... e la crisi della zona euro
di Emiliano Brancaccio*
Man mano che la crisi della zona euro si aggrava, tra gli imprenditori italiani e persino negli ambienti della destra “rispettabile” inizia a far capolino l’ipotesi di una uscita dell’Italia dalla moneta unica. Come quasi sempre accade, allora, per riflesso pavloviano anche gli intellettuali e gli economisti di “sinistra” si vedono costretti a uscire dalle consuete ambiguità retoriche e ad assumere posizioni più chiare sul da farsi. Vari articoli pubblicati di recente, così come un seminario sulla crisiorganizzato pochi giorni fa dalla Fondazione Di Vittorio e dall’ARS, hanno dato conto di questa tendenza.
Semplificando al massimo, tra gli intellettuali di sinistra, inclusi gli economisti, possiamo riconoscere due posizioni prevalenti.
Alcuni di essi ritengono che una deflagrazione della zona euro determinerebbe una catastrofe economica talmente violenta da condurre l’intera Europa sull’orlo di un conflitto bellico. La loro tesi è che l’Unione economica e monetaria rappresenta una condizione necessaria per garantire la pace tra i popoli europei. Chiunque si azzardi a evocare la possibilità di un’uscita dall’euro viene quindi immediatamente considerato un avventuriero irresponsabile, potenzialmente un guerrafondaio. In verità questi studiosi non forniscono chiare evidenze a sostegno dei loro anatemi. Nel libro L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa (Il Saggiatore, Milano 2012) abbiamo rilevato che la tesi secondo cui le unioni economiche e monetarie - e più in generale il liberoscambismo - garantirebbero la pace tra le nazioni, non trova adeguati riscontri storici. Abbiamo ricordato, in proposito, che alla vigilia del primo conflitto mondiale sussisteva piena libertà di circolazione dei capitali e vigeva un sistema di cambi fissi vincolante quasi quanto l’euro. Anziché lanciare apodittici strali di accuse, dunque, gli intellettuali che intendono difendere la zona euro a tutti i costi farebbero meglio a fornire argomenti più convincenti a sostegno delle loro posizioni. In particolare, essi dovrebbero dirci se ritengono che, pur di restare nell’eurozona, dovremo in futuro adattarci a qualsiasi possibile divario tra tassi d’interesse e tassi di crescita del Pil nominale (con buona pace per la praticabilità di qualsiasi cosa possa vagamente somigliare a una politica economica “alternativa”, espressione che viene tuttora ripetuta come un mantra negli ambienti di sinistra). A questo proposito, bisognerebbe tener presente che negli anni Trenta furono proprio i vani tentativi di Bruning di ripagare i debiti esteri a colpi di deflazione che crearono le condizioni materiali per l’ascesa di Hitler al potere. Insomma, gli strenui apologeti della zona euro “in nome della pace” farebbero bene a considerare la possibilità che il terreno favorevole alla proliferazione del bellicismo lo stiano preparando proprio loro. Eventualità spiacevole come tutte le eterogenesi dei fini, ma tutt’altro che improbabile.
