[ 08 giugno 2010 ]
Una crisi da paura
Intervista a André Orlean*
Nelle scorse settimane, le borse hanno avuto un andamento molto altalenante, al punto che molti hanno parlato di mercati «folli»: definizione che non troverebbe d'accordo André Orlean. André Orlean è un economista poco conosciuto in Italia. Nel corso degli ultimi 20 anni, la sua ricerca si è focalizzata sull'analisi e il comportamento dei mercati finanziari. Partendo dalle tesi di John Maynard Keynes, Orléan sostiene che il comportamento degli operatori finanziari non si fonda sull'idea di una razionalità individuale tesa a ottenere il massimo guadagno, bensì sull'interpretazione di quella che può essere definita una razionalità collettiva, intesa come il senso comune espresso da coloro (Banche, operatori finanziari) che sono in grado di condizionare i mercati finanziari.
La metafora del concorso di bellezza di Keynes è al riguardo illuminante: così come un giudice in un concorso di bellezza non deve valutare l'avvenenza dei concorrenti in base al suo individuale senso estetico ma piuttosto in base a quelli che lui ritiene essere i canoni estetici dominanti, così un bravo «speculatore» crea le proprie aspettative sul valore futuro atteso delle attività finanziarie non in base alle proprie aspettative e convinzioni individuali, ma in base a ciò che lui stesso ritiene essere il senso comune presente nei mercati finanziari. Tale comportamento, lungi dall'essere irrazionale, come sostengono gli economisti ancorati alla visione neoliberista dell'homo oeconomicus, determina il fatto che nei mercati finanziari le regole della concorrenza, e del pilastro su cui regge, la legge della domanda e dell'offerta, non sono valide.
Di conseguenza, i mercati finanziari sono strutturalmente instabili: un andamento ciclico e volatile, che, se non controllato e limitato, rischia di avere ripercussioni deflagranti per il capitalismo contemporaneo, se si considera che i mercati finanziari svolgono oggi il ruolo di governance economica mondiale.
Abbiamo incontrato André Orléan nel corso di una serie di seminari che ha tenuto in Italia, a Milano, Bergamo e Pavia, in occasione della prima edizione italiana di una delle sue opere: Dall'euforia al panico (Ombre Corte).
Quale ripercussione potrebbe avere l'attuale crisi economico-finanziaria sulla teoria dei mercati finanziari e sulle politiche economiche che si dovrebbero adottare per fronteggiarla?
A partire dalla svolta monetarista della Federal Reserve del 1979, la teoria dominante dei mercati finanziari si fonda sull'idea di un mercato finanziario mondiale in grado di espandersi in modo integrato e flessibile, grazie alla crescita del debito pubblico e alle innovazioni finanziarie. È questa la cosiddetta teoria dell'efficienza finanziaria, in base alla quale la concorrenza finanziaria segue le stesse regole di quella dei beni tradizionali. I prezzi che si formano sui mercati finanziari dovrebbero cosi rappresentare la migliore espressione dei valori reali degli scambi economici sottostanti.
Nella realtà, invece, i mercati finanziari non sono né efficienti, né stabili, mentre i prezzi non sono l'esito dell'agire della concorrenza ma semplicemente delle aspettative su ciò che il mercato, nel suo insieme, determinerà. Nei mercati finanziari è invece presente un comportamento che potremmo definire mimetico. Il G20, ad esempio, parte dal presupposto che i mercati finanziari siano efficienti. Nel caso si verifichi un'instabilità, ciò è dovuto al fatto che è venuta meno l'integrità degli stessi mercati finanziari. Per il G20, dunque, la crisi dei subprime non è dovuta alla struttura stessa dei mercati finanziari, ma piuttosto a fattori esogeni: l'«opacità» dei nuovi prodotti finanziari, gli eventuali errori delle agenzie di rating, l'avidità dei manager e delle banche. Sono fattori esistenti, ma non spiegano l'essenza della crisi.
Torniamo alla teoria dell'efficienza finanziaria in base alla quale i mercati sono regolati sulla base della legge della domanda e dell'offerta. Per quanto riguarda i mercati finanziari, ciò non è vero, perché i prezzi delle attività finanziarie seguono una regola opposta: quando un titolo aumenta di valore, la sua domanda, lungi dal ridursi, tende invece a crescere, perché le plusvalenze aumentano all'aumento del valore dei titoli, attirando nuovi investitori e quindi aumentano la domanda di quegli stessi titoli. È un meccanismo produttore di instabilità. Si verificano, così, dei movimenti eccessivi nei prezzi (o verso l'alto nel caso di euforia, o verso il basso nel caso di panico). Tale andamento ciclico, di natura strutturale, viene poi amplificato dalle società di rating. È questa la causa principale della crisi.
