martedì 3 dicembre 2013

NAZIONALISMO, IDENTITÀ NAZIONALE ED EUROPEISMO di Claudio Martini

«È frequente imbattersi nella seguente considerazione: l'identità alla base delle comunità nazionali è una costruzione ideologica, anzi una fabbricazione elaborata 'a tavolino' per tutelare gli interessi dei ceti dominanti. Dato il carattere di artificiosità e di surrettizietà della nozione di “identità nazionale”, ogni tentativo di porla alla base di un discorso politico è del tutto fuorviante, sempre che si intenda fare un discorso emancipativo; se invece si intende impegnarsi in un progetto reazionario, allora quella costruzione è perfettamente adeguata allo scopo.

Questo tipo di argomentazione contiene in sé molti elementi di ragionevolezza, anche se andrebbe espresso con un linguaggio più preciso. Dire che un certo concetto è “artificiale”, volendo con ciò indicarne un difetto, non ha molto senso: non esistono i concetti “naturali”, e d'altra parte la caratteristica di essere artificiale non rappresenta un che di deteriore (la musica è artificiale). Andrebbe invece spiegato che alla base dimolti discorsi apologetici della identità (e della sovranità!) nazionale c'è invece un meccanismo di costruzione (ovviamente artificiale) di miti; un processo di mitopoiesi.

Usare il passato in maniera strumentale e senza riguardi per la razionalità storica allo scopo di fabbricare un'apposita mitologia, mitologia che a sua volta sarà utile per giustificare una certa strategia politica: questo è il vero fenomeno che la considerazione di cui sopra critica, e che costituisce l'essenza di quella che qualcuno ha chiamato cultura di destra. Quando la fabbricazione mitologica verte sull'identità nazionale, porta sempre con sé almeno due elementi, di cui uno assolutamente peculiare. Innanzitutto, la comunità nazionale della cui identità si discetta è sempre presentata come un ché di compatto e omogeneo, scevra da lacerazioni e conflitti strutturali, un organismo che, lasciato a sé stesso, genera benessere e soddisfazione per tutti. Quando esso va in crisi è perché qualcosa, da fuori, lo ha attaccato, magari servendosi di quinte colonne traditrici. Lo schema è sempre il medesimo: andava tutto bene, un tempo, finché non è arrivata la minaccia esterna che ci ha rovinati. Questo ci permette di passare al secondo elemento immancabile di questo tipo di operazione ideologica, quello peculiare: la rimozione degli elementi negativi dalla storia della comunità nazionale. Chi ha analizzato i profili ideologici del British National Party e dell'United Kingdom Indipendence Party ha trovato solo pochi punti in comune, creando qualche imbarazzo nello stabilire che cosa ci fa dire, apparentemente senza difficoltà, che entrambe sono formazioni di destra. Il punto in comune più rilevante era proprio una ricostruzione della storia britannica che la presentava come esente da gravi colpe, o di cose di cui vergognarsi. In ambito domestico ho trovato un brano che rende perfettamente l'idea di quando vado descrivendo:

quello italiano oggi non è un popolo fiero. (…) La fierezza nasce da una ricostruzione della storia passata, non esiste altra possibile genesi. Dunque, per cominciare a ricostituirla, è necessario andare alla ricerca del meglio della nostra storia: il volontarismo risorgimentale, il pensiero di Mazzini, la figura di Garibaldi, la Costituzione romana, la precoce abolizione della pena di morte, la compattezza mostrata nella macelleria della prima guerra mondiale, l'eccellente legge bancaria del 1936, lo scoperto infinito dello Stato presso la banca d'Italia (1936-1945), il divieto di acquistare titoli emessi all'estero per motivi speculativi (1934), la stratosferica tecnica legislativa dei codici, la resistenza, la costituente, la riforma agraria, l'abolizione della mezzadria, la piena occupazione, la scala mobile, lo stato sociale, il piano casa, la enorme mobilità sociale degli anni settanta e ottanta, il non aver avuto per decenni, fino a Berlusconi, imprenditori che abbiano ricoperto ruoli politici di primo piano, una scuola e una università di massa a lungo più serie e (quindi) severe rispetto a scuola e università di altri Stati a noi simili, la repressione della rendita finanziaria fino al 1981, l'attenuazione delle differenze tra nord e sud nel periodo 1951-1981, le partecipazioni statali e altro ancora.

