La teologia politica di Benedetto XVI o dell'abdicazione al capitalismo
di Moreno Pasquinelli
NOTE
[1] È capitato a Ponziano nel 235, a Giovanni XVIII nel 1009, a Benedetto IX nel 1045, al più famoso Celestino V nel 1294 e a Gregorio XII nel 1415.
[2] L'articolo è tratto dalla rivista ERETICA n.1/2006. gennaio marzo 2006
[3] Deus caritas est, dicembre 2005. Libreria Editrice vaticana; p.11
[4] Ibidem, p.18-19
[5] Ididem, p. 27
[6] Ididem, p. 32
[7] Ibidem, p.35-42. Sottolineatura nostra
[8] ibidem p. 46
[9] Ibidem, p.47-48
[10] Ibidem, p.60-64
[11] ibidem, p. 73
[12] ibidem, p.81
[13] ibidem, p.83
[14] Ibidem, p. 84-85
di Moreno Pasquinelli
Il Papa ha rimesso il suo mandato. E' la quinta volta che accade nella bimillenaria storia della Chiesa cattolica. [1] Un fatto enorme. Circola ogni sorta di congetture. Ci pare invece opportuno ragionare del pensiero di Ratzinger che, prima che Papa, è stato anzitutto uno dei più irriducibili teologi del primato della fede cattolica nonché severo critico della cultura nichilista e relativista dominante in Occidente. Lo facciamo ripubblicando un articolo appena eletto papa. [2]
Premessa
Le posizioni telogiche,
filosofiche e politiche di J.Ratzinger, sia grazie alla sua copiosa produzione
letteraria che al suo lungo magistero cardinalizio nella curia romana, erano
ampiamente note ben prima che diventasse Papa.
La sua prima Lettera Enciclica
come Pontefice (data il giorno di Natale del 2005), visto il posto che la
chiesa cattolica occupa nella scena mondiale, merita la nostra attenzione.
Essendo l’amore il paradigma che
contraddistingue la fede cristiana, non è certo un caso che Benedetto XVI
esordisca come Papa cimentandosi
proprio su questo terreno. Ricapitolando la cattolica visione del mondo,
egli ha tracciato in modo perentorio non solo i fondamenti teologici e
filosofico-morali ma pure i precetti politico-sociali della chiesa, e dunque la
direzione di marcia del suo pontificato.
L'inquietante ombra di Bertone |
L’INFINITO
ALIAS DELL’ASSOLUTAMENTE INDEFINITO
Benedetto
XVI esordisce con una dotta premessa semantico-linguistica sulla polivalenza di significati della
parola «amore».
Egli sottolinea che nei vangeli greci la parola eros non è usata mai, mentre viene
utilizzata quella di agape [caritas in latino], per subito
sottolineare che ciò «denota
indubbiamente nella novità del cristianesimo qualcosa di essenziale. Proprio al
riguardo alla comprensione dell’amore». [3]
A
fronte della concezione greca dell’amore (mondana
secondo il nostro), come elemento costitutivo dell’essere umano concepito
anzitutto come corpo che cerca una fisica ed estatica beatitudine, il
cristianesimo avrebbe compiuto una radicale risignificazione dell’amore come
esperienza trascendentale, spirituale, mistica:
«Si, amore è “estasi”, ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso, verso la sua liberazione del dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio» E quindi «agape come espressione per l’amore fondato sulla fede e da essa plasmato». [4]
Il
cristianesimo non nega l’eros (amor concupiscentiae), che anzi
riconosce come tratto distintivo dell’essere umano, afferma tuttavia che questo
“esserci per l’altro”, questo donarsi per cercare la felicità dell’altro, è
significativo solo in quanto è manifestazione dell’agape, dell’amore verso Dio.
E’ solo perché cerchiamo Dio che
finiamo per amare l’altro. Ne deriva che l’uomo non sarebbe che una metafora di
Dio, un veicolo verso il divino trascendente. Benedetto XVI ammette l’eros, ma solotanto come impulso
primordiale destinato ad essere purificato; propone quindi una letterale
sublimazione, la trasformazione di un impulso fisico in un’esperienza
spirituale. Fuori dalla dimensione dell’agape
l’eros infatti decadrebbe, si
disumanizzerebbe in peccaminosa concupiscenza.