In questo quadro analitico, è possibile una regolamentazione dei mercati finanziari?
Se i mercati finanziari sono endemicamente instabili, dovremmo regolarli e limitarli il più possibile. Ne va della sopravvivenza del sistema stesso. Tuttavia, nella situazione attuale è un obiettivo politicamente difficile da perseguire. In ogni caso, si potrebbe intervenire in tre direzioni: arrestare la crescita e il peso dei mercati finanziari, oppure ridurla, limitando il ricorso ad essi; le economie e gli Stati nazionali dovrebbero creare un sistema di valutazione autonoma dei titoli come contrappeso al potere pervasivo e di condizionamento svolto dalle società private di rating. Il caso della Grecia, a questo proposiro, è emblematico: la valutazione del debito greco si basa, infatti, su aspettative future che prefigurano uno scenario tragico creato ad hoc. Una società di valutazione esterna ai mercati finanziari dovrebbe essere in grado di capire fino a che punto è possibile fare una previsione. Inoltre, una valutazione pubblica deve definire il quadro macroeconomico e non lasciare che siano le società di rating a farlo. In tal modo si può limitare il potere discrezionale e l'autonomia del potere della finanza.
La terza direzione verso cui muoversi dovrebbe ridurre la liquidità, aumentando ad esempio i costi di transizione, applicando una sorta di Tobin Tax sulle attività speculative di brevissimo periodo. Nel caso di debito pubblico, gli Stati nazionali potrebbero rendere più rigidi e più trasparenti i tempi e le modalità del rimborso dei titoli e degli interessi.
In Europa è possibile fare qualcosa di simile? Il caso della Grecia sembra dirci l'opposto.
In Europa il rapporto tra debito e Pil è circa l'80%, in Usa del 100%, in Giappone supera il 200%. Ma la pressione speculativa punta sull'Europa. La ragione principale è che il debito pubblico giapponese è detenuto dai giapponesi. Negli Usa e in Europa non è così (con l'eccezione dell'Italia). Ma il debito Usa è generato comunque da una potenza non solo economica, ma anche politico-militare, per la quale le aspettative di crescita sono maggiori rispetto, ad esempio, a quelle dell'Europa o, ancora peggio, dell'Europa mediterranea.
In Europa, la questione della crescita è centrale. Il rischio è accresciuto dal timore di una fase deflazionista che ricorda la situazione degli anni '30. La protezione della moneta - oro in quegli anni - ha comportato effetti negativi sulla crescita degli anni Trenta. Le politiche fiscali restrittive di oggi, con l'effetto di generare una deflazione, rischiano di avere gli stessi effetti che hanno avuto allora le politiche protezionistiche sulla valuta. Viviamo però in un mondo dove non c'è più la «moneta-oro». La politica di svalutazione può avere effetti positivi, i quali rischiano di essere annullati da una politica fiscale restrittiva. Per ridurre il deficit è necessario piuttosto fare politiche di crescita. L'opposto di ciò che vorrebbero i mercati finanziari. E in ciò vi è la responsabilità dell'Europa che non è in grado di dare una risposta unitaria. L'Europa ha una visione contabile dell'economia (soprattutto la Germania) che non consente di reagire alla pressione dei mercati finanziari. Vi è, così, il rischio di creare il fantasma di un'Europa a due velocità. È il trionfo del nazionalismo. L'Europa si è costruita su una stretta visione economica della moneta, intesa solo come mezzo di scambio che consente l'acquisto dei mercati. Da qui l'enfasi sui vincoli economici posti dai parametri di Maastricht sull'inflazione e sul deficit pubblico. Ciò deriva, ancora una volta, dalla cieca adesione alla visione dell'efficienza dei mercati: una tesi che postual che la tendenza all'equilibrio è la caratteristica fondamentale del mercato e che è quindi inutile qualunque intervento di politica monetaria.
È possibile un ripensamento del ruolo della Bce?
La Bce ha una concezione della moneta inadeguata. Le recenti dichiarazioni di Trichet - «La Bce è orgogliosamente indipendente e autonoma» - è una dichiarazione di impotenza. Ed è falsa. Infatti, è condizionata dai governi europei, come dimostra il fatto che recentemente la Bce ha deciso di riacquistare parte del debito pubblico in cambio di liquidità su pressioni di alcuni Stati dell'Unione europea. È stata la manifestazione di una contraddizione palese tra teoria e prassi. Una contraddizione che evidenzia come il modello della moneta come variabile neutra non funziona, confermando che la moneta è, in realtà, un rapporto sociale gerarchico.
* da: il manifesto del 7 giugno
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