Mitogenesi, anzi mitopoiesi. Per restituire “fierezza” al popolo è indispensabile fornire loro una ricostruzione della storia d'Italia basata esclusivamente sugli elementi positivi (o presunti tali), e su un una totale rimozione di tutto quanto possa turbare il quadro. La storia d'Italia è una storia di crimini, e anche il periodo repubblicano risulta ricco di contraddizioni. E non potrebbe che essere così. Per andare avanti, per progredire in un cammino di civiltà, è indispensabile prendere coscienza dei lati negativi del proprio passato nazionale, in un certo senso riconciliarsi con essi; allo stesso modo, un vero progetto di emancipazione non può che radicarsi nelle contraddizioni reali in seno alla società, nei conflitti che sempre la attaversano; nelle istanze e nelle esigenze concrete delle persone reali. Non certo nelle brodaglie ideologiche frutto della miscela di pezzi di passato scelti ad arte (quando non proprio travisati o falsificati).
Dunque, la critica alle “narrazioni” di questo tipo è sensata e condivisibile. Tuttavia, nella grande maggioranza dei casi esse cadono fuori bersaglio, finendo per concentrarsi su un fenomeno relativamente minore (per ora) e mancando di denunciare qualcosa di ben più inquietante.
Se è vero che la retorica identitaria è tanto più pericolosa quanto più e mistificante e artificiosa, è vero anche che tale retorica è tanto più mistificante quanto più si rivolge a “oggetti” sociali lontani dalla nostra vita quotidiana. Ad esempio, sostenere che esista una identità nazionale basca sarà anche un'operazione mistificante, ma è un'operazione che poggia su elementi assai concreti: in effetti esiste una comunità che parla basco, che vive in un territorio ben definito, e che si riconosce in un comune retaggio culturale. La vita quotidiana del cittadino basco non è così lontana dagli elementi fondanti l'ipotetica retorica del “popolo basco”.
Ma che dire dell'identità europea? Essa non si fonda su una lingua comune, né su un comune retaggio culturale: l'Europa è un multiverso di culture e civiltà differenti. Il dato geografico è molto astratto, perché non fa riferimento a un territorio ben definito, a meno di non considerare tale un continente dai confini arbitrari. Alla fine ci si trova davanti a una verità piuttosto imbarazzante: gli unici elementi comuni a tutti i popoli europei sono la religione cristiana (o quel che ne rimane) e la pelle bianca. Non proprio l'ideale per costruire una “narrazione” progressista dell'identità europea! E così chi si trova a “fabbricare” quell'identità, senza infrangere il politically correct, si ritrova invischiato in un processo di mitopoiesi particolarmente impegnativo e “artificiale”, dovendo letteralmente inventare una comunanza di idee, valori e tradizioni del tutto immaginaria.
Ciò peraltro ci illumina su un'altra carattetistica del “discorso” europeista: come la maggior parte delle retoriche nazionaliste, e al di là delle apparenze, esso è tutto rivolto al passato, a ciò che eravamo. È un tentativo di conservare l'antica gloria europea, chiudendosi a riccio contro il resto del mondo. Come abbiamo già scritto altre volte, è una passione triste.
Forse sarebbe il caso che chi si dedica allo smascheramento (benemerito) delle retoriche nazionaliste e patriottarde riservi una quota del suo tempo anche al contrasto della mistificazione europeista, che è tanto più falsa quanto più poggia su fondamenta estranee alla sensibilità e alla vita concreta delle masse europee. Non c'è da contrastare solo il vecchio nazionalismo, ma anche il nuovo nazionalismo europeo. Speriamo che qualcuno se ne accorga».


Fonte: mainstream

9 commenti:

Anonimo ha detto...

Provate a chiedere ad un Israeliano di rinunciare alla sua identità "nazionale".
Indubbiamente noi italiani siamo di tempra e cultura ben diverse e certamente inferiori a quelle di un Popolo che ha saputo guardare avanti nei millenni gridando ad ogni capodanno "L'anno prossimo a Gerusalemme".
La dignità di "popolo" bisogna guadagnarla duramente. Ciò non toglie che anche gli "Italiani" , forse non tutti, ma un certo numero sì, si sentano fieri di appartenere ad una Gente che ha illustrato l'Umanità con i più splendenti gioielli dello Spirito umano.

gengiss ha detto...

L’identità nazionale si può coniugare sia con ideologie progressiste e di emancipazione, sia con ideologie reazionarie e xenofobe. Può essere insomma sia di sinistra che di destra: qualcuna chiama “patriottismo” il primo e “nazionalismo” il secondo. Esempi di movimenti patriottici: risorgimento italiano, grande Guerra patriottica Urss, lotte di liberazioni coloniali, indipendentismo basco o irlandese. Esempi di nazionalismo: colonialismi, fascismo, nazismo, suprematisti bianchi… e per venire a noi Lega nord. Disprezzare il sentimento nazionale mi pare un errore sia teorico che pratico, e implica lasciare questo potente strumento alle destre.