Il modello
di amore immacolato è infatti quello mostratoci da Gesù, che si è donato
gratuitamente, incondizionatamente, per salvare l’umanità dal peccato, che ha
sacrificato la sua vita per la salvezza dell’uomo:
«Il cristiano vede, in questo, già profilarsi velatamente il mistero della Croce: Dio ama tanto l’uomo che, facendosi uomo Egli stesso, lo segue fin nella morte e in questo modo riconcilia giustizia e amore». [5]
Gesù
avrebbe dunque realizzato il “sogno originario dell’uomo”, l’unione tra sé e
Dio. Un sogno che l’uomo, con le sue sole forze, non potrebbe realizzare, e ciò
spiega come mai Dio abbia inviato suo Figlio a morire sulla Terra:
«Se il mondo antico aveva sognato che, in fondo, vero cibo dell’uomo —ciò di cui egli come uomo vive— fosse il Logos, la sapienza eterna, adesso questo Logos è diventato veramente per noi nutrimento —come amore. La mistica del sacramento [l’Eucaristia, ndr] che si fonda nell’abbassamento di Dio verso di noi è di ben altra portata e conduce ben più in alto di quanto qualsiasi mistico innalzamento dell’uomo potrebbe realizzare». [6] (Ididem, p. 32)
Questo
passaggio contiene due concetti teologici cruciali.
Il primo ci riconduce al
peccato originale. Il desiderio umano di attingere alla conoscenza del tutto,
di godere della sapienza divina (il Logos),
restano ciò che sta scritto nella Genesi: un desiderio inconcepibile, un
inammissibile reato di lesa maestà.
Tuttavia, dato che l’essere supremo è
diventato sensibile a questo appetito primordiale dell’uomo, egli invia suo
“Figlio unigenito” non solo affinché paghi Lui il peccato originale, ma per
finalmente mostrargli quel Logos proibito,
per fargli vedere chi Egli è veramente.
E cosa scopre l’uomo? Scopre che questo
Logos, indispensabile nutrimento per
la sua disgraziata esistenza, è nient’altro che agape, che Dio è amore smisurato e essenziale. Dopo di che all’uomo
non resta che cessare la sua ricerca per ricambiare questa unilaterale e
straordinaria offerta, facendo dell’amore di Dio l’alfa e l’omega della sua
propria esistenza.
Il secondo
concetto ratzingeriano, non è meno peculiare e disvela, in implicita polemica
col razionalismo tomista, la sua discendenza dalla concezione agostiniana della
Grazia. Se tu uomo hai potuto vedere
chi è veramente Dio, ciò non è dipeso dalle tue capacità di “innalzamento”, di
autonoma comprensione, ma solo dalla decisione di Dio di farsi vedere, “abbassandosi”
al tuo angusto livello. Il che riconferma non solo il principio del peccato
originale, ma tutta l’antropologia veterotestamentaria, e quindi la sostanza
della polemica antipelagiana di Agostino.
Qui
giungiamo ad una antilogia, all’ossimoro degli ossimori.
Come può
l’uomo amare incondizionatamente e fino al sacrificio di sé, cioè prendere a
modello Gesù, quando abbiamo visto
che Dio ha dovuto “abbassarsi” fino all’uomo proprio a causa della costitutiva
incapacità ad innalzarsi (fatta eccezione per santi e mistci) estaticamente
verso Dio? Forse che l’ingresso di Dio nella storia degli uomini mediante
l’incarnazione ha mutato la natura antropologica dell’uomo? Contro Pelagio e
per certi versi contro i cristiani ortodossi, i cattolici affermano che questa
metamorfosi non c’è stata, che l’uomo resta un essere prigioniero della carne,
segnato dal peccato.
Per Benedetto XVI la missione di Gesù non è consistita nel
cambiare l’uomo ma solo nell’indicargli una volta per sempre la strada della
sua salvezza —resta qui, di contro
alle tesi di Lutero, il libero arbitrio,
ma un arbitrio menomato, manicheo: l’uomo non può scegliere davvero ciò che
vuole, può sì respingere l’offerta salvifica di Dio, ma dovrebbe poi scontare
una condanna alla dannazione eterna.
Salvezza (e qui passiamo dalla cristologia
alla ecclesiologia), che egli può ottenere non solo tramite una fede
indeterminata, ma con l’appartenenza alla Chiesa di Roma, con l’osservanza dei
suoi precetti, delle sue prescrizioni e della sua liturgia. In altre parole:
fuori dalla Chiesa apostolica romana, che è il solo luogo in cui si realizza
l’unione e la comunione con Dio, nessuna salvezza è possibile. Tutti i contorti
e capziosi enunciati ecumenici del Concilio vaticano II non scalfiscono questo
dogma fondamentale, che infatti Benedetto XVI ristabilisce in maniera
categorica.
