L'Europa durante la 1. Guerra mondiale |
di Sergio Cesaratto*
Il compagno Cesaratto compie un'oculata analisi della crisi dell'eurozona e attribuisce alla politica di "mercantilismo monetario" della Germania la causa prima della crisi sistemica dell'Unione. Politiche keynesiane di sostegno alla domanda aggregata e di riequilibrio delle partite correnti potrebbero, per Cesaratto, evitare la fine dell'euro e dell'unione. Egli ritiene tuttavia che oramai sia troppo tardi. Che una cura keynesiana possa far uscire il capitalismo dal marasma, noi dubitiamo. Ma il discorso è serio, ben più che la terapia monetaria miracolosa della MMT.
Il 2 marzo il primo ministro italiano dichiarava al termine di un vertice europeo che la crisi finanziaria era uscita per un po’ di scena “speriamo per sempre.” La battuta, oltre che improvvida, suona persino cinica se si pensa che in quel meeting il primo ministro spagnolo aveva disperatamente chiesto, fra l’ostilità dei suoi colleghi, un allentamento degli obiettivi di rientro del disavanzo pubblico - questo è stato dell’8,5% nel 2011 contro un obiettivo del 6%, mentre il perseguimento dell’obiettivo del 4,4% nel 2012 comporterebbe una manovra aggiuntiva di €44 miliardi tale da distruggere lo stato sociale spagnolo, a detta di Mariano Rajoy, e se questo è troppo persino per un conservatore spagnolo, v’è da crederci (Eurointelligence). Il “successo” del taglio al debito privato greco non tragga in inganno, quel paese è spacciato e il resto del debito è sulle spalle del resto dell’Europa, compreso sui paesi che come l’Italia non hanno responsabilità in merito a differenza della Germania (qui).
1. La situazione europea è in verità drammatica e non s’intravedono vie d’uscita. Non che queste in via di principio non esistano, e questo è il grottesco della situazione. Un percorso di crescita e di riproposizione del modello sociale europeo sarebbe possibilissimo e alla portata. Ad esso si frappongono tuttavia scelte nazionali che solo gli sciocchi definiscono egoistiche. Ho più volte scritto, ricordando gli insegnamenti del realismo politico (che fu anche di Tucidide, di Machiavelli, di Hobbes), che nelle relazioni internazionali non valgono valori morali, tantomeno fra economie capitalistiche.
Queste sono guidate da borghesie nazionali con i propri disegni, e in molti casi attorno a questi si raccoglie il consenso della maggioranza della popolazione, incluse le classi sociali e relative rappresentanze tradizionalmente d’orientamento progressista. Infatti, difficilmente qualcuno saprebbe fornire un esempio di quella che un tempo si definiva “solidarietà internazionalista” (che non siano scelte individuali di partire volontari per qualche nobile causa). Non se ne vede traccia oggi in Europa. Figuriamoci poi evocare solidarietà europee fra paesi capitalistici. Nondimeno i paesi, in particolare quelli più importanti, hanno responsabilità - ne sappiamo qualcosa quando vediamo la Cina non prendersene. La stabilità internazionale, politica ed economica, non può essere garantita che dalle potenze egemoni, come il grande Charles Kindleberger insegnava, il quale alla mancanza di un hegemon attribuiva la responsabilità della prima grande crisi. Quindi il giudizio sui paesi è politico, non morale. Ciò a cui assistiamo oggi in Europa è che se la potenza che dovrebbe assicurare crescita e stabilità non lo fa, essa da soluzione diventa il problema.
Tale potenza non ha certamente tutte le responsabilità nell’aver creato il mostro economico-istituzionale in cui ci troviamo a muovere, l’Unione Monetaria Europea (EMU). Lascio agli storici il giudizio sulla vulgata che l’EMU sia stato il pedaggio che la Germania ha dovuto pagare alla Francia per l’unificazione - per cui, in fondo, esso è frutto di un problema tedesco di natura secolare. Non mi sembra un esercizio ora utile quello di colpevolizzare la Germania sino a questo punto, lasciamo che i morti seppelliscano i morti, e questo valga per tutti.[1] I francesi erano preoccupati che la Germania si rafforzasse in termini relativi e guardasse a Oriente (che va ben oltre l’Europa). Bene, lo sta comunque facendo, anzi, il fallimento acclarato dell’UME rafforza tale forza relativa - come il palese mutamento dei rapporti di forza fra Francia e Germania dimostra - oltre che le spinte a Oriente ed extra-Europee della Germania.
