Cossutta, Bertinotti e Diliberto, ai tempi di Prodi |
altamente improbabile
di Leonardo Mazzei
Potrà nascere in Italia qualcosa che assomigli (pur senza mitizzarla, che anzi l'abbiamo a più riprese criticata) alla coalizione greca di Syriza? E' una domanda che si vanno ponendo in molti. E' una domanda importante oltre che legittima. Cerchiamo perciò di dare qualche risposta.
1. Meriti e limiti di Syriza
Il merito principale di Syriza è stato quello di aver saputo incanalare e raccogliere, almeno elettoralmente, la forte radicalizzazione che attraversa la società greca. Da quasi tre anni la Grecia vede in piazza un potente movimento sociale. Un movimento che non è riuscito a fermare le scelte del blocco dominante, a sua volta eterodiretto dalle istituzione europee e dal Fmi, ma che non ha mai abbassato la testa. L'immagine di questo movimento è quella della capitale in fiamme, nel pomeriggio di domenica 12 febbraio (vedi La disfatta e la (possibile) riscossa), mentre il parlamento approvava i nuovi sacrifici imposta dalla troika (Ue, Bce, Fmi).
I limiti risiedono in una linea che ad un no chiaro al Memorandum imposto dall'Europa, fa corrispondere un programma assai evanescente. Syriza si è presentata alle elezioni del 6 maggio, e poi a quelle decisive del 17 giugno, con l'illusione della «rinegoziazione del debito» in un'Europa «più a sinistra», anche alla luce della vittoria di Hollande in Francia. I suoi dirigenti, a partire dal leader Alexis Tsipras, hanno sempre sostenuto di non voler uscire dall'Unione e dall'euro, ma di volervi invece rimanere, solo con qualche sconto sui sacrifici richiesti. Pur augurandoci il suo successo elettorale, abbiamo segnalato negativamente questa impostazione prima del voto di giugno (vedi, ad esempio, La sinistra greca alla prova del fuoco). Ed una critica analoga è stata espressa, dopo il voto, anche da Emiliano Brancaccio nell'articolo Syriza? Paga per la sua ambiguità.
Syriza non è dunque quel che molti in Italia pensano, basti pensare alla sua accettazione della Nato. E tuttavia la domanda di una «Syriza italiana» è comprensibile, visto lo stato comatoso in cui versa la cosiddetta sinistra radicale, sia nella sua componente governista e Pd-dipendente, sia in quella antagonista e di opposizione.
2. Una differenza decisiva: l'alternatività alla sinistra del capitale
Quel che differenzia la sinistra greca (oltre a Syriza, il Kke e le altre formazioni minori) dalla sinistra italiana, è l'alternatività rispetto alle forze di quella che possiamo definire come «sinistra del capitale», in Grecia il Pasok, in Italia il Pd. Questa differenza sarà anche dipesa dalla diversa strutturazione dei sistemi politici, ma alla fine è proprio questo il punto decisivo che rende così difformi i panorami politici dei due paesi.
La sinistra greca non si è compromessa nelle alleanze di «centrosinistra», esattamente il contrario di quel che ha fatto la sinistra italiana. Le formazioni che hanno preso vita dopo lo scioglimento del Pci del 1991 (Prc, Pdci, Sel), non hanno invece mai avuto un orizzonte strategico che guardasse oltre l'alleanza con il carrozzone Pds-Ds-Pd. Si pensa forse che vent'anni di politica opportunista possano essere cancellati con un colpo di spugna? A qualcuno potrebbe oggi tornar comodo, ma non si riconquista in breve tempo la credibilità perduta in un tragitto così lungo. Del resto le tre formazioni di cui sopra si sono alleate con il partito di Bersani perfino alle amministrative del maggio scorso, dunque non con un Pd all'opposizione del governo Berlusconi, bensì con un Pd impegnato a sostenere con convinzione l'esecutivo Monti, cioè il governo più antipopolare della storia repubblicana.
