[ 27 giugno 2010 ]
LO STATO
DEVE TORNARE AL CENTRO
di Bruno Bosco*
Bosco parte da una premessa giusta, il mutamento avvenuto negli ultimi decenni in seno al capitalismo occidentale: «La finanza è nata storicamente in funzione ancillare dell’economia reale già prima della Rivoluzione Industriale: essa consentiva di anticipare la ricchezza futura e di spostarla nel tempo e nello spazio a beneficio della produzione e dei commerci. Senza una sottostante operosità reale la finanza non aveva senso e la sua stessa attività era impossibile. Il capitalismo moderno [che noi chiamiamo "capitalismo-casinò", modalità dell'ultima fase del capitalismo occidentale o "ultra-imperialismo", Ndr] invece le ha dato un ruolo autonomo e indipendente dall’attività reale al punto che è quest’ultima l’ancella della finanza, e non viceversa».
Data questa premessa Bosco sostiene che solo se lo Stato riacquisisce una centralità nella sfera economica e strategica si potrà davvero evitare la catastrofe a cui il capitalismo-casinò destina la società. Il problema è il seguente: quale Stato potrà assolvere a questo compito? Non è forse vero che gli stati attuali d'occidente sono appunto comitati d'affari del capitalismo parassitario e speculativo? Non è forse necessario uno Stato del tutto nuovo? Bosco lascia la questione in sospeso. Questo è invece il busillis.
Nel suo editoriale sul Corriere della sera di venerdì 25 giugno, il Prof. Sartori pone con grande chiarezza la questione del peso spropositato assunto oggi dalla finanza nel capitalismo moderno e delle incognite che da tale peso derivano sul futuro sviluppo economico e sociale. L’economia cartacea speculativa pregiudica quella virtuosamente volta a produrre beni e servizi che però, nota giustamente Sartori, deve riconvertirsi in un senso (dico io) socio-ecologicamente compatibile. Gli economisti che non notano tutto questo e dicono che tutto va bene vivono sulla luna e non sulla terra. Non si può che essere d’accordo, aggiungendo forse che anche recenti discussioni indicano che non tutti gli economisti vivono sulla luna.
C’è però un punto di disaccordo che vorrei sottolineare. Il pregiudizio per il futuro non è solo una questione di proporzioni tra economia reale e finanza, anche se queste (s)proporzioni contano molto. E’ principalmente una questione di finalità.
C’è però un punto di disaccordo che vorrei sottolineare. Il pregiudizio per il futuro non è solo una questione di proporzioni tra economia reale e finanza, anche se queste (s)proporzioni contano molto. E’ principalmente una questione di finalità.
La finanza è nata storicamente in funzione ancillare dell’economia reale già prima della Rivoluzione Industriale: essa consentiva di anticipare la ricchezza futura e di spostarla nel tempo e nello spazio a beneficio della produzione e dei commerci. Senza una sottostante operosità reale la finanza non aveva senso e la sua stessa attività era impossibile. Il capitalismo moderno invece le ha dato un ruolo autonomo e indipendente dall’attività reale al punto che è quest’ultima l’ancella della finanza, e non viceversa.
Dagli eccessi di questa autonomia deriva la generazione di ingenti e incontrollate aspettative di rendite a breve che hanno distorto rapidamente l’intero meccanismo di allocazione delle risorse private ed hanno contribuito ad impedire il formarsi del capitalismo industriale a proprietà diluita, che veniva invece sbandierato come la vera alternativa al socialismo. Il sostegno creditizio alla rendita immobiliare e ai consumi privati non sostenibili per reddito e qualità del debitore hanno fatto il resto. Viene chiesta un’inversione di rotta. Giustissimo. Ma come realizzarla viste anche le (s)proporzioni attuali? Come realizzarla, se oltre tutto dobbiamo farci carico di quei fenomeni che Sartori chiama esternalità e che possiamo considerare come degli indesiderati effetti collaterali non mediabili dai prezzi di mercato dell’attività di produzione e scambio?
Non è sufficiente crescere meno, anche se questo implica meno inquinamento e meno uso della superficie del pianeta. Lo spostamento massiccio delle risorse verso impieghi produttivi di beni e servizi privati o, maggiormente, verso beni e servizi a consumo sociale condiviso non potrà avvenire grazie ai meccanismi del mercato o essere affidato agli istinti dell’uomo economico vaticinato dalle teorie dell’individualismo metodologico.
Se non vogliamo seguire i dettami dei contorti scampoli di questa lunare impostazione ci dobbiamo convincere che occorre ripartire dallo Stato, quale nuovo titolare di diritti di proprietà delle risorse e non solo quale titolare di una funzione regolatoria la cui efficacia è spesso simile a quella delle grida manzoniane. Occorre qualche rinazionalizzazione di imprese di pubblico servizio se vogliamo che queste investano e riconvertano; occorre parzialmente riprendere la gestione pubblica del credito a lungo termine se vogliamo sostenere investimenti utili ma poco profittevoli nel breve periodo; occorre tassare le attività generatrici di rendite in modo più pesante rispetto a salari e profitti; occorre fare investimenti pubblici nella ricerca e nell’innovazione. Il mercato da solo non ci garantisce più né la crescita drogata dalla finanza né la decrescita dolce alla Latouche. Bisogna essere disposti a scommettere di nuovo sullo Stato.
*Università di Milano-Bicocca
Fonte: LIberazione del 27 giugno 2010Crs economi
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