Anonimo ha detto...

Se si osserva un atlantino storico dove si trovano segnati tutti gli spostamenti di confine e le mutazioni territoriali avvenuti in quasi venti secoli di storia europea e se si pensa che ogni variazione è costata guerre, scannamenti, distruzioni e stragi di città e di popoli, viene legittimamente da chiedersi "Che razza di Europa è stata questa? " Un teatro di perenni contese soprattutto dinastiche e religiose, tanto è vero che popoli non europei si meravigliano di fronte a tante guerre che loro definiscono "civili". Forse gli Europei, guardando indietro, ritengono che quelle "guerre civiili" abbiano contribuito ad unire?
Un'Europa unita viene ad essere qualcosa di artificioso effettivamente ed anche la geografia ha avuto la sua parte in tutti quei conflitti. Un'Europa unita, oggi, fa l'interesse soprattutto della grande finanza speculativa come ben appare dall'infelice esito della moneta unica.

Anonimo ha detto...

ha saputo guardare avanti nei millenni gridando ad ogni capodanno "L'anno prossimo a Gerusalemme".

Non gridavano, PREGAVANO. C'è una differenza enorme. La preghiera verte solo sulla religione, non sulla politica. E infatti finchè a un giornalista ungherese non è venuto inmente di scimmiottare il nazionalismo tedesco, a nessun ebreo è mai venuto in mente di interpretare la preghiera come programma politico. La Gerusalemme della preghiera il popolo ebraico l'ha costruita in millenni di Diaspora, e infatti i testi religiosi fondamentali dell'ebraismo, ovvero la Torah (in gran parte scritta durante la cattività babilonese) e il Talmud (nella sua totalità scritto durante la Diaspora) sono opere scritte fuori dalla presunta terra del popolo ebraico, e non per caso. Un secolo di sionismo ha cancellato ogni traccia di religiosità dall'ebraismo. Un ebreo antisionista dagli altri ebrei è visto peggio di un nazista, quando in realtà è l'unico ebreo religioso, in quanto ostile alla statolatria che ha sostituito la religione ebraica presso gli ebrei.

Anonimo ha detto...

«Fra tutte le forme di superbia quella più a buon mercato è l’orgoglio nazionale […] Ogni povero diavolo, che non ha niente di cui andare superbo, si afferra all’unico pretesto che gli è offerto: essere orgoglioso della nazione alla quale ha la ventura di appartenere. Ciò lo conforta; e in segno di gratitudine egli è pronto a difendere πύξ κάì λάξ [a pugni e calci, con le unghie e coi denti] tutti i suoi difetti e tutte le sue stoltezze»
(A. Schopenhauer, Il giudizio degli altri)

Alberto ha detto...

I "fondamentali" sono molto più semplici, si basano sul dato di fatto che l'uomo è un animale "territoriale", esattamente come i cani che pisciano sui loro confini per marcarli. Ma non siamo cani, siamo molto di più, nel bene e nel male, nell'amore e nell'odio.

Che il mio "vicino" parli una lingua diversa dalla mia, incomprensibile reciprocamente, è secondario rispetto alla "questione territoriale", che tende naturalmente a diventare una questione culturale, per quante difficoltà ci possano essere su questo percorso. Le grandi guerre, tutte, hanno svolto anche questo ruolo, di confronto reciproco, nell'odio e nel sangue, ma destinate in ultima analisi ad un confronto che unisce più che dividere, al prevalere del lungo periodo sul breve periodo.

L'Europa (quella geograficamente vera) non fa eccezione, anzi primeggia nella ferocia degli scontri bellici interni che ne hanno fatto la storia, quella storia di cui siamo eredi, non acqua fresca.

L'Europa della "competitività" è fallita come da manuale, adesso è l'ora dopo, quella della "raccolta" dei buoni propositi, della cooperazione, del senso patriottico a più livelli, nazionali e continentali.

In più c'è solo il livello mondiale, e questo è un problema per le limitate capacità del cuore dell'uomo. C'è però l'antico spirito della sopravvivenza che da una mano anche in tal senso.

Anonimo ha detto...

L’articolo di Martini è un coacervo di realtà e falsità, di critica arguta e di costruzione mitopoietica identica alle fabbricazioni identitarie contro cui polemizza.