Tra l'altro, se oggi il dissenso e la rabbia popolare dirige i suoi consensi su Grillo, oltre che sull'astensionismo, la ragione principale sta proprio in questa subalternità strutturale di una sinistra che si vorrebbe «radicale», ma che è invece giustamente percepita come gregaria ed interna ad un sistema politico complessivamente asservito alle oligarchie dominanti. Il grillismo ha attecchito in Italia proprio per mancanza di alternative a questo sistema, mentre in Grecia le cose sono andate diversamente grazie all'esistenza di una sinistra credibilmente alternativa.
Ecco un punto che chiamerebbe alla riflessione chi di dovere, perché è davvero illuminante il fatto che la ventennale storia del Prc abbia portato nell'attuale vicolo cieco, con il minimo di forza ed influenza politica nel momento massimo della crisi sistemica. Sarebbero andate così le cose se Rifondazione avesse quanto meno evitato di impaludarsi nelle alleanze di centrosinistra? La domanda è retorica e la risposta la conoscono tutti, ma finché i diretti interessati eviteranno come il peccato ogni seria riflessione ci vediamo costretti a riproporla.
3. Una «Syriza degli esclusi»?
Se una coalizione alla greca - radicale nella sua alternatività alla sinistra del capitale, anche se subalterna rispetto al Moloch europeo - può essere esclusa, sembra invece affacciarsi l'ipotesi di una sorta di «Syriza degli esclusi». Il motore di questa ipotetica costruzione non sarebbero tanto le forze che ne farebbero parte, quanto il meccanismo escludente messo eventualmente in moto dal Pd.
Ognuno capisce quale sarebbe la forza, meglio dire la debolezza, di una siffatta coalizione. Essa non sarebbe un «fronte del rifiuto» (rifiuto dei diktat europei e delle forze che li traducono in atti politici in Italia), bensì un'accozzaglia del «non possiamo fare altro».
Paolo Ferrero, ora che vede messa in dubbio (dal Pd, beninteso) la propria tradizionale politica delle alleanze elettorali, scopre Syriza, così come due mesi fa lanciava appelli a fare ilFront de Gauche come in Francia. Evidentemente, più che un giudizio di merito la ricerca è quella - assai disperata - di un'ancora di salvataggio. Leggiamo l'ex ministro del governo Prodi: «Per la prima volta una forza di sinistra contro le politiche di austerità europee, dichiaratamente antiliberista e anticapitalista, raggiunge una percentuale del 27% e complessivamente le forze della sinistra antiliberista arrivano attorno al 40%. Lo fa in nome di un’altra Europa, di una Europa democratica basta sui diritti sociali e civili, dove il rovesciamento delle attuali politiche europee non è finalizzato ad un nuovo nazionalismo ma ad una nuova Europa».
Da notare il doppio richiamo all'Europa - l'altra Europa, una nuova Europa - contrapposti al «nazionalismo», ovviamente evocato per negare anche solo una discussione sul tabù della sovranità nazionale. Altrettanto ovviamente, Ferrero evita ogni riflessione autocritica. Bisogna fare una Syriza italiana solo perché oggi questa sembra l'unica possibilità per rimettere piede nelle aule parlamentari.
Se questo è Ferrero, potete immaginarvi Vendola. Costui ha reagito all'asse Bersani-Casini accoppiandosi con Di Pietro. Bersani (ed anche Casini) lo vorrebbero come copertura a sinistra del montismo nella prossima legislatura. Di Pietro invece non lo vogliono. A volte è un populista, parla male l'italiano e sputacchia mentre impreca in molisano: non può entrare nel salotto della sinistra capitalista, il galateo lo impedisce.