Se quello scambio doveva assicurare l’ancoraggio europeo della Germania, allora esso non solo è fallito, ma ha peggiorato le cose. Non ho dubbi che le scelte economiche siano in primo luogo politiche, ma di lì a violare la legge di gravità ne passa. L’Eurozona non è quello che gli economisti chiamano un’area valutaria ottimale, gli economisti americani ci avevano avvertito, abbiamo gridato al complotto USA per impedire la nascita dell’Euro, dunque ben ci sta). Comunque la Germania non ha obbligato nessuno ad aderire a una UME in cui è stata lei tirata per i capelli.
2. Meno ossessionata dal pericolo tedesco, la decisione italiana di aderire all’UME è stata frutto del disegno di portare a compimento il cosiddetto processo di “risanamento” dei conti pubblici e della dinamica dei prezzi intrapreso negli anni 1990 - e a ben vedere sul finire degli anni ’70 con l’adesione al sistema monetario europeo (SME) e il golpe bianco con cui nel 1981 la Banca Centrale assunse indipendenza dal Tesoro. Il combinato disposto di SME e “divorzio” fu alla base dell’esplosione del debito pubblico e del debito estero,[2] e ciò doveva indurre cautela circa l’opportunità di aderire all’UME. Si preferì invece attribuire la causa della crescita del debito alle malefatte dei cosiddetti governi del CAF (Craxi-Andreotti-Forlani), piuttosto che agli sprovveduti consigli del prof. Monti assai influente nell’ispirare il “divorzio” (e che a buon diritto può essere accostato ad Andreatta e Ciampi nella sua paternità). Nei primissimi anni ’90 fu spazzata via la Prima Repubblica e con essa, si ritenne, il partito della spesa facile.
Cancellato ogni residuo di scala mobile e riequilibrati i conti esteri con una cospicua svalutazione, si ritenne dunque di poter riprendere il percorso di risanamento guidato, per giunta, da ben più affidabili governi di Centro-Sinistra.[3] Il perseguimento tenace dell’ingresso nella moneta unica va dunque ascritto a un disegno che prevedeva l’importazione della stabilità tedesca sia con riguardo a bassi tassi d’interesse sul debito pubblico, condizione essenziale per la sua riduzione, che al contenimento delle rivendicazioni salariali. Mentre sul primo obiettivo la scommessa fu vinta, ed anzi si generò un circolo virtuoso fra aspettative di ingresso e riduzione dei tassi, forse si sbagliarono i conti e obiettivi sul secondo punto.
In verità già dalla sconfitta alla Fiat del 1980 i sindacati dei lavoratori non avevano più rialzato la testa, come la progressiva abolizione della scala mobile e l’accettazione della concertazione nel 1993 volta al solo contenimento dei salari reali dimostrano (Stirati e Levrero qui). Se la disciplina tedesca andava importata allo scopo di abbattere il gap inflazionistico nei confronti di quel paese, questo non riguardava certo l’andamento dei salari reali – da tempo mortificante in Italia. Fattori strutturali incidono su di esso, e sono così altre le istituzioni tedesche meritevoli di importazione come l’atteggiamento meno ostile del padronato verso i lavoratori e l’attenzione dei politici al benessere della popolazione, la formazione, la dedizione della politica al successo commerciale e al consenso e benessere sociale diffusi (tutte caratteristiche, a ben vedere, di un mercantilismo che criticheremo, ma non per questi aspetti).
Il governo Monti - e gran parte del centro-sinistra - si limita invece a ritenere che le liberalizzazioni e, ahimè, le privatizzazioni dei servizi pubblici, siano la via maestra per abbattere lo zoccolo inflazionistico, una strategia che ci appare assai modesta se non in molti casi sbagliata. [4]
La scommessa ‘disciplinante’ dell’UME è stata comunque di nuovo perduta, come fu per lo SME (da cui si poté però fuggire). Quando i mercati hanno cominciato ad accorgersi che nonostante anni di stagnazione - una delle cause della mancata crescita della produttività nel paese – i dati mostravano un andamento progressivamente negativo delle partite correnti e crescente del debito estero, a cui simmetricamente si accompagnava una crescente incapacità del risparmio privato domestico di finanziare il disavanzo pubblico, gli spread sovrani sono esplosi.[5]
Certo, governi imbelli non hanno aiutato, ma la vicenda era scritta nei fondamentali, come li si usa chiamare. E Monti o mari, 300 punti di spread, il livello di agosto giudicato insostenibile, sono ancora lì. Scommettiamo che sotto non scenderanno, e perché dovrebbero?