Il
precetto dei precetti, il principio da cui derivano tutti gli altri aspetti
della fede cristiana, è l’amore verso il
prossimo, dato che Dio ci ha indicato che solo amando il prossimo possiamo amare Lui e quindi
ottenere la sua benevolenza e il suo perdono.
Ma cosa i
cristiani debbono intendere per prossimo?
Benedetto
XVI sa bene che Gesù da una risposta nella nota Parabola del buon Samaritano
(cfr Lc 10, 25-37). Nella sua enciclica egli compie la più classica delle mosse
retoriche: citare in prima battuta ciò che è controverso, o che addirittura va
in senso opposto alle proprie argomentazioni, per togliere un argomento al
proprio avversario e depotenziare e/o snaturare il significato reale della
citazione medesima.
Ma
sentiamo l’esegesi ratzingeriana:
«La parabola del buon Samaritano conduce soprattutto a due importanti chiarificazioni. Mentre il concetto di “prossimo” era riferito, fino ad allora, essenzialmente ai connazionali e agli stranieri che si erano stanziati nella terra d’Israele e quindi alla comunità solidale di un paese e di un popolo, adesso questo limite viene abolito. Chiunque ha bisogno di me e io posso aiutarlo, è il mio prossimo. Il concetto di prossimo viene universalizzato e rimane tuttavia concreto. Nonostante la sua estensione a tutti gli uomini, non si riduce all’espressione di un amore generico ed astratto, in se stesso poco impegnativo, ma richiede il mio impegno pratico qui e ora. (…) Si rivela così possibile l’amore del prossimo enunciato dalla Bibbia, da Gesù. Esso consiste appunto nel fatto che io amo, in Dio e con Dio, anche la persona che non gradisco o neanche conosco. (…) Allora imparo a guardare quest’altra persona non più soltanto co i miei occhi e con i miei sentimenti, ma secondo la prospettiva di Gesù Cristo. Il suo amico è mio amico. (…) Se il contatto con Dio manca del tutto nella mia vita, posso vedere nell’altro sempre soltanto l’altro e non riesco a riconoscere in lui l’immagine divina. (…) L’amore è divino perché viene da Dio e ci unisce a Dio e, mediante questo processo unificante, ci trasforma in un Noi che supera le nostre divisioni e ci fa diventare una cosa sola, fino a che, alla fine, Dio sia “tutto in tutti». [7]
Cosa
ricavamo da queste affermazioni? 1. Che l’amore è una facoltà divina, che
appartiene all’uomo solo in quanto, per processo di precipitazione, è donata da
Dio; 2. Che l’amore può essere pienamente vissuto e conosciuto solo nella
pospettiva per cui tutti gli altri
uomini, essendo creature e immagini di Dio, sono oggetti della sua appetizione
e dei suoi desideri; 3. Il cattolico concetto di prossimo significa dunque
considerare indistintamente tutti miei fratelli, compresi i miei nemici.
Ma così
facendo l’amore diventa proprio ciò che Benedetto XVI apparentemente deplora:
“un amore generico ed astratto, in se stesso poco impegnativo”.
Un apeiron appunto —per il filosofo
greco Anassimandro di Mileto l’apeiron
era l’elemento primordiale della vita, in sé infinito e assolutamente
indeterminato— un concetto la cui infinità è l’assoluta indefinitezza, la cui
determinazione si risolve nella più radicale indeterminatezza.
Quest’amore
cristiano per cui “ognuno è gli altri e nessuno è se stesso”, quest’idea di
comunione anche coi miei nemici, questo concetto di fratellanza universale con
tutti in quanto figli di Dio; producono in realtà una universale
nullificazione. Al tutto indifferenziato non può che corrispondere una totale
indifferenza. Una generica e astratta benevolenza verso l’uomo in sé non può
che generare l’egoismo per sé.