Il leader di Sel lo ha perciò provvisoriamente agganciato, pur di non acconciarsi da subito ad un ruolo da portatore d'acqua. Ma quanto durerà? In ogni caso Vendola ha già sbattuto la porta in faccia ai fautori della Syriza italiana. Relazionando alla direzione di Sel ha parlato di «costruire un vero centrosinistra (sic!) con chi ci sta», precisando che l'eventuale fallimento dell'alleanza con il Pd «non deve essere la giustificazione per un rinculo verso posizioni minoritarie ed estremiste». (il Manifesto, 10 luglio 2012)
Vedremo come andranno le cose, ma francamente non si capisce bene quale spazio potrebbe avere uno schieramento Vendola-Di Pietro tutto teso a reclamare un «vero centrosinistra», schiacciato tra un Pd tutto interno all'asse montista ma formalmente alternativo a Berlusconi, ed un Grillo a caccia nelle praterie della protesta contro il sistema politico.
Ad ogni modo, niente Syriza per il governatore pugliese. A proporla resterebbe soltanto la Federazione della Sinistra, o meglio una sua parte, sia pure quella maggioritaria che fa capo al Prc. Diliberto e Salvi, infatti, non la pensano come Ferrero. Illuminanti sono le domande retoriche poste dal segretario del Pdci a chi lo ha interpellato sulla Syriza italiana: «Ci siamo rassegnati a consegnare le socialdemocrazie al campo delle compatibilità mercatiste e monetariste del tecno-liberismo? Dobbiamo smettere di scavare nelle contraddizioni del socialismo europeo?». Vi stupireste se lo scavo di questo indiscusso leader dell'opportunismo falce-martellato lo facesse riemergere (come si vocifera) in uno dei due rami del parlamento, previa candidatura nelle liste del Pd?
4. La confusa situazione italiana
La Syriza italiana sembra dunque messa davvero male. Probabilmente non nascerà, ma se invece dovesse nascere, la sua credibilità sarebbe quasi pari a zero. In ogni caso niente avrebbe a che fare con il suo modello greco, che pure non idealizziamo affatto.
Molte cose dipenderanno dal delinearsi degli scenari di fondo, ad oggi per niente chiari. Tre sono gli elementi da considerare. Il primo è rappresentato dalla potentissima spinta verso un governo che traghetti il montismo (se non direttamente Monti) nella prossima legislatura. Il secondo si chiama legge elettorale, cioè il dispositivo attraverso il quale il sistema politico prende forma. Il terzo è rappresentato dagli interessi dei maggiori partiti, oggi un po' dietro le quinte ma non certo scomparsi.
La spinta verso la prosecuzione dell'attuale politica, più o meno con la stessa maggioranza, è fortissima. I registi del golpe novembrino non vogliono sorprese. Basti pensare a quel che già si legge sulla stampa, secondo cui le attuali tensioni sullo spread sarebbero legate... all'incertezza del dopo-Monti! L'ideale, per loro, sarebbe la permanenza di Monti a Palazzo Chigi. La subordinata è un governo con un altro premier, ma con la stessa maggioranza Pd-Pdl-Udc; un raggruppamento forse ancora sufficiente a governare, ma cotto al punto giusto per eseguire senza fiatare gli ordini degli aguzzini della finanza.
Questa spinta, alimentata com'è dagli sviluppi della crisi, appare destinata ad imporsi. Ma la sua traduzione concreta potrebbe avere diversi svolgimenti, laddove le diversità sono legate in particolare alla legge elettorale. Resterà quella attuale? Ne verrà approvata una nuova, e quale? Al momento non lo sappiamo, anche perché - con la profonda crisi dei principali partiti, quelli che sostengono il governo - non esiste una legge elettorale magicamente autosufficiente a disegnare lo scenario ideale per il blocco dominante.
Il terzo elemento - quello degli specifici interessi dei principali partiti - non ha più il peso di una volta. In tempi di ordinaria amministrazione la politica ha una sua (relativa) autonomia dalla sfera economica; in tempi di crisi, e di «stato d'eccezione», come quelli che viviamo, i partiti della classe dominante sono invece davvero ridotti ad un mero ruolo di servizio dei propri committenti, ed ogni autonomia è considerata una bestemmia. Tuttavia, benché privi di autonomia, gli interessi specifici di ogni partito restano in campo. Ne è un esempio la ricandidatura di Berlusconi, che non mira a vincere le elezioni (come ridiranno i beoti dell'antiberlusconismo), ma semplicemente a ridurre i danni della sconfitta, per potersi poi sedere di nuovo insieme al finto nemico della contesa elettorale in condizioni meno disastrose.
