainstream - quelli che il compianto Costanzo Preve chiamava "economisti con la pipa" - ci dicevano seri, quando non serissimi, che era necessaria l'austerità, tagliare la spesa, aumentare la competitività e così avremmo avuto la crescita, la fine della disoccupazione e la felicità eterna?
Ecco, costoro non ne hanno azzeccata una. Ma sono sempre lì, perché in fondo il loro compito non era quello di centrare le previsioni, bensì quello di annunciare un futuro radioso a condizione che si accettasse un duro presente di sacrifici.
Il problema è che ormai questo giochino non incanta più nessuno. Mario Monti ci è stato davvero d'aiuto: sempre sia lodato! Ecco allora che i messaggi hanno iniziato a farsi più contorti. Adesso non si può più parlare apertamente di sacrifici, ma solo di crescita, sviluppo, investimenti, eccetera. Ma siccome siamo appunto alla fine dell'estate, la finanziaria è alle porte, ed i commissari europei hanno già indossato le lenti d'ordinanza, ecco che questi generici obiettivi devono sposarsi con deficit e debito programmato e concordato con gli occhiuti signori di cui sopra.
Siamo così tornati agli eccitanti zerovirgola da cui siamo partiti, riportandoci di fatto ad un labirinto senza uscita in cui si pronunciano frasi e si fanno discorsi senza senso. Ragionamenti senza senso perché auto-contradditori financo nella forma, figuriamoci nella sostanza! E' in questo labirinto che si aggirano i decisori politici, a partire da Renzi. Ma i loro consiglieri economici non sono da meno. Le vecchie frasi fatte di un tempo non funzionano più, quelle nuove ancora meno.
La prova di quanto sia grande la confusione anche sotto il cielo dei dominanti ci viene dal Sole 24 Ore del 21 agosto. Il confronto tra i pezzi di due editorialisti del giornale (Marco Fortis e Dino Pesole) è davvero istruttivo. Vediamo.
Dice Fortis che l'andamento del Pil italiano non sarebbe così male se non fosse che la spesa pubblica italiana è troppo bassa. Oh perbacco! Per dimostrare questa tesi, il consigliere di Renzi (e membro del Cda della Rai) fa un'operazione abbastanza semplice. Prende il periodo che va dall'ultimo trimestre del 2014 (l'ultimo per l'Italia con il segno meno) al primo trimestre 2016 e, dopo aver visto l'andamento del pil in alcuni paesi europei in questo periodo, calcola quanto ha inciso sulle variazioni di ogni paese la dinamica della spesa pubblica nazionale.
Il risultato - ancorché facilmente prevedibile - è comunque interessante: chi più spende (normalmente in deficit) più cresce.
Questo l'aumento del pil nei quindici mesi considerati: Spagna 4,34%, Germania 2,02%, Francia 1,95%, Austria 1,90%, Olanda 1,66%, Portogallo 1,47%, Italia 1,37%. Nello stesso periodo la spesa pubblica su base annua ha avuto i seguenti incrementi: Germania 18 miliardi, Spagna 9,2 miliardi, Francia 8,8 miliardi, Olanda 1,9 miliardi. E l'Italia? 28 milioni. Milioni, non miliardi...
Dunque siamo virtuosi, anzi virtuosissimi! Peccato si tratti di una virtù che crea decrescita e disoccupazione. Ecco, secondo Fortis, quale sarebbe stata la dinamica del pil senza l'effetto dell'incremento della spesa pubblica: Spagna 3,45%, Francia 1,53%, Austria 1,43%, Olanda 1,37%, Italia 1,37%, Germania 1,36%, Portogallo 1,22%. Tolta la Spagna, che necessiterebbe di un discorso a parte, difficile non notare l'appiattirsi di questi dati, che comunque indicano la modestia del rimbalzino del pil nell'intera eurozona nel periodo considerato. Ancor più difficile non notare il piccolo sorpasso italiano sulla virtuosissima Germania.