Questa è, tuttavia, una storia italiana, come recita la pubblicità della banca senese. Tutto questo per dire che non si può certo imputare la Germania dell’esistenza dell’UME a cui, anzi, ha aderito in maniera riluttante. Che poi essa abbia aderito cercando di trarne il maggior vantaggio possibile, dettando i termini del patto, neanche glielo si può addossare: perché mai avrebbe dovuto fare altrimenti? D’altronde è la sua la disciplina che si voleva importare.
Naturalmente quei vantaggi che la Germania ha ritenuto di poter trarre si sono alla lunga rivelati, come spiegheremo poi, di carta (letteralmente). Quel paese ha oggi una scelta davanti: fra la speranza di cavarsela da sola con un’Europa che va in malora, o l’assunzione di una leadership progressista (chiamiamola così). Ho pochi dubbi sulla scelta: forze potenti si oppongono in Germania alla seconda scelta: per esempio attraverso il controllo di mass media come la Bild (10 milioni di lettori) o la “autorevole” Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ); l’accademia degli economisti tedeschi è quanto di più conservatore sia immaginabile (torneremo su questo), e così la Bundesbank - che è politicamente assai controllata (v. De Cecco qui).[6]
All’opinione pubblica tedesca sono stati propinati, probabilmente con anni di martellanti campagne, moltissimi stereotipi – uno fra tutti il timore dell’inflazione, secondo alcuni (qui: pag. 16) una invenzione della Buba. Ad essa non viene invece raccontato che il nazismo, lungi dall’essere un risultato dell’iper-inflazione del principio degli anni ’20, fu il frutto di assurde politiche francesi verso la Germania la cui natura non è dissimile da quelle che quest’ultimo paese sta imponendo ai suoi partner europei. Keynes, che questo vide nel 1919 e contro cui si batté, dovrebbe essere un idolo in Germania, fa tristezza che invece questo paese sia storicamente anti-keynesiano.
Il Terzo Reich nel 1942 3. Ma è l’opinione prevalente in Germania, in particolare nella sua classe dirigente, frutto di mera ignoranza o c’è dell’altro?[7] Come scrisse Kalecki – il grande economista polacco che anticipò Keynes – dietro l’ignoranza c’è sempre un interesse (“obstinate ignorance is usually a manifestation of underlying political motives”). E allora andiamo a questi interessi che possono giustificare il tenace attaccamento dell’establishment tedesco a un modello, che definiremo mercantilista, palesemente incompatibile se perseguito dalla quarta economia mondiale con la stabilità e la crescita economica non solo europea ma mondiale.[8] |
Per mercantilismo si intende, com’è noto, una strategia volta a perseguire avanzi commerciali. Seguendo di nuovo la lezione di Kalecki, si può dimostrare che questa è una strategia perfettamente razionale da parte dei capitalisti. Essi hanno, infatti, convenienza a comprimere quanto possibile i salari domestici allo scopo di massimizzare i propri profitti; così facendo, tuttavia, restringono il mercato interno per le loro produzioni. Ecco che i mercati esterni diventano uno sbocco naturale per quella parte del sovrappiù (la parte del prodotto sociale che non va ai lavoratori bensì ai capitalisti sotto forma di profitti) che non è possibile vendere all’interno sotto forma di consumi di lusso dei capitalisti medesimi o acquisti dallo Stato con la spesa in disavanzo (quest’ultimo mercato Kalecki chiamava esportazioni interne).
Per vendere nei mercati esteri si deve essere tuttavia competitivi. Parte di questo problema è risolto dalla premessa medesima del mercantilismo, i bassi salari.[9] Se a ciò si aggiunge un adeguato livello tecnologico, frutto anch’esso di una lontana ispirazione mercantilista volta ad assegnare priorità nazionale all’efficienza produttiva, il gioco è quasi fatto. Il gioco è perfetto se poi esso si svolge in un quadro di cambi fissi, come Bretton Woods, lo SME, l’UME.