Ora, siccome Berlusconi non è un candidato qualunque, possiamo immaginarci gli effetti che produrrà nel vecchio centrosinistra. Davvero il Pd vorrà rinunciare all'alleanza con Vendola e Di Pietro? Certo, potrebbe farlo qualora un nuovo sistema elettorale cancellasse i premi di coalizione. Ma resterebbe il nodo della copertura a sinistra, problema quanto mai acuto ogni qual volta si va a destra. Può permettersi il Pd una corsa solitaria, con ai fianchi Berlusconi e Grillo? Chi scrive non lo pensa. Una copertura a sinistra, peraltro a bassissimo prezzo come quella offerta dal duo molisano-pugliese, sarebbe l'ideale per Bersani. Un modo per non tracollare elettoralmente, in vista di una rinnovata alleanza ABC, sempre motivata dall'emergenza economica e dall'assenza di altre maggioranze.
5. Conclusioni
Anche queste ultime considerazioni ci dicono che ben difficilmente nascerà, fosse solo per necessità di sopravvivenza, una Syriza italiana. Non solo Vendola, e quel che gli gira attorno, non ci staranno. Non solo non ci starà una Fiom ormai in ritirata. Non ci starà la neonata Alba, che non potrà certo reggere al richiamo dell'antiberlusconismo. Resterà la sola FdS, per giunta spaccata. Un po' poco per puntare al ruolo di Syriza.
Ovviamente questo nostro ragionamento si presta ad una critica assai forte, quella di essere fondato su un'analisi politicista che prescinde in buona parte dai contenuti. Critica giusta e facilmente accoglibile. Chi scrive ha ritenuto infatti di dover svolgere il tema della cosiddettaSyriza italiana a partire dalle ragioni squisitamente politiche, se vogliamo anche quelle più legate agli interessi di certo politicantismo, piuttosto che dai contenuti in termini di prospettiva e di programmi. Questo per una semplice ragione, perché qualora fossimo partiti dalla prospettiva e dai programmi il discorso si sarebbe chiuso alla svelta, concludendo in tre righe sull'impossibilità di una rigenerazione - alla greca - della marcescente sinistra italiana.
L'alternativa che dovrà nascere, e che siamo convinti prima o poi nascerà, dovrà invece basarsi su programmi capaci di costruire un'alternativa immediata alla gestione della crisi da parte delle oligarchie finanziarie che l'hanno generata, il tutto nella prospettiva di una sollevazione popolare che cancelli, insieme al suo sistema di potere, l'intera classe politica della seconda repubblica. Altro che Syriza italiana! Qui ci vuole un fronte che sappia dire e proporre le cose davvero necessarie: cacciare Monti e chi lo sostiene, uscire dall'Europa della grande finanza, tornare alla sovranità monetaria, cancellare un debito insostenibile e nazionalizzare il sistema bancario.
Chi dirà, o comincerà a dire almeno in parte, queste cose, sarà dalla parte giusta. Chi invece continuerà a volgere lo sguardo altrove si ritroverà ben presto nella pattumiera della storia. Non è scimmiottando ieri i francesi ed oggi i greci, per giunta sempre e solo sul terreno elettorale, che si faranno dei passi avanti. Che si cominci ad enucleare un programma alternativo, che si rompa frontalmente con la sinistra del capitale, cioè con il Pd, che si inizi a comprendere la necessità di attrezzarsi ad una lotta per il potere. A quel punto, e solo a quel punto, anche la discussione su un blocco elettorale in vista del voto del 2013 avrebbe un senso.
Oggi, la Syriza italiana di cui si parla somiglia più ad un salvagente per un ceto politico fallito, che ad uno strumento per la costruzione di un'alternativa. Ecco perché pensiamo che non abbia la forza per nascere. E se invece dovesse prendere vita solo come assemblaggio degli esclusi dal Pd, sarebbe ancora peggio.