Condivisibile la sua ricostruzione del carattere perfettamente arbitrario e irrazionale delle mitopoiesi identitarie, orientate storicamente, intessute dai nazionalismi di ieri e di oggi. E condivisibile la sua critica alla riproduzione di tale processo intentata dai manutengoli della dittatura europea – per quanto quest’ultimi tendano a mitizzare gli aspetti umanisti e mercatilizi lasciando da parte quelli belligeni.

Ciò che Martini non vede e non dice, è che i suoi propri ideali umanisti ed emancipatori (che fanno capolino quando si permette di parlare di “crimini” – contro quale legge?!) sono pregiudizi aggregativi tanto goffi e arbitrari quanto le costruzioni storicistiche che gli stanno sull’anima. Tutta la differenza è che in quest’ultime la comunità morale è focalizzata a livello della razza o della nazione, e suffragata tramite una (speciosa) metafisica storicista, in quelle di Martini è focalizzata a livello della specie, e sacralizzata senza sentire alcun bisogno di giustificarla. Ai sofismi dei suoi avversari Martini oppone uno schietto silenzio della ragione.

Siccome però le comunità politiche non si tengono assieme senza una qualche forma di mitologia fondativa ancorata storicamente, dopo aver condannato con scandalo quelle avversarie Martini si tiene stretti i mitologemi storicisti che piacciono a lui, dal quello della resistenza (con cui si provvide a metafisicizzare il rovesciamento delle alleanze realizzato l’8 settembre e a dare un fondamento alla convivenza fra PCI e DC) a quello olocaustico (essenziale per investire di un fondamento emotivo il pregiudizio umanista – il gregge pensa per associazioni emotive).

Quando un paio di settimane fa sul suo sito è apparso un articolo in tema (http://il-main-stream.blogspot.it/2013/11/su-nazismo-e-revisionismo.html), ed io ho scritto un breve commento per mostrarne la perfetta inconsistenza (“per quale motivo al mondo i nazisti avrebbero dovuto astenersi dallo sterminare gli ebrei, visto che si riconoscevano nella religione della razza anziché in quella dell’umanità?”), lui e Badiale hanno riprodotto pari pari le procedure degli spregiati nazionalismi identitari e l’hanno prontamente censurato. E si comprende: il pregiudizio fiorisce nel silenzio della ragione; la prima preoccupazione dei suoi devoti non può essere che quella di strangolare il contraddittorio che gli è esiziale (salvo scandalizzarsi quando gli avversari fanno la stessa cosa).

L’antropologo O. Wilson ha trovato efficaci parole per illuminare questa partita fra disonesti: “lo spirito creerà sempre la moralità, la mitologia e la religione, e le alimenterà tramite energie emotive. Non appena delle ideologie infondate o delle convinzioni religiose vengano rigettate ne vengono prontamente manifatturati dei sostituti [...]. Nel caso in cui lo spirito sia conscio che tale attività para-razionale non può essere combinata con quella razionale, provvederà a sdoppiarsi in due compartimenti, in modo che le due forme di attività possano prosperare ciascuna per conto proprio”.

Anonimo ha detto...

Confermo: "Gridavano", perché a Dio si rivolgono preghiere in tanti modi, anche disperatamente.

Anonimo ha detto...

Mi riferisco alla citazione di Schopenhauer. MI pare che questo Filosofo non abbia scritto nessun Vangelo divinamente ispirato. Esprimeva una sua opinione, come tutti i Filosofi e come ogni umano dotato di una propria capacità di giudizio. L'uomo è un "animale sociale" il che significa che è dotato di un forte "istinto di branco (o di gruppo come certi studiosi preferiscono che sia). Senza "gruppo" l'individuo isolato è destinato a soccombere. Sentirsi membro di un gruppo forte e valoroso esalta l'individualità a causa della consapolezza di appartenenza. In questo fatto è la radice del nazionalismo. Se il gruppo si sfascia e cade l'individuo percepisce istintivamente un forte senso di insicurezza, di inferiorità e di pericolo. Ciò sempre che egli sia integrato nel gruppo. Se non lo è, come i reietti, gli esclusi, i forestieri e gli alieni, l'individuo diventa"asociale" e desidera ed opera per il male del gruppo. Il senso di appartenenza è direttamente proporzionale all'integrazione fra individuo e gruppo. Una iniqua divisione in "classi" indebolisce per alcune di esse il senso di appartenenza così da concorrere alla disgregazione sociale avviando il gruppo alla sua dissoluzione e morte.

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