In questo caso i paesi non-mercantilisti perdono l’unico strumento di difesa che hanno per tutelare la propria competitività: la svalutazione della moneta nazionale. Rimane un ultimo problema: i paesi mercantilisti devono essere disponibili a finanziare illimitatamente i paesi non-mercantilisti. In tal modo questi ultimi potranno continuare ad acquistare le merci dei primi. Per giunta, il flusso di capitali sosterrà le valute dei paesi non-mercantilisti impedendo la svalutazione. Questo è quello che fa la Cina nei confronti degli Stati Uniti. Questo è quello che ha fatto la Germania nei confronti dei famigerati PIGS (una sola i) e che, a quanto pare, non intende continuare a fare.
Secondo alcuni la Germania si era ben preparata a vincere la battaglia dei mercati dell’UME attraverso una decisa riforma del mercato del lavoro sotto il governatorato Schroeder, la quale aveva impresso un deciso orientamento moderato alla dinamica dei salari e dei consumi interni. Si è tentati di vedere qui una riedizione di ciò che un importante storico economico tedesco ha definito, per giunta su una pubblicazione della Bundesbank, “mercantilismo monetario”, una strategia inaugurata al principio degli anni ’50 con la benedizione del potente ministro delle finanze Erhard, il padre del miracolo economico tedesco. L’allora governatore della banca centrale tedesca (chiamata Bank Deutscher Lander sino al 1957) Wilhelm Vocke così riassumeva tale strategia:
«We have consistently remained below [the competitors’ inflation rate]. And this is our chance, that is decisive, for our currency and especially for our exports. Raising exports is vital for us, and this in turn depends on maintaining a relative low price level and wage level … As I have said, keeping the price level below that in other countries is the focal point of our efforts at the central bank, and it is a success of those efforts. That should be born in mind by those who say to us: your restrictive measures are too tight, are no longer necessary». (citato da Holtfrerich 1999: 345).
Insomma se ci sono cambi fissi, come nel sistema di Bretton Woods, l’importante è tenere l’inflazione un po’ più bassa dei concorrenti per sostenere le proprie esportazioni, pur continuando a godere di un cambio forte. Negli anni 1950 le critiche alla Germania sono così un de te fabula narratur di quelle odierne, così come quelle rivoltele unitamente al Giappone sul finire degli anni ’70 affinché essi agissero da “locomotiva” dell’economia mondiale assieme agli Stati Uniti. Con lo SME e poi con l’UME Italia, Francia e gli altri hanno voluto imitare i tedeschi al gioco della disciplina, come s’è detto, ma loro si sono sistematicamente rivelati più bravi (anche perché, come s’è detto, accanto alla disciplina hanno le istituzioni giuste).
E’ anche opinione generalmente condivisa che la costituzione dell’UME abbia favorito flussi di capitale dai paesi centrali[10] verso i paesi della periferia europea, e che questi flussi siano stati alla base della crisi (flussi che non rappresentano altro se non le menzionate anticipazioni che il sistema finanziario dei paesi mercantilisti deve concedere ai paesi non-mercantilisti).
Si ritiene in genere – anche in documenti dell’UE o del FMI - che a partire da questi flussi si sia generata una crescita effimera di paesi periferici, basata sull’edilizia in Spagna e Irlanda o sulla spesa pubblica in Grecia. Effimera perché si è tradotta, più che in uno sviluppo dell’industria nazionale, in imponenti importazioni dai paesi centrali.[11]
Questo anche dovuto al fatto che alla crescita si è accompagnata una inflazione ben superiore a quella tedesca con una conseguente perdita di competitività, a detrimento dell’industria nazionale e a favore di quella dei paesi centrali. Il corrispettivo contabile dei disavanzi esteri dei paesi periferici è nell’indebitamento dei settori privato e/o pubblico della periferia verso la Germania e gli altri paesi centrali. In Spagna e Irlanda, com’è noto a tutti tranne ai mass media tedeschi, la crisi nasce nel settore privato e solo in conseguenza della crisi il settore pubblico ne è risultato coinvolto. Tutto questo si è svolto con una “benevola disattenzione” del governo tedesco che ben sapeva cosa stava accadendo e anzi, come nel caso dell’amico governo greco, benediceva i cospicui acquisti di armamenti dalla Germania (peraltro proseguito anche dopo la crisi).[12] (Si rammenti che l’Italia non è stata coinvolta in questi flussi centro-periferia; il suo debito pubblico maturò nello SME e non è stato certo causa della crisi europea come Monti ha voluto farci credere lo scorso autunno, solo per trasmetterci un senso di colpa e farci digerire le (inutili) manovre restrittive; su questo v. la mia polemica con Guerrieri su l’Unità).