Potrà nascere in Italia qualcosa che assomigli (pur senza mitizzarla, che anzi l'abbiamo a più riprese criticata) alla coalizione greca di Syriza? E' una domanda che si vanno ponendo in molti. E' una domanda importante oltre che legittima. Cerchiamo perciò di dare qualche risposta.
1. Meriti e limiti di Syriza
Il merito principale di Syriza è stato quello di aver saputo incanalare e raccogliere, almeno elettoralmente, la forte radicalizzazione che attraversa la società greca. Da quasi tre anni la Grecia vede in piazza un potente movimento sociale. Un movimento che non è riuscito a fermare le scelte del blocco dominante, a sua volta eterodiretto dalle istituzione europee e dal Fmi, ma che non ha mai abbassato la testa. L'immagine di questo movimento è quella della capitale in fiamme, nel pomeriggio di domenica 12 febbraio (vedi La disfatta e la (possibile) riscossa), mentre il parlamento approvava i nuovi sacrifici imposta dalla troika (Ue, Bce, Fmi).
I limiti risiedono in una linea che ad un no chiaro al Memorandum imposto dall'Europa, fa corrispondere un programma assai evanescente. Syriza si è presentata alle elezioni del 6 maggio, e poi a quelle decisive del 17 giugno, con l'illusione della «rinegoziazione del debito» in un'Europa «più a sinistra», anche alla luce della vittoria di Hollande in Francia. I suoi dirigenti, a partire dal leader Alexis Tsipras, hanno sempre sostenuto di non voler uscire dall'Unione e dall'euro, ma di volervi invece rimanere, solo con qualche sconto sui sacrifici richiesti. Pur augurandoci il suo successo elettorale, abbiamo segnalato negativamente questa impostazione prima del voto di giugno (vedi, ad esempio, La sinistra greca alla prova del fuoco). Ed una critica analoga è stata espressa, dopo il voto, anche da Emiliano Brancaccio nell'articolo Syriza? Paga per la sua ambiguità.
Syriza non è dunque quel che molti in Italia pensano, basti pensare alla sua accettazione della Nato. E tuttavia la domanda di una «Syriza italiana» è comprensibile, visto lo stato comatoso in cui versa la cosiddetta sinistra radicale, sia nella sua componente governista e Pd-dipendente, sia in quella antagonista e di opposizione.
2. Una differenza decisiva: l'alternatività alla sinistra del capitale
Quel che differenzia la sinistra greca (oltre a Syriza, il Kke e le altre formazioni minori) dalla sinistra italiana, è l'alternatività rispetto alle forze di quella che possiamo definire come «sinistra del capitale», in Grecia il Pasok, in Italia il Pd. Questa differenza sarà anche dipesa dalla diversa strutturazione dei sistemi politici, ma alla fine è proprio questo il punto decisivo che rende così difformi i panorami politici dei due paesi.
La sinistra greca non si è compromessa nelle alleanze di «centrosinistra», esattamente il contrario di quel che ha fatto la sinistra italiana. Le formazioni che hanno preso vita dopo lo scioglimento del Pci del 1991 (Prc, Pdci, Sel), non hanno invece mai avuto un orizzonte strategico che guardasse oltre l'alleanza con il carrozzone Pds-Ds-Pd. Si pensa forse che vent'anni di politica opportunista possano essere cancellati con un colpo di spugna? A qualcuno potrebbe oggi tornar comodo, ma non si riconquista in breve tempo la credibilità perduta in un tragitto così lungo. Del resto le tre formazioni di cui sopra si sono alleate con il partito di Bersani perfino alle amministrative del maggio scorso, dunque non con un Pd all'opposizione del governo Berlusconi, bensì con un Pd impegnato a sostenere con convinzione l'esecutivo Monti, cioè il governo più antipopolare della storia repubblicana.
