[ 10 aprile 2010 ]
DOPO LA BOLLA,
LA BALLA
Le previsioni Fmi e la dinamica della crisi globale
di Moreno Pasquinelli*
Le previsioni economiche, comprese quelle degli analisti più prestigiosi, sono come quelle meteorologiche. Quelle a breve (che tempo fa domani o al massimo dopodomani) sono quasi sempre esatte, quelle a medio periodo attendibili, quelle sul lungo, tali e tante sono le variabili che nel frattempo possono intervenire, inaffidabili.
Vuol forse dire, per restare all’analogia, che ogni analisi dell’andamento climatico di lungo periodo (di qui la climatologia) è “campata per aria”? Nient’affatto. Come la climatologia, che prende in considerazione l'insieme delle condizioni meteorologiche medie di un territorio su di un arco temporale pluridecennale, l’economia teorica può e deve, tenendo conto dell’insieme dei fattori, svelare la o le tendenze principali e quelle secondarie del sistema, per poi proporre, se non un modello, lo sbocco più probabile.
Il declino dell’Occidente
Come abbiamo altrove sottolineato, tanti sono i meriti che si debbono attribuire a Carlo Marx come studioso del capitalismo, non quello di aver ritenuto che il capitalismo avanzava motu proprio verso il suo crollo a causa della “legge della caduta tendenziale del saggio di profitto”. Quando noi parliamo di crisi storico-sistemica del capitalismo non ci riferiamo al modo di produzione in quanto tale, ci riferiamo al sistema-mondo-capitalista così come si è venuto strutturando dopo la seconda guerra, ed in particolare alla forma che esso è venuto assumendo dopo la rifondazione iniziata negli anni ’70 e che per convenzione abbiamo denominato turbo-capitalismo o capitalismo-casinò.
A chi ci accusa di “catastrofismo” vorremmo quindi ribadire che parliamo sì della catastrofe, ma non del capitalismo mondiale tutto, quanto di quello imperialista che da settanta anni ha fatto perno sul propulsore super-imperialista statunitense.
La tendenza di lungo periodo che abbiamo di fronte è quella al declino dell’imperialismo occidentale a cui corrisponde lo spostamento del centro di gravità dell’economia-mondo ad oriente. Un terremoto di grandi proporzioni che ha la Cina come epicentro.
La tendenza di lungo periodo che abbiamo di fronte è quella al declino dell’imperialismo occidentale a cui corrisponde lo spostamento del centro di gravità dell’economia-mondo ad oriente. Un terremoto di grandi proporzioni che ha la Cina come epicentro.
Per non lasciare adito a dubbi di sorta mesi fa affermavamo:
«(a) Il collasso dell’economia internazionale che ha fatto seguito al crack finanziario esploso negli USA nel settembre 2008 (a sua volta annunciato da vari scricchiolii nel decennio precedente) non è una delle cicliche recessioni destinate ad essere seguite dalla “ripresa”. Essa è piuttosto la spia di una crisi storico-sistemica del capitalismo occidentale, quindi anzitutto della ristretta cerchia di paesi imperialistici che hanno costituto, dopo la seconda guerra mondiale, il centro di gravità del capitalismo internazionale e che dopo il crollo dell’URSS, non senza resistenze qua e là, hanno dominato il mondo.
(b) La crisi storico-sistemica di questo centro imperialistico di gravità non significa che il modo capitalistico di produzione in quanto tale abbia detto l’ultima parola, che sia entrato nella fase “finale” o della “agonia mortale”. Ciò che è al tramonto è piuttosto il modello economico, sociale e politico capitalistico affermatosi dal dopoguerra in avanti in tutto l’Occidente, la forma storicamente determinata di capitalismo che ha avuto l’egemonia e il sopravvento a scala mondiale. Sta muorendo quella formazione sociale denominata “società opulenta” fondata sul consumismo compulsivo delle larghe masse come motore dello “sviluppo”, contraddistinta dalla trasformazione del proletariato in “nuova classe media”, dalla giugulazione finanziaria e dal saccheggio delle periferie, da quell’accumulazione gigantesca di super-profitti che ha dato i natali al cosiddetto turbo-capitalismo. La “società opulenta” e il turbo-capitalismo agonizzano a causa del loro stesso sviluppo ipertrofico.