Tuttavia
la cristianicità dell’ermeneutica ratzingeriana è come minimo discutibile. Cosa
afferma infatti Gesù nella parabola del buon Samaritano? Gesù dice al dottore
della Legge che deve amare il prossimo come se stesso se vuole davvero amare
Dio e da Lui essere amato. Allora il suo interlocutore pone a Gesù la cruciale
domanda: “E chi è il mio prossimo?”. Gesù risponde:
«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?. Quegli rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: Và e anche tu fà lo stesso». (cfr Lc 10, 25-37)
Siccome Gesù
considera prossimo i samaritani (che erano una setta ebraica odiata e
ostracizzata dalla società giudaica) i teologi cattolici ne ricavano che
cristiano è non solo colui che aiuta chi soffre senza nulla pretendere in
cambio; ne deducono che Gesù abolisce la figura del nemico, che il nemico in difficoltà merita la medesima
solidarietà che si presta al proprio amico o fratello. Ovvero, con Ratzinger: «Chiunque ha bisogno di me e io posso aiutarlo, è il mio prossimo».
In verità questa
parabola è più ricca di quanto si pensi e come minimo controversa al pari di
molte altre. Essa contiene un deciso rovesciamento del filantropismo astratto e
indeterminato. Né i briganti, né il levita né il sacerdote possono essere
considerati prossimo dall’uomo
spogliato e percosso, per quanto facciano parte della sua comunità, ma il
Samaritano —che viene quindi
giudicato non per la sua dottrina religiosa, ma per come offre gratuitamente il
suo aiuto a chi ne ha bisogno— invece sì.
D’altra parte il
Samaritano è simbolo di bontà proprio perché offre il suo aiuto non
indiscriminatamente, non a chiunque incontri per strada, ma solo al sofferente,
proprio a chi è vittima della
crudeltà dei briganti e dell’indifferenza del sacerdore e del levita.
Se dunque il prossimo non è
l’altro indistintamente, questo vuol dire che l’amore non può essere
unidirezionale, ma implica una relazione biunivoca tra l’Io e l’altro fondata
sulla reciprocità, sull’inclusione affettiva ed effettiva tra due soggetti.
Alla domanda “chi è il mio prossimo” Gesù risponde che prossimo non è
l’astratta figura dell’altro, ma solo chi si comporta da prossimo. Si può
donare a condizione che l’altro accetti il dono e non resti indifferente, si
può amare davvero a patto di essere amati.
Il maggiordomo dello scandalo |
LO SPETTRO DEL MARXISMO
Se nella prima parte
dell’enciclica Ratzinger ci propina una melassa di tipo teologico, la seconda è
invece una prolissa filippica in chiave ecclesiologica. Essa non è meno
importante poiché Ratzinger ci offre, visto che «Amore è il servizio che la
Chiesa svolge per venire costantemente incontro alle sofferenze e ai bisogni,
anche materiali, degli uomini», [8] la sua lettura poltica della
dottrina sociale della chiesa.
Ancora una volta, come incipit, assume astutamente, per
neutralizzarla e svuotarla di pregnanza, la celeberrima frase da gli Atti degli Apostoli che descrive quale
fosse l’idea di fratellanza e di comunione (koinonia)
che avevano le prime comunità cristiane: «Tutti coloro che erano diventati
credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e
sostanze le vendva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno».
(cfr At,2, 44-45)
Sentiamo quindi come questa
splendida e inequivoca professione di comunismo viene chiosata e svuotata:
«Con
il crescere della Chiesa, questa forma di comunione materiale [Ratzinger
si guarda bene dall’usare la sola parola che esprima modernamente il concetto
di “comunione materiale”, cioè l’eguaglianza] non ha potuto, per la verità,
essere mantenuta. Il nucleo essenziale è però rimasto. All’interno della
comunità dei credenti non deve esserci una forma di povertà tale che a qualcuno
siano negati i beni necessari per una vita dignitosa». [9]
Qui
l’esegetica ratzingeriana si fa addirittura mendace.
Mentre si sorvola bellamente, ricorrendo
all’alibi quantitativo della “crescita”, sul fatto che la chiesa ha abbandonato
il principio della piena ed effettuale eguaglianza tra i cristiani; si nasconde
che questo principio non era perseguito per capriccio, ma in quanto esso fu
postulato come un precetto ineludibile e per niente simbolico, proprio da Gesù
nella parabola del Giovane ricco:
«Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quanto hai, dàllo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi. Ma il giovane, udite queste parole, se ne andò via rattristato, perché aveva molti beni. E Gesù disse ai suoi discepoli: “In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Si, ve lo ripeto: è più facile che un cammello entri per la cruna di un ago, che un ricco entrerà nel regno di Dio». (cfr Mt, 19, 16-29)
Davvero la chiesa ha
preservato questo “nucleo essenziale” del cristianesimo? Certo che no! E per
stessa ammissione del nostro, che infatti trasfigura il radicale “nucleo
essenziale” dell’eguaglianza, ovvero della comunanza dei beni (comunismo),
nell’insipido principio (liberal-democratico) della giustizia, per cui «non deve esserci una forma
di povertà tale che a qualcuno siano
negati i beni necessari per una vita dignitosa».