Tra l'altro, se oggi il dissenso e la rabbia popolare dirige i suoi consensi su Grillo, oltre che sull'astensionismo, la ragione principale sta proprio in questa subalternità strutturale di una sinistra che si vorrebbe «radicale», ma che è invece giustamente percepita come gregaria ed interna ad un sistema politico complessivamente asservito alle oligarchie dominanti. Il grillismo ha attecchito in Italia proprio per mancanza di alternative a questo sistema, mentre in Grecia le cose sono andate diversamente grazie all'esistenza di una sinistra credibilmente alternativa.
Ecco un punto che chiamerebbe alla riflessione chi di dovere, perché è davvero illuminante il fatto che la ventennale storia del Prc abbia portato nell'attuale vicolo cieco, con il minimo di forza ed influenza politica nel momento massimo della crisi sistemica. Sarebbero andate così le cose se Rifondazione avesse quanto meno evitato di impaludarsi nelle alleanze di centrosinistra? La domanda è retorica e la risposta la conoscono tutti, ma finché i diretti interessati eviteranno come il peccato ogni seria riflessione ci vediamo costretti a riproporla.
3. Una «Syriza degli esclusi»?
Se una coalizione alla greca - radicale nella sua alternatività alla sinistra del capitale, anche se subalterna rispetto al Moloch europeo - può essere esclusa, sembra invece affacciarsi l'ipotesi di una sorta di «Syriza degli esclusi». Il motore di questa ipotetica costruzione non sarebbero tanto le forze che ne farebbero parte, quanto il meccanismo escludente messo eventualmente in moto dal Pd.
Ognuno capisce quale sarebbe la forza, meglio dire la debolezza, di una siffatta coalizione. Essa non sarebbe un «fronte del rifiuto» (rifiuto dei diktat europei e delle forze che li traducono in atti politici in Italia), bensì un'accozzaglia del «non possiamo fare altro».
Paolo Ferrero, ora che vede messa in dubbio (dal Pd, beninteso) la propria tradizionale politica delle alleanze elettorali, scopre Syriza, così come due mesi fa lanciava appelli a fare ilFront de Gauche come in Francia. Evidentemente, più che un giudizio di merito la ricerca è quella - assai disperata - di un'ancora di salvataggio. Leggiamo l'ex ministro del governo Prodi: «Per la prima volta una forza di sinistra contro le politiche di austerità europee, dichiaratamente antiliberista e anticapitalista, raggiunge una percentuale del 27% e complessivamente le forze della sinistra antiliberista arrivano attorno al 40%. Lo fa in nome di un’altra Europa, di una Europa democratica basta sui diritti sociali e civili, dove il rovesciamento delle attuali politiche europee non è finalizzato ad un nuovo nazionalismo ma ad una nuova Europa».
Da notare il doppio richiamo all'Europa - l'altra Europa, una nuova Europa - contrapposti al «nazionalismo», ovviamente evocato per negare anche solo una discussione sul tabù della sovranità nazionale. Altrettanto ovviamente, Ferrero evita ogni riflessione autocritica. Bisogna fare una Syriza italiana solo perché oggi questa sembra l'unica possibilità per rimettere piede nelle aule parlamentari.
Se questo è Ferrero, potete immaginarvi Vendola. Costui ha reagito all'asse Bersani-Casini accoppiandosi con Di Pietro. Bersani (ed anche Casini) lo vorrebbero come copertura a sinistra del montismo nella prossima legislatura. Di Pietro invece non lo vogliono. A volte è un populista, parla male l'italiano e sputacchia mentre impreca in molisano: non può entrare nel salotto della sinistra capitalista, il galateo lo impedisce.
Il leader di Sel lo ha perciò provvisoriamente agganciato, pur di non acconciarsi da subito ad un ruolo da portatore d'acqua. Ma quanto durerà? In ogni caso Vendola ha già sbattuto la porta in faccia ai fautori della Syriza italiana. Relazionando alla direzione di Sel ha parlato di «costruire un vero centrosinistra (sic!) con chi ci sta», precisando che l'eventuale fallimento dell'alleanza con il Pd «non deve essere la giustificazione per un rinculo verso posizioni minoritarie ed estremiste». (il Manifesto, 10 luglio 2012)
Vedremo come andranno le cose, ma francamente non si capisce bene quale spazio potrebbe avere uno schieramento Vendola-Di Pietro tutto teso a reclamare un «vero centrosinistra», schiacciato tra un Pd tutto interno all'asse montista ma formalmente alternativo a Berlusconi, ed un Grillo a caccia nelle praterie della protesta contro il sistema politico.