(c) Non ci troviamo quindi solo davanti alla fine di un ciclo espansivo, ad una recessione magari prolungata (stagnazione). Siamo dentro ad un passaggio di fase di dimensioni epocali, delle stesse dimensioni dei tre che contrassegnarono le tappe fondamentali della storia moderna del capitalismo. Il primo, grazie alla rivoluzione industriale e alla sconfitta delle ambizioni francesi, pose le basi della supremazia del colonialismo inglese. Il secondo, quello tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento, segnò il passaggio all’imperialismo e aprì il ciclo del predominio conflittuale euro-americano. Il terzo prese il via subito dopo la seconda guerra mondiale, con l’annientamento dell’egemonia tedesca in Europa e giapponese in Asia che spianò la strada al definitivo predominio dell’imperialismo a stelle e strisce, controbilanciato a sua volta dal momentaneo condominio bipolare con l’Unione Sovietica». (1)
Come avrebbero reagito gli Stati Uniti e l’asse euro-atlantico?
«(g) La resistenza che il super-imperialismo americano opporrà al suo declino sarà dunque accanita e su scala globale. Dalla supremazia imperiale dipendono infatti la sua stabilità interna, la sua coesione sociale, l’efficacia ideologica paralizzante del “sogno americano”. Senza questa supremazia gli USA sono destinati a impattare contro convulsioni interne senza precedenti. Discende dunque, se questa nostra analisi è giusta, che mai come nel prossimo futuro emergeranno conflitti di varie forme ed intensità, che gli Stati Uniti tenteranno con ogni mezzo (dalle rivoluzioni colorate ai sabotaggi, dalle sanzioni targate ONU all’uso preventivo della forza) di schiacciare ogni focolaio di Resistenza popolare e ogni nazione seriamente ostili. Obama non vuole sbarazzarsi del paradigma ideologico della missione imperiale salvifica che spetterebbe agli USA; non pensa di diminuire il peso delle spese militari, né quello dell’elefantiaco apparato militare nordamericano; né intaccherà il centro propulsore da cui si sprigiona il suo espansionismo globale: il cosiddetto blocco militare-industriale.
(…)
(l) Abbiamo detto che la crisi storico-sistemica del capitalismo occidentale (imperialismo) non si consumerà in un breve periodo, siamo solo al primo atto, il quale apre appunto un intero periodo storico: l’inizio della fine della supremazia assoluta dell’Occidente. Entriamo nella fase della reazione tenace e agguerrita dell’Occidente al proprio declino. Solo per questo il periodo in cui solo ora entriamo sarà segnato da sconvolgimenti che saranno graduali in una prima fase per poi diventare catastrofici. Questi sconvolgimenti investiranno in pieno anche l’Unione Europea, il cui fragile edificio potrebbe andare in pezzi e con esso potrebbe sfaldarsi anche l’alleanza strategica euro-atlantica. Non esistono oggi forze sistemiche che vogliano separare il destino dell’Europa da quello degli Stati Uniti. Tutte le forze sistemiche, di destra di centro e di sinistra, si considerano nella stessa barca degli americani. Quando essa rischiasse di affondare, quando la vecchia talpa della crisi avrà scavato abbastanza, forze extra-sistemiche verranno a galla e saranno poste davanti al dilemma del distacco dagli USA, alla scelta di guardare ad Est e porre fine al rapporto di sudditanza con l’altra sponda dell’atlantico». (ibidem)
«(g) La resistenza che il super-imperialismo americano opporrà al suo declino sarà dunque accanita e su scala globale. Dalla supremazia imperiale dipendono infatti la sua stabilità interna, la sua coesione sociale, l’efficacia ideologica paralizzante del “sogno americano”. Senza questa supremazia gli USA sono destinati a impattare contro convulsioni interne senza precedenti. Discende dunque, se questa nostra analisi è giusta, che mai come nel prossimo futuro emergeranno conflitti di varie forme ed intensità, che gli Stati Uniti tenteranno con ogni mezzo (dalle rivoluzioni colorate ai sabotaggi, dalle sanzioni targate ONU all’uso preventivo della forza) di schiacciare ogni focolaio di Resistenza popolare e ogni nazione seriamente ostili. Obama non vuole sbarazzarsi del paradigma ideologico della missione imperiale salvifica che spetterebbe agli USA; non pensa di diminuire il peso delle spese militari, né quello dell’elefantiaco apparato militare nordamericano; né intaccherà il centro propulsore da cui si sprigiona il suo espansionismo globale: il cosiddetto blocco militare-industriale.
