[ 24 giugno 2010 ]
PRIME RIFLESSIONI SULLA VICENDA DI POMIGLIANO
di Campo Antimperialista
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo contributo sul referendum ala FIAT di Pomigliano. Tra i pochi che abbiamo potuto leggere questo ci pare il più impegnativo.
«(1) Lo zoccolo duro della resistenza operaia
La crisi storico-sistemica del capitalismo occidentale traccia una linea di cambiamento epocale. Tra le sue numerose vittime essa lascia sul terreno anche quella del “proletariato imborghesito”.
La fine della crescita ha fatto inceppare l’ascensore dell’ascesa sociale, ma questo non significa che sia già morta la speranza di un benessere crescente, diffuso e ininterrotto. Persiste ancora, tra le classi subalterne, la speranza che l’ascensore si sblocchi, che l’uscita dalla recessione riporti le cose come prima. Questo spiega, al fondo, le ragioni di chi ha votato “SI” al referendum di Pomigliano: l’idea che per migliorare le proprie condizioni di vita e dare un futuro ai propri figli, non ci sia altra alternativa che dare retta al padrone e aiutarlo a fare profitti.
Il fatto è che la psicologia delle masse, così come la loro coscienza, è sempre in ritardo sui tempi delle trasformazioni sociali. In secondo luogo: la consapevolezza della fine di un’epoca, non si fa strada in maniera lineare e omogenea, ma diseguale.
La consistenza dell’opposizione operaia al diktat della FIAT, che non era per niente scontata, dimostra anzitutto che esiste uno zoccolo duro di resistenza operaia, un settore di lavoratori che dopo tanti cedimenti ha tracciato una linea simbolica oltre la quale non si può più indietreggiare. Nella guerra di posizione contro il soverchiante esercito padronale, si è scavata una trincea, quella dalla cui difesa dipende la disfatta storica (che ancora non c’era stata) o una nuova, seppur ardua, avanzata.
La consistenza dell’opposizione operaia al diktat della FIAT, che non era per niente scontata, dimostra anzitutto che esiste uno zoccolo duro di resistenza operaia, un settore di lavoratori che dopo tanti cedimenti ha tracciato una linea simbolica oltre la quale non si può più indietreggiare. Nella guerra di posizione contro il soverchiante esercito padronale, si è scavata una trincea, quella dalla cui difesa dipende la disfatta storica (che ancora non c’era stata) o una nuova, seppur ardua, avanzata.
(2) I limiti invalicabili del sindacalismo
E’ l’esistenza di questo zoccolo duro a spiegare l’opposizione dell'apparato sindacale della FIOM. Presa tra il martello della resistenza e l’incudine del sindacalismo giallo, questa burocrazia è stata costretta a sostenere la prima. Vorremmo sbagliarci, ma non vediamo alcuna resipiscenza di questo ceto sindacale, che negli anni, pur storcendo il naso, ha accettato di farsi compartecipe della politica padronale delle compatibilità e della concertazione. Se Marchionne, invece di partire per la tangente con un attacco frontale ai “diritti” avesse ribadito l’approccio concertativo, non c’è dubbio che la FIOM sarebbe stata al gioco di scambio “più investimenti più sfruttamento”. Non si tratta qui di discettare sul grado di corruzione di questo o quel sindacato (gradi comunque che fanno spesso la differenza), quanto sul fatto che ogni crisi sistemica spiazza il sindacalismo in quanto tale, anche il più combattivo o “di base”, mette a nudo il suo limite intrinseco. Il sindacato, per sua natura, contratta infatti col capitale il prezzo della forza-lavoro e le condizioni in cui questo lavoro viene erogato. Forzando si potrebbe dire che il sindacato ha inscritto nel suo dna il rappresentare la classe operaia, non come soggetto antagonista al capitale, ma come sua parte variabile. Questa dinamica si manifesta appunto col sopraggiungere della crisi sistemica, che pone sul tappeto la questione, tutta politica, se la classe operaia è in grado o meno di essere la leva per un’alternativa sistemica. Con la crisi generale, dettata non solo dalla competizione mondiale ma dall’ingrippamento dei meccanismi di valorizzazione e di accumulazione capitalistici, gli spazi della contrattazione sindacalistica si riducono quasi a zero. Ai sindacati non resta che fare da cinghia di trasmissione del capitale o di attestarsi su una linea meramente difensiva.