Ad ogni modo, niente Syriza per il governatore pugliese. A proporla resterebbe soltanto la Federazione della Sinistra, o meglio una sua parte, sia pure quella maggioritaria che fa capo al Prc. Diliberto e Salvi, infatti, non la pensano come Ferrero. Illuminanti sono le domande retoriche poste dal segretario del Pdci a chi lo ha interpellato sulla Syriza italiana: «Ci siamo rassegnati a consegnare le socialdemocrazie al campo delle compatibilità mercatiste e monetariste del tecno-liberismo? Dobbiamo smettere di scavare nelle contraddizioni del socialismo europeo?». Vi stupireste se lo scavo di questo indiscusso leader dell'opportunismo falce-martellato lo facesse riemergere (come si vocifera) in uno dei due rami del parlamento, previa candidatura nelle liste del Pd?
4. La confusa situazione italiana
La Syriza italiana sembra dunque messa davvero male. Probabilmente non nascerà, ma se invece dovesse nascere, la sua credibilità sarebbe quasi pari a zero. In ogni caso niente avrebbe a che fare con il suo modello greco, che pure non idealizziamo affatto.
Molte cose dipenderanno dal delinearsi degli scenari di fondo, ad oggi per niente chiari. Tre sono gli elementi da considerare. Il primo è rappresentato dalla potentissima spinta verso un governo che traghetti il montismo (se non direttamente Monti) nella prossima legislatura. Il secondo si chiama legge elettorale, cioè il dispositivo attraverso il quale il sistema politico prende forma. Il terzo è rappresentato dagli interessi dei maggiori partiti, oggi un po' dietro le quinte ma non certo scomparsi.
La spinta verso la prosecuzione dell'attuale politica, più o meno con la stessa maggioranza, è fortissima. I registi del golpe novembrino non vogliono sorprese. Basti pensare a quel che già si legge sulla stampa, secondo cui le attuali tensioni sullo spread sarebbero legate... all'incertezza del dopo-Monti! L'ideale, per loro, sarebbe la permanenza di Monti a Palazzo Chigi. La subordinata è un governo con un altro premier, ma con la stessa maggioranza Pd-Pdl-Udc; un raggruppamento forse ancora sufficiente a governare, ma cotto al punto giusto per eseguire senza fiatare gli ordini degli aguzzini della finanza.
Questa spinta, alimentata com'è dagli sviluppi della crisi, appare destinata ad imporsi. Ma la sua traduzione concreta potrebbe avere diversi svolgimenti, laddove le diversità sono legate in particolare alla legge elettorale. Resterà quella attuale? Ne verrà approvata una nuova, e quale? Al momento non lo sappiamo, anche perché - con la profonda crisi dei principali partiti, quelli che sostengono il governo - non esiste una legge elettorale magicamente autosufficiente a disegnare lo scenario ideale per il blocco dominante.
Il terzo elemento - quello degli specifici interessi dei principali partiti - non ha più il peso di una volta. In tempi di ordinaria amministrazione la politica ha una sua (relativa) autonomia dalla sfera economica; in tempi di crisi, e di «stato d'eccezione», come quelli che viviamo, i partiti della classe dominante sono invece davvero ridotti ad un mero ruolo di servizio dei propri committenti, ed ogni autonomia è considerata una bestemmia. Tuttavia, benché privi di autonomia, gli interessi specifici di ogni partito restano in campo. Ne è un esempio la ricandidatura di Berlusconi, che non mira a vincere le elezioni (come ridiranno i beoti dell'antiberlusconismo), ma semplicemente a ridurre i danni della sconfitta, per potersi poi sedere di nuovo insieme al finto nemico della contesa elettorale in condizioni meno disastrose.