(…)
(l) Abbiamo detto che la crisi storico-sistemica del capitalismo occidentale (imperialismo) non si consumerà in un breve periodo, siamo solo al primo atto, il quale apre appunto un intero periodo storico: l’inizio della fine della supremazia assoluta dell’Occidente. Entriamo nella fase della reazione tenace e agguerrita dell’Occidente al proprio declino. Solo per questo il periodo in cui solo ora entriamo sarà segnato da sconvolgimenti che saranno graduali in una prima fase per poi diventare catastrofici. Questi sconvolgimenti investiranno in pieno anche l’Unione Europea, il cui fragile edificio potrebbe andare in pezzi e con esso potrebbe sfaldarsi anche l’alleanza strategica euro-atlantica. Non esistono oggi forze sistemiche che vogliano separare il destino dell’Europa da quello degli Stati Uniti. Tutte le forze sistemiche, di destra di centro e di sinistra, si considerano nella stessa barca degli americani. Quando essa rischiasse di affondare, quando la vecchia talpa della crisi avrà scavato abbastanza, forze extra-sistemiche verranno a galla e saranno poste davanti al dilemma del distacco dagli USA, alla scelta di guardare ad Est e porre fine al rapporto di sudditanza con l’altra sponda dell’atlantico». (ibidem)
Recessione a W e Jobless recovery
Una volta individuata la tendenza storica, essa dev’essere poi convalidata strada facendo, con un’analisi comparata, se non di tutti i fattori, almeno di quelli fondamentali.
Dobbiamo sottolineare che non si parla dunque della crisi di un astratto capitalismo, bensì di quella della modalità turbo-capitalista divenuta dominante negli ultimi decenni.
Dobbiamo sottolineare che non si parla dunque della crisi di un astratto capitalismo, bensì di quella della modalità turbo-capitalista divenuta dominante negli ultimi decenni.
«Il tratto peculiare decisivo che contraddistingue il turbo-capitalismo è che il capitalismo finanziario ha totalmente sussunto tutte le altre sfere dell’universo capitalista, compresa quella della produzione. Di più, il capitalismo finanziario di cui stiamo parlando non è quello di un tempo, risultato della fusione tra quello industriale e bancario, oggi abbiamo un capitalismo finanziario sui generis, un capitalismo finanziario usuraio fondato sullo strozzinaggio e l’aggiotaggio sistemici. Un capitalismo-truffa che ha oltrepassato il confine tra legalità e illegalità, che ha trasformato la circolazione in un gioco d’azzardo, in una bisca planetaria con sue proprie regole e meccanismi, dove i flussi e gli scambi avvengono over-the-counter, operano cioè alle spalle delle istituzioni e delle stesse borse tradizionali.
A questo fenomeno corrisponde che nell’ambito della classe dominante lo strato dominante non è più rappresentato dai capitani d’industria e nemmeno dai banchieri istituzionali, ma dagli avventurieri della finanza speculativa, a loro volta consorziati in organismi che possono muovere e investire in tempo reale cifre colossali, tali da poter condizionare se non determinare le decisioni non solo delle grandi holding multinazionali ma degli stessi governi, compreso quello degli Stati Uniti». (2)
C’era chi, davanti al crollo finanziario-bancario del 2007-2008, non avendo compreso la metamorfosi conosciuta dal capitalismo occidentale, assicurava che esso non avrebbe prodotto sconquassi nella “economia reale”. Il sopraggiungere della recessione, che ha colpito duro anzitutto proprio i paesi a turbo-capitalismo dominante, li ha smentiti. Non era una “bolla” ma un vero e proprio crack, la peggiore crisi dopo quella degli anni ’30.
Ora, dopo la bolla, la balla, quella della “crescita globale”, tra cui quella degli USA.
Il Fmi ha diffuso il 2 aprile il World Economic Outlook per il 2010, rivedendo al rialzo le sue precedenti stime. Siamo usciti dalla recessione, dice il Fmi, visto che “… la crescita mondiale si attesterà quest’anno al 4,1%, con un rialzo di ben un punto percentuale sulle previzioni dell’ottobre scorso. Nel 2011 poi il mondo avanzerà del 4,3%”. (LA STAMPA del 3 aprile)
Ma il fatto è che entrando dentro questa “crescita” scopriamo che essa è diseguale e squilibrata. Se Cina e India non crescessero rispettivamente del 10% e dell’8%, non ci sarebbe alcuna “ripresa globale”.
Il Fmi segnala quindi la crescita del 3% dell’economia americana.