Tuttavia,
come ognuno sa, non soltanto lo stesso diritto ad una vita dignitosa è negato
alla gran parte dell’umanità, nella stessa comunità dei credenti, quella
cattolica anzitutto, le differenze sociali tra ricchi e poveri sono abissali, e
centinaia di milioni di esseri umani soffrono la fame e languscono nell’inedia
mentre una pur cospicua minoranza vive nella prosperità o nella gozzoviglia,
guardandosi bene dal dividere coi propri “fratelli” qualche scampolo di tale
opulenza).
Ratzinger lo sa, ma da
conservatore politico confesso qual’è, assillato dallo spettro di un
risorgimento del marxismo (tutta la seconda parte dell’enciclica è un
polemizzare indiretto con Marx), risponde che sarebbe vano sperare in un
mutamento delle condizioni sociali, che mentre l’eguaglianza propugnata dai
comunisti resta un’utopia “materialistica”, la stessa giustizia sociale sarà
sempre relativa e incompiuta, e proprio per questo c’è bisogno dell’opera
caritatevole della chiesa.
Dopo avere ammesso che “c’è
del vero” nell’argomento marxista per cui le opere di carità e le elemosine
sono una frode perché servono in realtà a preservare le condizioni esistenti,
Ratzinger, parlando a questo punto anche a tanti sinceri cristiani che non
disperano di cambiare questo mondo, scolpisce, sotto forma di anatema, la
condanna di ogni aspettativa escatologica o rivoluzionaria. Finisce per
propinandoci il volgare discorso reazionario per cui la giustizia non è di
questa terra ma apparterrebbe solo al regno dei cieli; segnalando quindi, col
ripugnante sadismo dell’anticomunista che nel 1989-91 ha tirato un sospiro di
sollievo “che questo sogno è svanito”.
E comunque la giustizia non
è affare che competa alla chiesa bensì alla politica, allo Stato. Rispondendo
indirettamente alla teologia della
liberazione, il nostro afferma che la chiesa non può sostituire lo Stato,
al massimo può svolgerne una funzione sussidiaria. Essa:
«Vuole semplicemente contribuire alla purificazione della ragione e recare il proprio aiuto per far si che ciò che è giusto possa, qui ed ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato. (…) Non è compito della Chiesa far essa stessa valere politicamente la propria [sbiadita] dottrina sociale… Questo significa che la costruzione di un giusto ordinamento sociale e statale, mediante il quale a ciascuno venga dato ciò che gli spetta, è un compito fondamentale che ogni generazione deve nuovamente affrontare. Trattandosi di un compito politico, questo non può essere incarico immediato della Chiesa. (…) In altre parole la Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia per realizzare la società più giusta possibile. (…) Il compito immediato di operare per un giusto ordine nella società è invece proprio dei fedeli laici». [10]
Questo
non è solo un inno di battaglia anticomunista, è un elogio dell’ordine sociale
esistente, del capitalismo, di cui al massimo di debbono lenire i mali più
estremi. E del resto, come la Chiesa potrebbe esercitare la sua crisiana
attività caritativa se le ingiustize sociali non ci fossero?
Ma questa medesima
caritas «Non è un mezzo per cambiare
il mondo in modo ideologico e non sta al servizio di stratege mondane, ma è
attualizzazione qui ed ora dell’amore [ci risiamo!] di cui l’uomo ha sempre
bisogno» [11]
E’
notevole che dopo questa filippica,
Ratzinger ritorni, lancia in resta, all’attacco del marxismo, spacciato
per “filosofia disumana” solo in quanto contesta la carità come “sistema di
conservazione dello status quo… e strumento per frenare il potenziale
rivoluzionario”. Ma come? Non era poche pagine prima il marxismo morto e
sepolto, e il sogno di una salvifica rivoluzione sociale mondiale
definitivamente svanito? Perché mai tanto terapeutico accanimento nel tentare
di immunizzare i credenti dal “morbo” comunista?
La
ragione è sottesa nella stessa argomentazione ratzingeriana la quale, alle
spalle di tanta sicumera, tradisce invece quanto profonda sia la crisi dei
cattolici i quali, davanti ai mali del mondo e ad un futuro globalizzato sempre
più fosco, si pongonon senza confessarlo, la domanda di dove sia Dio e cosa
davvero Egli voglia.