(3) Riconquistare l’egemonia nelle fabbriche
E’ quindi evidente la ragione delle difficoltà, non solo della FIOM, ma pure del cosiddetto “sindacalismo di base”. La battaglia pur sacrosanta a difesa delle vecchie conquiste non basta, non soltanto per predisporsi al contrattacco ma nemmeno per impedire lo sfondamento delle ultime trincee difensive. Dentro la crisi sistemica ogni battaglia di classe di una certa importanza travalica il perimetro sindacalistico. Come ha mostrato la vicenda di Pomigliano, l’offensiva FIAT è stata ed è infatti a tutto campo, anzi quella interna alla fabbrica è stata subordinata all’offensiva generale. Marchionne ha mobilitato tutto il mobilitabile: i sindacati gialli certo, compresa la CGIL, ma poi i partiti, le istituzioni, civili e religiose, tutto il colossale apparato mediatico. Che una decisa minoranza operaia abbia tenuto le sue posizioni è in queste condizioni un fatto straordinario, ma resta pur sempre una minoranza. Senza una modificazione dei rapporti di forza, non solo nelle fabbriche ma nella società, prima o poi, le ultime trincee verranno spazzate via, questa minoranza verrà vinta, con conseguenze incalcolabili. Sarebbe dunque fatale cullarsi con la mezza vittoria al referendum. Il capitale ha dalla sua non solo istituzioni, partiti, media e la gran parte delle burocrazia sindacali. Ha dalla sua gran parte della stessa classe operaia. Sarebbe illusorio pensare di mutare questi rapporti di forza fermandosi al terreno sindacale. L’offensiva è anzitutto politica, e politica dev’essere la reazione operaia.
(4) La centralità della classe operaia industriale
La posizione di indiscutibile vantaggio di cui gode il capitale è tuttavia effimera, e col procedere della crisi traballerà. Con l’ascensore dell’ascesa sociale ingrippato, con il capitalismo occidentale obbligato ad accrescere la produttività (sfruttamento) e a ridurre i salari (pauperizzazione), con lo Stato che non potrà più usare come prima la spesa pubblica, con la fine del modello di “economica sociale di mercato”, è destinata a franare l’egemonia ideologica e politica del capitale, ed essa franerà anzitutto tra i lavoratori salariati i quali, loro malgrado, si rivedranno sospinti ad assumere, già nei prossimi anni, un ruolo centrale sulla scena sociale. Ciò sarà vero quali che saranno i settori sociali che per primi scenderanno sul “sentiero di guerra”. La riconquista della maggioranza nelle fabbriche non può essere disgiunta da quella della ricostruzione di un ampio blocco sociale anticapitalista. Le due cose vanno di pari passo, ed entrambi vengono a dipendere da un elemento fondamentale: dalla possibilità della resistenza operaia di farsi portatrice della prospettiva della fuoriuscita dal capitalismo. Le cose, per quanto ciò possa oggi apparire arduo, stanno infatti così: l’egemonia sociale e politica si conquista certo con la volontà e la lotta, ma queste sarebbero vane se non poggiassero su un convincente programma politico di rifondazione sociale.
(5) La fuoriuscita dal capitalismo
La lotta intransigente per la difesa dei diritti operai e delle conquiste sociali, nel contesto della crisi sistemica, è dunque strettamente connessa alla capacità dei reparti più combattivi e coscienti della classe operaia di farsi portatori di un’alternativa di sistema. Non c’è tempo da perdere: occorre scolpire le tavole dell’alternativa sistemica. La borghesia per prima non crede più alla sua forza espansiva. Diventata in gran parte una classe parassitaria dedita anzitutto alla speculazione finanziaria e all’aggiotaggio usuraio, che i soli investimenti che concepisce sono quelli che debbono riconsegnare nel più breve tempo dei profitti, non potrà assicurare più alcuno “sviluppo” ed è destinata a perdere la partita della competizione globale con i capitalismi emergenti. Con gli anni sarà chiaro alle moltitudini che tenersi il capitalismo significa andare incontro alla decadenza e allo sfascio del paese. E’ improcrastinabile farla finita con le declamazioni e indicare concretamente un diverso e alternativo modello di sviluppo. Che il popolo di questo paese debba fare grandi sacrifici, ciò è indubbio. Si tratta di capire per cosa e per chi debbano essere fatti. Non si tratta soltanto di distribuire la ricchezza sociale, la cui gran parte è oggi accaparrata da una piccola minoranza neo-aristocratica. Si tratta di ridefinire il concetto di ricchezza sociale e quindi come essa debba essere prodotta e quindi distribuita. Si tratta di affermare che il socialismo che vogliamo non può semplicemente consistere in un cambio della natura del potere politico o dei rapporti di proprietà, lasciando intatto il modello di crescita industrialista o pensando di usare le stesse forze produttive capitalistiche. Il rivolgimento necessario, lo si voglia o meno, sarà molto più profondo e radicale.
(6) Il partito proletario
Noi non sappiamo che forma prenderà il futuro partito proletario, ove sono i luoghi ove esso inizierà a mettere radici, quale sarà il peso delle vecchie e della nuova generazione, che contributo daranno gli intellettuali, gli operai industriali o la gioventù precaria, se ci sarà e quale un centro di agglutinazione. Certo è che se un programma politico per l’alternativa di sistema prenderà forma, in quello stesso momento starà prendendo forma anche il partito».
2 commenti:
Articolo interessantissimo. Avete avuto occasione di confrontarvi con il gruppo di Alternativa, l'iniziativa politica di Giulietto Chiesa, dove è in atto il tentativo di ragionare in termini innovativi di una società e di un sistema economico diversi, fondati sulla decrescita e la giustizia sociale?
Veramente, dopo la nascita di "Alternativa" abbiamo contattato Chiesa (il quale partecipò l'anno passato ad una nostra riunione). Purtroppo non abbiamo avuto alcuna risposta.
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