Ora, il renziano Fortis avrà voluto dimostrare in qualche modo l'innocenza del suo amico fiorentino nell'asfittico andamento dell'economia nazionale, ma il suo ragionamento non fa una pecca. Anzi, se ne fa una - che egli stesso riconosce - sta nell'aver sottostimato il peso della spesa pubblica, visto che egli ha considerato solo l'apporto diretto al pil (1 miliardo di spesa = 1 miliardo di pil) e non i suoi effetti moltiplicativi che notoriamente ci sono.
Dunque, viva la spesa pubblica! Sennonché, cambiando pagina del giornale di Confindustria, ci imbattiamo nell'editoriale di Dino Pesole, il quale ci dice che bisogna ridurre le tasse - quelle di lorsignori s'intende, ma questo va da se - senza però venir meno al dogma della riduzione del debito. Quindi, per Pesole, ai tagli alle tasse deve corrispondere un'equivalente, se non addirittura maggiore, taglio alla spesa pubblica, che egli quantifica in "almeno 10-12 miliardi".
In questo modo l'autore si mette la coscienza a posto: le tasse vanno ridotte come richiede il suo datore di lavoro, la spesa pubblica pure tanto lì pagheranno solo i poveracci, mentre agli eurocrati di Bruxelles verranno consegnati dei graziosi numerini a conferma che siamo servi. Ovviamente le riduzioni fiscali di cui si parla, e che il governo ha già in programma, sono quelle che interessano ai padroni del vapore: riduzione di 3,5 punti dell'Ires, ampliamento del super-ammortamento a vantaggio delle imprese, estensione della tassazione agevolata sui premi di produzione, mantenimento della decontribuzione per i neoassunti. Dell'annunciata riduzione dell'Irpef, che interesserebbe anche i comuni mortali, non si parla invece più.
Se indicare le tasse da ridurre può essere facile, assai più arduo indicare le spese da falcidiare. Lorsignori a volte diventano pudici e preferiscono non parlarne. Non sta bene annunciare gli ennesimi tagli alla scuola e alla sanità, nuovi ticket da pagare, nuovi attacchi alle pensioni, altri trucchi da inventare per rimpiazzare i soldini messi in tasca agli industriali. Roba che riguarda i poveri, che a loro fanno un certo che...
Sul punto Pesole è del tutto reticente. Ma la cifra minima di 10-12 miliardi rimane. Coi dogmi europei non si scherza. Resta il fatto che la sua manovra andrebbe spiegata a Fortis. Dodici miliardi di tagli, considerando un moltiplicatore di 1,4 come stima il Fondo Monetario Internazionale, danno un calo del pil di 16,8 miliardi, cioè un meno 1% e spiccioli. Alla faccia della crescita! La verità è che taglio della spesa ed aumento del pil sono (almeno in una fase come questa) due cose che non possono stare assieme. Dunque, niente botte piena e moglie ubriaca. Pesole se ne faccia una ragione e scelga tra l'invecchiamento del vino e l'incremento del tasso alcolemico della moglie.
Come la mettiamo allora con la divertente inconciliabilità delle due tesi esposte sulle rosee pagine del Sole? Uno dice giustamente che la spesa pubblica è un carburante imprescindibile per la ripresa, l'altro afferma che bisogna continuare a tagliarla. Entrambi vorrebbero ovviamente la crescita, ma se il secondo fa aperta professione di fede eurista come Dio Euro comanda, il primo se ne astiene, ma senza enunciare una critica esplicita al mostro domiciliato a Bruxelles, salvo renzianamente rivendicare una «valutazione meno ragioneristica degli spazi di flessibilità». Insomma: due atteggiamenti diversi, ma un'identica reticenza nell'andare al cuore del problema.
Se in termini logici la contraddizione tra i due editorialisti del Sole 24 Ore appare insanabile, il loro confuso ragionare ha una sola spiegazione. I due sanno bene come stanno le cose. Sanno che la loro dottrina neliberista ha fallito, come pure il loro credo austeritario. Sanno che non si esce dalla crisi con gli zerovirgola della famosa "flessibilità" sulla quale gioca Renzi. Di più: sanno anche che l'Europa è agli sgoccioli, ma se riescono probabilmente a pensarlo, proprio non ce la fanno a dirlo. Neppure Fortis. D'altronde, «il coraggio, chi non ce l'ha non se lo può dare».
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