La vera strategia di Marchionne (e le sue bugie)
svelate da un analista serio
di Riccardo Ruggeri*
«Da tre anni scrivo sull'industria dell'auto, e anche di Fiat: un libro (Parola di Marchionne, Brioschi ed.), una ventina di articoli, in cui ho espresso il mio pensiero di investitore. La crisi violenta del comparto ha avuto una ricaduta positiva: chiarezza sulla gerarchia dei valori. Due soli al comando, Volkwagen eToyota, salvo i coreani, fenomeno a se, gli altri nel «gruppone», si agitano, si alleano, si separano, alcuni (bolliti) chiedono l'aiuto dei governi.
La legge del «ciclo di rinnovo» - evoluzioni del prodotto in termini di innovazione-qualità-costi d'esercizio, vera discriminante fra leader e follower, fra chi investe molto e chi poco e tardi - non perdona. Spesso i follower, in silenzio, saltano un ciclo, risparmiano molti quattrini, distribuiscono dividendi e bonus, così si auto-affossano: lo sanno. Allora cercano alleanze fra di loro, disegnano fantastici scenari e progetti visionari (dicono sempre di risparmiare 2-3 miliardi sugli acquisti!): nessuna ha funzionato (Nissan-Renault è un caso a sé, sono tuttora entità separate, col solo Carlos Ghosn al vertice). Nel frattempo, Volkwagen e Toyota tirano dritto, rispettano i «cicli», aumentano profitti, quote di mercato, investimenti. Sono irraggiungibili.
Rileggiamo il passato recente. Obama per liberarsi di Chrysler, fallita per la terza volta, la dotò di un ricco «corredo» normativo-economico (quattrini a fondo perduto, prestiti): fu offerta a tanti, solo Fiat accettò, però senza metterci quattrini; in quel marzo 2009 anch'essa era tecnicamente fallita (Moody's). Ubriachi di orgoglio nazionale («allora abbiamo la Chrysler!»), in Italia pochi si accorsero che gli azionisti Daimler «pagarono per uscire», mentre Fiat ebbe una partecipazione scambiandola con tecnologia (si disse, che genialata!).
Chi di quattrini ne mise, e tanti, diventandone quindi azionista fu Obama: si affidò a Marchionne (gli italiani se ne innamorarono). Se conosci le regole del business, specie americano (chi mette i quattrini vince), capisci che la Chrysler di Obama implicitamente si era «comprata» Fiat. Sfuggì a molti. Poi Fiat presentò “Fabbrica Italia”, progetto “goloso” per l'Italia (eccitazione nazionale), disse: «costa» 20 miliardi, non chiese nulla, né agli azionisti (in 7 anni nessun aumento di capitale!) né al Governo, che comunque fece lo gnorri. Lo ritenni un frizzo, la cifra era bizzarra, come il resto, non riuscii a capire se il progetto serviva per aprire un dibattito di politica industriale, ovvero una semplice mossa tattica. D'altro canto, per investire su prodotti-processi rispettando il «ritmo» spietato dei «cicli di rinnovo», ci vogliono quattrini (tanti), uomini, reti di vendita, contesto: non c'erano. Dei 20 miliardi, Fiat ne investì 0,7 per uno stabilimento di montaggio (Pomigliano).
Formalmente, Fiat (quotata) possiede la maggioranza di Chrysler (non quotata), che ha restituito il prestito al Tesoro Usa (indebitandosi con banche americane) ma l'«anima» di quest'azienda (concettualmente già «fusa») non ha più nulla di italiano. L'Ipo si terrà a Wall Street, il Quartier Generale sarà americano, parlerà inglese (ovvietà). Assumendo che Chrysler-Fiat entrerà in orbita entro il 2014-15 (quotazione a Wall Street), che la base di lancio sarà americana, quali saranno gli stadi intermedi (leggi stabilimenti italiani) che verranno abbandonati durante la salita nello spazio?
Si prenda coscienza, il ciclo dell'Italia «automobilistica» durato cent'anni si è compiuto, rimarrà un interessante «mercato», con un paio di stabilimenti di montaggio, come la Polonia, l'Inghilterra, la Spagna.
Non incolpiamo il meschino articolo 18 di nefandezze che (in questo caso) non ha, saltare i «cicli di rinnovo» ha portato Fiat a essere marginale nel mercato europeo e ciò come conseguenza di decisioni prese, scientemente, dai vertici Fiat negli ultimi 15 anni (carenza di capitali), e quindi costretta a chiudere stabilimenti (per ora Termini). Molti non se ne sono accorti, ma in questi tre anni Fiat ha svolto verso Chrysler un ruolo (nobile), nell'atletica leggera si chiama «lepre»: ora è esausta, sta rientrando nello spogliatoio, si prepara al momento dello «switch».