Non si spiegherebbe altrimenti l’ultima parte
dell’enciclica, che è un vero distillato di teologia di abdicazione al
capitalismo, spacciata come rassegnazione
all’imprescrutabile e insondabile disegno divino.
«A volte l’eccesso del bisogno e i limiti del proprio operare potranno esporlo alla tentazione dello scoraggiamento. Ma proprio allora gli sarà d’aiuto il sapere che, in definitiva, egli non è che uno strumento nelle mani del Signore: si libererà così dalla presunzione [diabolico tratto distinitivo della concezione comunista della praxis, nda] di dover realizzare, in prima persona e da solo, il necessario miglioramento del mondo. In umiltà farà quello che gli è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore. E’ Dio che governa il mondo, non noi». [12]
In tal modo confessando le
latenti pulsioni non solo sovversive ma gnostiche e nichiliste che albergano
nel cuore di tanti cristiani, Ratzinger deve spendere tutta la sua autorità di
Papa e di teologo, per frenarle e smorzarle trascinandole nel camposanto della
cattolicità. La preghiera, non l’attivismo secolarista e l’azione politica
possono dare all’uomo la beatitudine e la gioia che cerca: «La familiarità col
Dio personale e l’abbandono alla sua volontà impediscono il degrado dell’uomo,
lo salvano dalla prigionia di dottrine fanatiche e terroriste». [13]
Ma qual è la volontà di Dio?
Se Dio governa davvero il mondo; se Egli è nella storia e tuttavia non viene in
nostro soccorso per debellare il male e porre fine alle ingiustizie; allora il
cristiano si chiederà come mai questo mondo rassomigli più all’inferno che al paradiso.
Se non vuole perdere la ragione ha solo due vie di scampo: o giungere a negare
la presenza di Dio trascendente e personale nella storia, o arguire che il
mondo è governato dall’Anticristo di
cui la Chiesa non sarebbe che un satanico medium.nEgli
si ricorderà allora del disperato appello di Gesù sulla croce: «Dio mio, Dio
mio, perché mi hai abbandonato?» (cfr Mt 27, 46)
Cosa
risponderà il cattivo teologo a questa invocazione? Che il cristiano deve
continuare a sperare a dispetto dell’evidenza, che deve accetare Dio come
enigma, che la sola certezza è un gigantesco e inquietante mistero. Egli risponderà con Agostino: “Si comprehendis, non est Deus”, se tu lo comprendi non è Dio.
«La
nostra protesta non vuole sfidare Dio, né insinuare la presenza in Lui di
errore, debolezza o indifferenza. Per il credente non è possibile pensare che
Egli sia impotente, oppure che stia dormendo. I cristiani continuano a credere,
malgrado tutte le incomprensioni e confusioni del mondo circostante, nella
bontà di Dio e nel suo amore per gli uomini». [14]
E
così, i cristiani che volessero dare credito a questi volgari funambolismi
teologici, non solo continueranno ad essere divorati dal dubbio, insisteranno a
rassegnarsi ad un mondo che mentre va in rovina, rovina loro stessi.
Per
concludere.
Chi
si aspettava che un Papa gli spiegasse l’amore, ha fatto la fine di colui che
si affidò ad un cieco affinché gli descrivesse i colori dell’orizzonte,
ricevendo l’immagine del nero più funereo. Chi si attendesse dai feudatari
della Curia romana una soluzione ai mali del mondo, non avrà alcuna
consolazione, scoprirà che il male che è nelle cose non si separa mai dalla sua
rappresentazione teologica.
NOTE
[1] È capitato a Ponziano nel 235, a Giovanni XVIII nel 1009, a Benedetto IX nel 1045, al più famoso Celestino V nel 1294 e a Gregorio XII nel 1415.
[2] L'articolo è tratto dalla rivista ERETICA n.1/2006. gennaio marzo 2006
[3] Deus caritas est, dicembre 2005. Libreria Editrice vaticana; p.11
[4] Ibidem, p.18-19
[5] Ididem, p. 27
[6] Ididem, p. 32
[7] Ibidem, p.35-42. Sottolineatura nostra
[8] ibidem p. 46
[9] Ibidem, p.47-48
[10] Ibidem, p.60-64
[11] ibidem, p. 73
[12] ibidem, p.81
[13] ibidem, p.83
[14] Ibidem, p. 84-85
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