4. Nonostante sia questa l’interpretazione condivisa da buona parte degli economisti e opinionisti mondiali, essa non è l’opinione prevalente in Germania la quale è volta a mostrare questo paese come vittima, piuttosto che come beneficiario, dell’UME.[14]
Molto influente è al riguardo l’opinione di Werner Sinn, l’economista tedesco più noto e ascoltato. La sua tesi (qui) è in sostanza che le uscite di capitale dalla Germania avrebbero impoverito le capacità di investimento di questo paese, ciò che spiegherebbe la sua ridotta crescita durante gli anni dell’UME. Con l’insorgere della crisi europea, così prosegue il ragionamento, i tedeschi hanno cominciato a trattenere i capitali in Germania. Questo, accompagnato allo sforzo imprenditoriale e ad anni di moderazione salariale, avrebbe condotto a una crescita guidata dagli investimenti.
Ora tutti invece sanno (v. per esempio Banca d’Italia pag. 47) che la crescita tedesca v’è sì stata, ma guidata dalle esportazioni verso i paesi emergenti. E ciò in seguito sia al deprezzamento dell’euro che è seguito alla crisi, che alla domanda sostenuta in quelle aree. Grottesco a dirsi, anche con la crisi dell’EMU la Germania ha guadagnato, questa volta sui mercati extraeuropei. Nessuna persona ragionevole darebbe credito alle tesi di Sinn. (Sul polverone sollevato da Sinn circa il sistema di pagamento dell’Eurosistema chiamato Target 2 rimando a un mio articolo [qui o qui]: ho lì provocatoriamente sostenuto che se Sinn ritiene che la Germania sia vittima di una grande truffa finanziaria, bene, suggerisca allora un embargo delle esportazioni verso la periferia europea, di sicuro la periferia ringrazierebbe).
Si badi bene che qui non si sta accusando la Germania, o meglio l’establishment tedesco, di perseguire i propri interessi. Siamo nel capitalismo, bellezza! Sebbene non sia accettabile, almeno intellettualmente, il giustificare i propri comportamenti con tesi palesemente insostenibili. Ma il punto principale è quello di capire se tali scelte siano o no compatibili con un’unione monetaria. Munchau ha sempre sostenuto l’elite tedesca non capisce o non vuole capire (si rammenti che l’ignoranza è frutto di un interesse) come funziona un’unione monetaria. Si smetta di far finta di non saperlo, e ciascun paese si prenda le proprie responsabilità. L’UME è una sorta di gold standard. Qualunque studente del primo anno di economia sa che i costi di riaggiustamento in sistemi monetari siffatti devono ricadere sia sui paesi deficitari che su quelli in surplus. A iosa i commentatori internazionali hanno ricordato alla Germania la logica elementare per cui i paesi con disequilibri esteri negativi possono rientrare da questi solo se i paesi con disequilibri esteri positivi compiono uno sforzo simmetrico (v. qui, quie qui).
Questa logica sfugge all’establishment tedesco in un accanimento terapeutico che vede in dosi massicce di austerità la soluzione. Che questa non funzioni e aggravi solo i problemi tutti lo sanno. Così è nei casi della Grecia, della Spagna, e già si sta rivelando essere così anche per l’Italia, per cui non vale neppure la pena aggiungere nulla. Dovrei dire che affermazioni come quelle che si sono lette venerdì 9 marzo sulla FAZ mi fan letteralmente paura e fanno venir meno ogni speranza: si chiede addirittura che la BCE accresca i tassi di interesse a fronte di un insistente pericolo di inflazione.[15]
In verità se questa crescesse in Germania un po’ più degli altri paesi (cosa che purtroppo non credo stia accadendo) ciò non farebbe che riequilibrare anni in cui questo paese ha ‘giocato sporco’ perseguendo un tasso di inflazione sistematicamente inferiore al 2% (v. qui). Certo, ogni paese è libero di perseguire il tasso di inflazione che crede, ma com’on, si hanno responsabilità internazionali. Forse l’unica speranza è che il mondo commissari l’Europa (qui).