Nell’arcipelago degli intellettuali ed economisti di sinistra c’è però anche una posizione alternativa. Questa è sostenuta da chi ritiene che da un’uscita dalla zona euro si potrebbero trarre molti più vantaggi che svantaggi. Questa tesi viene in genere supportata con evidenze tangibili per l’Italia e per almeno alcuni degli altri paesi periferici dell’Unione. Ci sono tuttavia diversi aspetti, di tale posizione, che appaiono lacunosi e che andrebbero chiariti meglio. 1) In primo luogo, il trapasso da un sistema di cambi fissi a un sistema di cambi flessibili viene solitamente anticipato e seguito da ingenti fughe di capitale all’estero. Una più agevole gestione della transizione richiederebbe allora il ripristino di efficaci meccanismi di controllo dei movimenti di capitale. 2) In secondo luogo, bisognerebbe tener conto del fatto che l’uscita dall’euro potrebbe comportare una caduta della quota salari e dello stesso potere d’acquisto dei salari anche in presenza di un’inflazione moderata. Se la dinamica dei rapporti di forza tra le classi sociali genera salari nominali stagnanti o addirittura declinanti, gli effetti di un’uscita dall’euro sui prezzi e sulla distribuzione potrebbero risultare tutt’altro che trascurabili. La caduta della quota salari negli anni successivi all’uscita dallo Sme è indicativo, in questo senso. Affermare che tale andamento sia stato dovuto all’accordo sul costo del lavoro, senza alcun nesso tra questo e lo sganciamento dal sistema dei cambi fissi, mi fare francamente azzardato. Il problema che dunque si pone, almeno dal punto di vista degli interessi del lavoro subordinato, consiste nella individuazione di criteri che consentano di evitare che il peso di un deprezzamento del cambio si scarichi interamente sui salari. L’ideale, naturalmente, sarebbe il ripristino di meccanismi di indicizzazione dei salari e di controllo amministrativo di alcuni prezzi “base”. Ma anche la ricerca di alleanze finalizzate alla reintroduzione di limiti alla libera circolazione delle merci, che consentano di controllare maggiormente la dinamica del cambio, è una delle opzioni possibili. 3) Infine, un terzo aspetto che andrebbe meglio specificato è quello relativo al valore dei capitali nazionali. La letteratura sui “fire sales” successivi a una svalutazione segnala che i prezzi antecedenti a un deprezzamento scontano solo in parte gli effetti del medesimo. Ciò implica che dopo una eventuale uscita dall’euro il valore degli assets nazionali potrebbe precipitare ulteriormente, al punto da creare condizioni favorevoli per acquisizioni estere a buon mercato. Pertanto, se si vuole che l’uscita dall’euro non venga fatta coincidere con una perniciosa svendita di capitali nazionali, bisognerebbe limitare anziché favorire le acquisizioni estere. In altri ambiti già si discute apertamente di questi problemi. Sarebbe il caso che anche a sinistra venissero affrontati.
Tutte queste considerazioni possono riassumersi nei seguenti termini. Al di là dei loro anatemi, i difensori “senza se e senza ma” della zona euro non sembrano avere argomenti convincenti a sostegno delle loro posizioni. Tuttavia, anche i fautori di un’uscita dall’euro in condizioni di libera circolazione dei capitali e delle merci sembrano sottovalutare le implicazioni negative di una simile opzione. Può dunque essere opportuno delineare una terza opzione, che potremmo riassumere così: se salta la moneta unica, occorre rendere esplicito che ai paesi periferici dell’Unione potrebbe convenire far saltare anche il mercato unico europeo.
E’ bene chiarire, al di là delle apparenze, che questo indirizzo politico non è necessariamente disfattista, ma al contrario potrebbe rivelarsi l’unica vera chance per salvare una Unione europea ormai appesa a un filo. In questo senso, nel libroL’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa, abbiamo sostenuto che l’esplicito riferimento a una opzione “neo-protezionista” rappresenta forse l’ultima carta che i paesi periferici potrebbero credibilmente giocare in sede europea per convincere la Germania che la crisi dell’Unione rischia di costar cara anche ai paesi più forti. E’ bene infatti ricordare che in Germania i portatori degli interessi prevalenti si sono già dichiarati pronti a sopportare i costi di una eventuale esplosione della moneta unica, sia in termini di perdita temporanea di competitività che di svalorizzazione dei crediti verso l’estero. L’unica prospettiva che essi sembrano davvero temere è che la crisi dell’euro metta in discussione anche il mercato unico europeo, sul quale l’economia tedesca ha lungamente prosperato e su cui si fonda l’attuale processo di centralizzazione dei capitali e di relativa “mezzogiornificazione” delle periferie europee.
Quanto siamo lontani dalla prospettiva evocata? anni luce, considerato che il Professor Monti rappresenta uno dei più strenui difensori del liberoscambismo europeo. Se anche la moneta unica dovesse saltare in aria, egli di certo non oserebbe mettere in discussione il mercato unico europeo. A pensarci bene, un miglior garante per i “falchi” tedeschi non lo si poteva trovare. Complimenti quindi ai numerosi demiurghi del governo Monti: al di là delle volgarizzazioni mediatiche, il capolavoro strategico di mettere un irriducibile liberoscambista a palazzo Chigi potrebbe un giorno essere riletto come un co-fattore non trascurabile dei ripetuti fallimenti delle trattative europee di questi mesi. Monti verrà dunque ricordato come l’ultimo dei danni provocati in questi anni dai “liberoscambisti di sinistra”? Anche solo augurarselo pare fin troppo ottimistico.