Ora, siccome Berlusconi non è un candidato qualunque, possiamo immaginarci gli effetti che produrrà nel vecchio centrosinistra. Davvero il Pd vorrà rinunciare all'alleanza con Vendola e Di Pietro? Certo, potrebbe farlo qualora un nuovo sistema elettorale cancellasse i premi di coalizione. Ma resterebbe il nodo della copertura a sinistra, problema quanto mai acuto ogni qual volta si va a destra. Può permettersi il Pd una corsa solitaria, con ai fianchi Berlusconi e Grillo? Chi scrive non lo pensa. Una copertura a sinistra, peraltro a bassissimo prezzo come quella offerta dal duo molisano-pugliese, sarebbe l'ideale per Bersani. Un modo per non tracollare elettoralmente, in vista di una rinnovata alleanza ABC, sempre motivata dall'emergenza economica e dall'assenza di altre maggioranze.
5. Conclusioni
Anche queste ultime considerazioni ci dicono che ben difficilmente nascerà, fosse solo per necessità di sopravvivenza, una Syriza italiana. Non solo Vendola, e quel che gli gira attorno, non ci staranno. Non solo non ci starà una Fiom ormai in ritirata. Non ci starà la neonata Alba, che non potrà certo reggere al richiamo dell'antiberlusconismo. Resterà la sola FdS, per giunta spaccata. Un po' poco per puntare al ruolo di Syriza.
Ovviamente questo nostro ragionamento si presta ad una critica assai forte, quella di essere fondato su un'analisi politicista che prescinde in buona parte dai contenuti. Critica giusta e facilmente accoglibile. Chi scrive ha ritenuto infatti di dover svolgere il tema della cosiddettaSyriza italiana a partire dalle ragioni squisitamente politiche, se vogliamo anche quelle più legate agli interessi di certo politicantismo, piuttosto che dai contenuti in termini di prospettiva e di programmi. Questo per una semplice ragione, perché qualora fossimo partiti dalla prospettiva e dai programmi il discorso si sarebbe chiuso alla svelta, concludendo in tre righe sull'impossibilità di una rigenerazione - alla greca - della marcescente sinistra italiana.
L'alternativa che dovrà nascere, e che siamo convinti prima o poi nascerà, dovrà invece basarsi su programmi capaci di costruire un'alternativa immediata alla gestione della crisi da parte delle oligarchie finanziarie che l'hanno generata, il tutto nella prospettiva di una sollevazione popolare che cancelli, insieme al suo sistema di potere, l'intera classe politica della seconda repubblica. Altro che Syriza italiana! Qui ci vuole un fronte che sappia dire e proporre le cose davvero necessarie: cacciare Monti e chi lo sostiene, uscire dall'Europa della grande finanza, tornare alla sovranità monetaria, cancellare un debito insostenibile e nazionalizzare il sistema bancario.
Chi dirà, o comincerà a dire almeno in parte, queste cose, sarà dalla parte giusta. Chi invece continuerà a volgere lo sguardo altrove si ritroverà ben presto nella pattumiera della storia. Non è scimmiottando ieri i francesi ed oggi i greci, per giunta sempre e solo sul terreno elettorale, che si faranno dei passi avanti. Che si cominci ad enucleare un programma alternativo, che si rompa frontalmente con la sinistra del capitale, cioè con il Pd, che si inizi a comprendere la necessità di attrezzarsi ad una lotta per il potere. A quel punto, e solo a quel punto, anche la discussione su un blocco elettorale in vista del voto del 2013 avrebbe un senso.
Oggi, la Syriza italiana di cui si parla somiglia più ad un salvagente per un ceto politico fallito, che ad uno strumento per la costruzione di un'alternativa. Ecco perché pensiamo che non abbia la forza per nascere. E se invece dovesse prendere vita solo come assemblaggio degli esclusi dal Pd, sarebbe ancora peggio.
Nessun commento:
Posta un commento