5. Le “soluzioni” sinora adottate dall’Europa si son contraddistinte per la loro inutilità, ma questo è un giudizio benevolo: esse sono in realtà nefaste. Il tribunale della storia non tratterà certamente bene la coppia Merkozy. I fondi europei (EFSF, ESM) sono uno strumento ridicolo in quanto in buona parte finanziati dai medesimi paesi indebitati.[16]
Gli interventi diretti della BCE nel sostegno ai titoli di Stato sono stati too little and too late – molti economisti hanno sostenuto che la minaccia di un intervento illimitato a sostegno dei titoli e volto a ridurre i rendimenti di tutti i titoli di stato europei a livelli sostanzialmente tedeschi avrebbe invece tranquillizzato i mercati, e la BCE non avrebbe dovuto acquistare neppure un titolo. Il LTRO che Draghi ha responsabilmente adottato per aggirare i veti tedeschi è un surrogato costoso di un intervento diretto. Delle sciagurate politiche di austerity, nefaste economicamente, indegne per l’Europa sul piano sociale, si è già detto molto. La Germania non potrà che soffrire in questa situazione, ma è probabile che essa stia già guardando altrove, a un ruolo di piccola Svizzera dell’economia mondiale. Non è, in fondo, una fine gloriosa.
La strada dell’Europeizzazione dei debiti pubblici sarebbe percorribile, ma richiederebbe anch’essa una BCE che apertamente sostenesse un debito pubblico europeo. Non v’è dubbio che ciò comporterebbe inoltre un’europeizzazione delle politiche di bilancio, la costituzione di un bilancio federale a cui trasferire molte funzioni, l’accrescimento dei trasferimenti fra le regioni ricche e quelle più sfavorite, insomma la costituzione degli Stati Uniti d’Europa. V’é oggi troppa sfiducia reciproca in Europa per pensare tale strada come percorribile, che comunque sembra assai utopistica. Né d’altro canto, dal mio punto di vista, essa sarebbe gradita necessariamente benvenuta: chi si sente di scommettere in un’ulteriore cessione di sovranità all’Europa? Certo, se l’obiettivo della piena occupazione fosse scritto a piene lettere, beh allora se ne potrebbe parlare.
Più percorribile sarebbe una strada di concertazione delle politiche fiscali espansive, con una BCE finalmente libera di agire con uno statuto simile a quello della FED. Il sostegno della domanda aggregata dovrebbe essere riconosciuto come la chiave della crescita. La stabilizzazione, non la riduzione, del rapporto debito pubblico/PIL costituirebbe un obiettivo plausibile che tranquillizzerebbe i mercati consentendo politiche keynesiane espansive. Paesi in surplus commerciale dovrebbero impegnarsi al loro rapido pareggio o essere altrimenti obbligati a trasferimenti compensativi verso i paesi in disavanzo. Questi ultimi dovrebbero essere obbligati a politiche di modernizzazione importando le istituzioni dei paesi più efficienti con opportune politiche comunitarie di sostegno finanziario. Le politiche distributive dovrebbero essere improntate all’equità, anche come sostegno alla domanda aggregata. Su questo rimandiamo a un documento firmato da 300 economisti italiani e stranieri.
Tutto questo farebbe un’Europa responsabile e che guardasse avanti. Purtroppo l’esito di una rottura drammatica, o quello di un’Europa periferica impoverita e rancorosa, appare oggi quello più plausibile. L’appello all’intellighenzia tedesca è che si batta perché la Germania ponga a disposizione dell’Europa le proprie enormi capacità per impedire quello che è un assurdo suicidio. Sarebbe però anche bene che, nel frattempo, gli italiani pensassero seriamente al proprio futuro indipendentemente da questa Europa.
* Fonte: politica ed economia
Note
[1] Peraltro, come ricorderemo più avanti, la Francia ha responsabilità gravi nell’aver fatto maturare le circostanze da cui emerse il nazismo.