Man mano che la crisi della zona euro si aggrava, tra gli imprenditori italiani e persino negli ambienti della destra “rispettabile” inizia a far capolino l’ipotesi di una uscita dell’Italia dalla moneta unica. Come quasi sempre accade, allora, per riflesso pavloviano anche gli intellettuali e gli economisti di “sinistra” si vedono costretti a uscire dalle consuete ambiguità retoriche e ad assumere posizioni più chiare sul da farsi. Vari articoli pubblicati di recente, così come un seminario sulla crisiorganizzato pochi giorni fa dalla Fondazione Di Vittorio e dall’ARS, hanno dato conto di questa tendenza.
Semplificando al massimo, tra gli intellettuali di sinistra, inclusi gli economisti, possiamo riconoscere due posizioni prevalenti.
Alcuni di essi ritengono che una deflagrazione della zona euro determinerebbe una catastrofe economica talmente violenta da condurre l’intera Europa sull’orlo di un conflitto bellico. La loro tesi è che l’Unione economica e monetaria rappresenta una condizione necessaria per garantire la pace tra i popoli europei. Chiunque si azzardi a evocare la possibilità di un’uscita dall’euro viene quindi immediatamente considerato un avventuriero irresponsabile, potenzialmente un guerrafondaio. In verità questi studiosi non forniscono chiare evidenze a sostegno dei loro anatemi. Nel libro L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa (Il Saggiatore, Milano 2012) abbiamo rilevato che la tesi secondo cui le unioni economiche e monetarie - e più in generale il liberoscambismo - garantirebbero la pace tra le nazioni, non trova adeguati riscontri storici. Abbiamo ricordato, in proposito, che alla vigilia del primo conflitto mondiale sussisteva piena libertà di circolazione dei capitali e vigeva un sistema di cambi fissi vincolante quasi quanto l’euro. Anziché lanciare apodittici strali di accuse, dunque, gli intellettuali che intendono difendere la zona euro a tutti i costi farebbero meglio a fornire argomenti più convincenti a sostegno delle loro posizioni. In particolare, essi dovrebbero dirci se ritengono che, pur di restare nell’eurozona, dovremo in futuro adattarci a qualsiasi possibile divario tra tassi d’interesse e tassi di crescita del Pil nominale (con buona pace per la praticabilità di qualsiasi cosa possa vagamente somigliare a una politica economica “alternativa”, espressione che viene tuttora ripetuta come un mantra negli ambienti di sinistra). A questo proposito, bisognerebbe tener presente che negli anni Trenta furono proprio i vani tentativi di Bruning di ripagare i debiti esteri a colpi di deflazione che crearono le condizioni materiali per l’ascesa di Hitler al potere. Insomma, gli strenui apologeti della zona euro “in nome della pace” farebbero bene a considerare la possibilità che il terreno favorevole alla proliferazione del bellicismo lo stiano preparando proprio loro. Eventualità spiacevole come tutte le eterogenesi dei fini, ma tutt’altro che improbabile.
Nell’arcipelago degli intellettuali ed economisti di sinistra c’è però anche una posizione alternativa. Questa è sostenuta da chi ritiene che da un’uscita dalla zona euro si potrebbero trarre molti più vantaggi che svantaggi. Questa tesi viene in genere supportata con evidenze tangibili per l’Italia e per almeno alcuni degli altri paesi periferici dell’Unione. Ci sono tuttavia diversi aspetti, di tale posizione, che appaiono lacunosi e che andrebbero chiariti meglio. 1) In primo luogo, il trapasso da un sistema di cambi fissi a un sistema di cambi flessibili viene solitamente anticipato e seguito da ingenti fughe di capitale all’estero. Una più agevole gestione della transizione richiederebbe allora il ripristino di efficaci meccanismi di controllo dei movimenti di capitale. 