Il Governo prenda atto delle scelte strategiche già fatte da Fiat Auto, dell'irreversibilità del processo di ridimensionamento degli stabilimenti, lasci perdere il ridicolo Economist («l'auto è il simbolo della virilità nazionale»).
Vogliamo parlare di politica industriale?
Bene, escludendo che si vogliano difendere, con quattrini pubblici, posti di lavoro che il mercato ha da tempo cancellato (vivi solo per il «bocca a bocca» della cassa), concentriamoci su stabilimenti di montaggio coerenti con le quote di mercato Fiat.
In particolare su Alfa Romeo, marchio talmente appetibile che può essere ceduto con, in «dote passiva», uno stabilimento e relativo personale. Avere, finalmente, in Italia un secondo produttore d'auto, specie uno dei due leader assoluti, non può che essere stimolante per l'industria della componentistica, sottovalutata, tenuta ai margini, sia dalla politica che dai media. Come ovvio, nessun problema per Ferrari e Maserati: vivono di luce propria.
Il caso Fiat Auto ormai è storia, restano aperti alcuni temi di tipo logistico-produttivo, tutto qua».
di Riccardo Ruggeri*
Un'analisi implacabile delle scelte Fiat, da lungo tempo pensate dalla holding. Non solo via dall'Italia (questo è già un fatto), ma via dal settore auto. Viene da ridere a vedere i piagnistei sindacali, Fiom compresa. Mario Monti non ha avuto peli sulla lingua: «Fiat ha il diritto, ma c'è di più, il dovere, di scegliere per i suoi investimenti le localizzazioni migliori per i suoi investimenti. Non ha nessun dovere di ricordarsi solo dell'Italia» [Repubblica] La vicenda Fiat non è questione che riguardi solo i suoi dipendenti, è una questione di valenza nazionale. Un governo popolare non esiterebbe a nazionalizzarla.
«Da tre anni scrivo sull'industria dell'auto, e anche di Fiat: un libro (Parola di Marchionne, Brioschi ed.), una ventina di articoli, in cui ho espresso il mio pensiero di investitore. La crisi violenta del comparto ha avuto una ricaduta positiva: chiarezza sulla gerarchia dei valori. Due soli al comando, Volkwagen eToyota, salvo i coreani, fenomeno a se, gli altri nel «gruppone», si agitano, si alleano, si separano, alcuni (bolliti) chiedono l'aiuto dei governi.
La legge del «ciclo di rinnovo» - evoluzioni del prodotto in termini di innovazione-qualità-costi d'esercizio, vera discriminante fra leader e follower, fra chi investe molto e chi poco e tardi - non perdona. Spesso i follower, in silenzio, saltano un ciclo, risparmiano molti quattrini, distribuiscono dividendi e bonus, così si auto-affossano: lo sanno. Allora cercano alleanze fra di loro, disegnano fantastici scenari e progetti visionari (dicono sempre di risparmiare 2-3 miliardi sugli acquisti!): nessuna ha funzionato (Nissan-Renault è un caso a sé, sono tuttora entità separate, col solo Carlos Ghosn al vertice). Nel frattempo, Volkwagen e Toyota tirano dritto, rispettano i «cicli», aumentano profitti, quote di mercato, investimenti. Sono irraggiungibili.
Rileggiamo il passato recente. Obama per liberarsi di Chrysler, fallita per la terza volta, la dotò di un ricco «corredo» normativo-economico (quattrini a fondo perduto, prestiti): fu offerta a tanti, solo Fiat accettò, però senza metterci quattrini; in quel marzo 2009 anch'essa era tecnicamente fallita (Moody's). Ubriachi di orgoglio nazionale («allora abbiamo la Chrysler!»), in Italia pochi si accorsero che gli azionisti Daimler «pagarono per uscire», mentre Fiat ebbe una partecipazione scambiandola con tecnologia (si disse, che genialata!).
Chi di quattrini ne mise, e tanti, diventandone quindi azionista fu Obama: si affidò a Marchionne (gli italiani se ne innamorarono). Se conosci le regole del business, specie americano (chi mette i quattrini vince), capisci che la Chrysler di Obama implicitamente si era «comprata» Fiat. Sfuggì a molti. Poi Fiat presentò “Fabbrica Italia”, progetto “goloso” per l'Italia (eccitazione nazionale), disse: «costa» 20 miliardi, non chiese nulla, né agli azionisti (in 7 anni nessun aumento di capitale!) né al Governo, che comunque fece lo gnorri. Lo ritenni un frizzo, la cifra era bizzarra, come il resto, non riuscii a capire se il progetto serviva per aprire un dibattito di politica industriale, ovvero una semplice mossa tattica. D'altro canto, per investire su prodotti-processi rispettando il «ritmo» spietato dei «cicli di rinnovo», ci vogliono quattrini (tanti), uomini, reti di vendita, contesto: non c'erano. Dei 20 miliardi, Fiat ne investì 0,7 per uno stabilimento di montaggio (Pomigliano).