[3] In Italia, come negli USA, è la destra a sfasciare i conti pubblici e la sinistra a “risanarli” (V. A.Ginzburg, L'economia politica dei due forni, in AAVV, La questione socialista, Torino, Einaudi, 1987).
[4] Che in questo momento significherebbe creare monopoli privati in mano a società straniere (oltre che, naturalmente, a capitalisti italiani incapaci di avviare nuove iniziative industriali autonomamente). Sulle conseguenze negative della cessione di attività produttive a stranieri v. qui.
[5] Come è noto, se un disavanzo delle partite correnti è inizialmente generato da un disavanzo commerciale, esso è poi alimentato anche dal pagamento degli interessi sul debito maturato.
[6] Naturalmente ci sono le eccezioni, come la Fondazione Ebert e l’istituto di ricerche macroeconomiche della Fondazione Hans Bockler che esprimono posizioni macroeconomiche assai simili a quelle qui sostenute. L’influenza sulla spessa SPD appare però limitata.
[7] Il testardo conservatorismo tedesco ha fatto assurgere due conservatori italiani quali sono Mario Monti e Mario Draghi a idoli di stampa e politici anglosassoni per flessibilità economico-politica.
[8] La Cina è più giustificata a perseguire un modello export-led essendo un paese in via di sviluppo.
[9] Il grande storico del mercantilismo, Heckscher, lo definì come l’economia dei bassi salari.
[10] Per paesi centrali si intendono Germania, Paesi Bassi, Austria e Finlandia. Invece Francia e Belgio non sono propriamente paesi “core”, così come l’Italia non è propriamente un paese periferico.
[11] Ora sappiamo che ciò che è accaduto nell’ambito dell’UME è un pattern di eventi che tipico delle crisi debitorie dei paesi in via di sviluppo negli anni ’80 e ’90. In questi paesi, tassi di cambio fissi o sopravalutati e flussi di capitale in ingresso venivano autoalimentandosi generando espansione nei consumi domestici e indebitamento estero. Quando l’insostenibilità della situazione si faceva palese, si aveva il cosiddetto “capital flow reversal”, i capitali cominciavano a fuggire, il rinnovo del debito e del pagamento degli interessi non veniva più assicurato, i paesi dichiaravano la sospensione dei pagamenti. Più desolante e non scusabile, è che il paese leader stia conducendo l’Europa verso la ripetizione di ciò che seguì alla prima crisi del debito, la famigerata “decade perduta” dei paesi in via di sviluppo.
[12] Gli economisti mainstream (come Blanchard e Giavazzi), ligi al loro compito di ideologi del mercato, benedicevano tali flussi di capitale che, secondo la teoria dominante, avrebbero condotto a una convergenza fra paesi ricchi e paesi poveri di capitale (per una critica qui)
[13] I saldi comprendono le transazioni con tutti i paesi, non solo quelle intercorrenti fra i due gruppi di paesi considerati.
[14] A fianco delle posizioni tedesche troviamo solo gli economisti americani più conservatori e un gruppo di italiani, bocconiani e dintorni – per lo più americanizzati – come Alesina, Giavazzi, Zingales, Guiso, Reichlin (Pietro) ed altri. L’attuale Rettore della Bocconi Tabellini, come per esempio anche Reichlin (Lucrezia), ha invero sostenuto posizioni più avanzate nel merito di un ruolo risoluto della BCE. Tirato per i capelli, persino Giavazzi ha buon ultimo condiviso posizioni di questo tipo.
[15] “Frankfurter Allgemeine Zeitung’s Philip Plickert harshly criticizes Draghi because the staff projections yesterday revealed that the ECB will miss its 2.0% inflation target for the second year in a row in 2012. ‘For Germany , the real interest rate of minus 1.4% is much too low’, Plickert argues. ‘Citizens will ask themselves what Draghi stands for: Is it his primary goal to save states and banks with cheap money? Or is the ECB’s primary goal still price stability? What counts are deeds, not words’, he writes.” (thanks to Eurointelligence).
[16] Si noti che i prestiti europei sono per la Germania un’ottima fonte di entrate: essa emette titoli a bassi tassi e presta a tassi ben più elevati. L’Italia si trova in una situazione opposta e addirittura, nel caso dell’Irlanda, si deve indebitare a tassi alti per prestare a quel paese che per qualche ragione ha strappato condizioni più vantaggiose) a tassi più bassi.
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