2) In secondo luogo, bisognerebbe tener conto del fatto che l’uscita dall’euro potrebbe comportare una caduta della quota salari e dello stesso potere d’acquisto dei salari anche in presenza di un’inflazione moderata. Se la dinamica dei rapporti di forza tra le classi sociali genera salari nominali stagnanti o addirittura declinanti, gli effetti di un’uscita dall’euro sui prezzi e sulla distribuzione potrebbero risultare tutt’altro che trascurabili. La caduta della quota salari negli anni successivi all’uscita dallo Sme è indicativo, in questo senso. Affermare che tale andamento sia stato dovuto all’accordo sul costo del lavoro, senza alcun nesso tra questo e lo sganciamento dal sistema dei cambi fissi, mi fare francamente azzardato. Il problema che dunque si pone, almeno dal punto di vista degli interessi del lavoro subordinato, consiste nella individuazione di criteri che consentano di evitare che il peso di un deprezzamento del cambio si scarichi interamente sui salari. L’ideale, naturalmente, sarebbe il ripristino di meccanismi di indicizzazione dei salari e di controllo amministrativo di alcuni prezzi “base”. Ma anche la ricerca di alleanze finalizzate alla reintroduzione di limiti alla libera circolazione delle merci, che consentano di controllare maggiormente la dinamica del cambio, è una delle opzioni possibili. 3) Infine, un terzo aspetto che andrebbe meglio specificato è quello relativo al valore dei capitali nazionali. La letteratura sui “fire sales” successivi a una svalutazione segnala che i prezzi antecedenti a un deprezzamento scontano solo in parte gli effetti del medesimo. Ciò implica che dopo una eventuale uscita dall’euro il valore degli assets nazionali potrebbe precipitare ulteriormente, al punto da creare condizioni favorevoli per acquisizioni estere a buon mercato. Pertanto, se si vuole che l’uscita dall’euro non venga fatta coincidere con una perniciosa svendita di capitali nazionali, bisognerebbe limitare anziché favorire le acquisizioni estere. In altri ambiti già si discute apertamente di questi problemi. Sarebbe il caso che anche a sinistra venissero affrontati.
Tutte queste considerazioni possono riassumersi nei seguenti termini. Al di là dei loro anatemi, i difensori “senza se e senza ma” della zona euro non sembrano avere argomenti convincenti a sostegno delle loro posizioni. Tuttavia, anche i fautori di un’uscita dall’euro in condizioni di libera circolazione dei capitali e delle merci sembrano sottovalutare le implicazioni negative di una simile opzione. Può dunque essere opportuno delineare una terza opzione, che potremmo riassumere così: se salta la moneta unica, occorre rendere esplicito che ai paesi periferici dell’Unione potrebbe convenire far saltare anche il mercato unico europeo.
E’ bene chiarire, al di là delle apparenze, che questo indirizzo politico non è necessariamente disfattista, ma al contrario potrebbe rivelarsi l’unica vera chance per salvare una Unione europea ormai appesa a un filo. In questo senso, nel libroL’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa, abbiamo sostenuto che l’esplicito riferimento a una opzione “neo-protezionista” rappresenta forse l’ultima carta che i paesi periferici potrebbero credibilmente giocare in sede europea per convincere la Germania che la crisi dell’Unione rischia di costar cara anche ai paesi più forti. E’ bene infatti ricordare che in Germania i portatori degli interessi prevalenti si sono già dichiarati pronti a sopportare i costi di una eventuale esplosione della moneta unica, sia in termini di perdita temporanea di competitività che di svalorizzazione dei crediti verso l’estero. L’unica prospettiva che essi sembrano davvero temere è che la crisi dell’euro metta in discussione anche il mercato unico europeo, sul quale l’economia tedesca ha lungamente prosperato e su cui si fonda l’attuale processo di centralizzazione dei capitali e di relativa “mezzogiornificazione” delle periferie europee.
Quanto siamo lontani dalla prospettiva evocata? anni luce, considerato che il Professor Monti rappresenta uno dei più strenui difensori del liberoscambismo europeo. Se anche la moneta unica dovesse saltare in aria, egli di certo non oserebbe mettere in discussione il mercato unico europeo. A pensarci bene, un miglior garante per i “falchi” tedeschi non lo si poteva trovare. Complimenti quindi ai numerosi demiurghi del governo Monti: al di là delle volgarizzazioni mediatiche, il capolavoro strategico di mettere un irriducibile liberoscambista a palazzo Chigi potrebbe un giorno essere riletto come un co-fattore non trascurabile dei ripetuti fallimenti delle trattative europee di questi mesi. Monti verrà dunque ricordato come l’ultimo dei danni provocati in questi anni dai “liberoscambisti di sinistra”? Anche solo augurarselo pare fin troppo ottimistico.
* Fonte: Emiliano Brancaccio
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