Formalmente, Fiat (quotata) possiede la maggioranza di Chrysler (non quotata), che ha restituito il prestito al Tesoro Usa (indebitandosi con banche americane) ma l'«anima» di quest'azienda (concettualmente già «fusa») non ha più nulla di italiano. L'Ipo si terrà a Wall Street, il Quartier Generale sarà americano, parlerà inglese (ovvietà). Assumendo che Chrysler-Fiat entrerà in orbita entro il 2014-15 (quotazione a Wall Street), che la base di lancio sarà americana, quali saranno gli stadi intermedi (leggi stabilimenti italiani) che verranno abbandonati durante la salita nello spazio?
Si prenda coscienza, il ciclo dell'Italia «automobilistica» durato cent'anni si è compiuto, rimarrà un interessante «mercato», con un paio di stabilimenti di montaggio, come la Polonia, l'Inghilterra, la Spagna.
Non incolpiamo il meschino articolo 18 di nefandezze che (in questo caso) non ha, saltare i «cicli di rinnovo» ha portato Fiat a essere marginale nel mercato europeo e ciò come conseguenza di decisioni prese, scientemente, dai vertici Fiat negli ultimi 15 anni (carenza di capitali), e quindi costretta a chiudere stabilimenti (per ora Termini). Molti non se ne sono accorti, ma in questi tre anni Fiat ha svolto verso Chrysler un ruolo (nobile), nell'atletica leggera si chiama «lepre»: ora è esausta, sta rientrando nello spogliatoio, si prepara al momento dello «switch».
Il Governo prenda atto delle scelte strategiche già fatte da Fiat Auto, dell'irreversibilità del processo di ridimensionamento degli stabilimenti, lasci perdere il ridicolo Economist («l'auto è il simbolo della virilità nazionale»).
Vogliamo parlare di politica industriale?
Bene, escludendo che si vogliano difendere, con quattrini pubblici, posti di lavoro che il mercato ha da tempo cancellato (vivi solo per il «bocca a bocca» della cassa), concentriamoci su stabilimenti di montaggio coerenti con le quote di mercato Fiat.
In particolare su Alfa Romeo, marchio talmente appetibile che può essere ceduto con, in «dote passiva», uno stabilimento e relativo personale. Avere, finalmente, in Italia un secondo produttore d'auto, specie uno dei due leader assoluti, non può che essere stimolante per l'industria della componentistica, sottovalutata, tenuta ai margini, sia dalla politica che dai media. Come ovvio, nessun problema per Ferrari e Maserati: vivono di luce propria.
Il caso Fiat Auto ormai è storia, restano aperti alcuni temi di tipo logistico-produttivo, tutto qua».
*Fonte ItaliaOggi del 15 marzo 2012
1 commento:
«Chi gestisce la Fiat ha il diritto e il dovere di scegliere per i suoi investimenti e le localizzazioni più convenienti e non ha nessun dovere di ricordarsi solo dell'Italia».
Questo ha detto testualmente il presidente del consiglio Monti, senza che nessuno, ai piani alti e bassi della politica, dei vertici sindacali confederali, i celebrati editorialisti, abbia eccepito alcunché.
Questo signore, che di nome fa Mario Monti, il quale si crede molto intelligente e anche spiritoso, a capo del governo senza che nessun cittadino l’abbia scelto e votato, ha scoperto una nuova categoria dei diritti: quella dei padroni che si atteggiano a superuomini e degli schiavi che servono loro come tappeti.
I padroni e i manager finanziari che stanno a capo della più grande azienda nazionale, peraltro strategica sotto molti profili, hanno diritto di fare quello che vogliono, mentre gli operai che rappresentano il lavoro, sul quale si dice sia fondata la repubblica e perciò la democrazia in questo paese, hanno solo doveri, primo tra tutti quello di sottostare a ogni sorta di vessazioni e d’insulti, al punto che i propri rappresentanti sindacali non possono entrare in fabbrica e, cosa altrettanto grave, essi stessi, se iscritti al sindacato, vengono discriminati e di fatto esclusi dal rientro al lavoro.
Questo stato di cose si può chiamare come si vuole, personalmente lo chiamo: FASCISMO.
http://diciottobrumaio.blogspot.it/2012/03/il-progetto-fascista-che-chiamano.html
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