Si tenga conto che sono numerosi gli analisti che ritengono “drogato” l’aumento del Pil degli USA, drogato dal costo pari quasi a zero del denaro, dalla montagna di dollari che ogni giorno vengono immessi sul mercato dalla zecca, e dagli effetti del colossale piano di salvataggio adottato dall’amministrazione Obama, cioè dall’aumento vorticoso del debito pubblico. Ma nonostante le dosi massicce di aiuti eccitanti, questa ripresina si mostra alquanto fragile. Il rischio di una “recessione a W”, e cioè seguita prima da un rimbalzo e poi da un’ulteriore calo, è tutt’altro che esclusa. Senza considerare il rischio che sopraggiunga a breve lo scoppio non di una “bolla”, ma della vera e propria bomba del debito pubblico e dei fondi sovrani statunitensi.
Uno dei parametri utilizzati dal Fmi per giustificare la tesi che la ripresa USA è cosa seria, è quello sugli occupati, che sarebbero cresciuti nel mese di marzo di162mila unità. Balla! «L’economia USA deve infatti generare 100mila nuovi posti al mese solo per assorbire i nuovi ingressi nel mercato del lavoro. E quindi l’incremento di marzo è stato appena di 62mila posti». (Claudio Gatti, Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2010). Lo stesso autore sottolinea poi la qualità dei nuovi lavori, di cui 48mila dovuti esclusivamente al censimento, e si esauriranno non appena questo sarà completato.
Per capire di cosa stiamo parlando si consideri che «sono oltre 8 i milioni di posti di lavoro persi dall’inizio del 2008 ad oggi. 6,5 milioni di americani sono disoccupati da sei mesi e più, 11,4 milioni stanno ricevendo sussidi di disoccupazione dal governo federale. A questi vanno aggiunti altri 4 milioni circa che ricevono aiuti dagli stati oppure sono disoccupati senza assistenza». (Claudio Gatti, ibidem)
Per questo, quando si deve qualificare la “ripresa” di USA ed Europa si usa il neologismo “Jobless recovery”, un mini-ciclo-rimbalzo, che non crea posti di lavoro e che quindi attesta che l’economia occidentale è alle prese con una depressione che durerà a lungo e di cui nessuno intravede l’uscita. La sola cosa certa è che il centro di gravità si sposta ad Oriente, e che qui da noi, assieme a disoccupazione e pauperismo, cresceranno i fattori di sfascio del tessuto sociale e i motivi di nuovi e inediti conflitti.
Il Fmi ha diffuso il 2 aprile il World Economic Outlook per il 2010, rivedendo al rialzo le sue precedenti stime. Siamo usciti dalla recessione, dice il Fmi, visto che “… la crescita mondiale si attesterà quest’anno al 4,1%, con un rialzo di ben un punto percentuale sulle previzioni dell’ottobre scorso. Nel 2011 poi il mondo avanzerà del 4,3%”. (LA STAMPA del 3 aprile)
Ma il fatto è che entrando dentro questa “crescita” scopriamo che essa è diseguale e squilibrata. Se Cina e India non crescessero rispettivamente del 10% e dell’8%, non ci sarebbe alcuna “ripresa globale”.
Il Fmi segnala quindi la crescita del 3% dell’economia americana.
Si tenga conto che sono numerosi gli analisti che ritengono “drogato” l’aumento del Pil degli USA, drogato dal costo pari quasi a zero del denaro, dalla montagna di dollari che ogni giorno vengono immessi sul mercato dalla zecca, e dagli effetti del colossale piano di salvataggio adottato dall’amministrazione Obama, cioè dall’aumento vorticoso del debito pubblico. Ma nonostante le dosi massicce di aiuti eccitanti, questa ripresina si mostra alquanto fragile. Il rischio di una “recessione a W”, e cioè seguita prima da un rimbalzo e poi da un’ulteriore calo, è tutt’altro che esclusa. Senza considerare il rischio che sopraggiunga a breve lo scoppio non di una “bolla”, ma della vera e propria bomba del debito pubblico e dei fondi sovrani statunitensi.
Uno dei parametri utilizzati dal Fmi per giustificare la tesi che la ripresa USA è cosa seria, è quello sugli occupati, che sarebbero cresciuti nel mese di marzo di162mila unità. Balla! «L’economia USA deve infatti generare 100mila nuovi posti al mese solo per assorbire i nuovi ingressi nel mercato del lavoro. E quindi l’incremento di marzo è stato appena di 62mila posti». (Claudio Gatti, Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2010). Lo stesso autore sottolinea poi la qualità dei nuovi lavori, di cui 48mila dovuti esclusivamente al censimento, e si esauriranno non appena questo sarà completato.
Per capire di cosa stiamo parlando si consideri che «sono oltre 8 i milioni di posti di lavoro persi dall’inizio del 2008 ad oggi. 6,5 milioni di americani sono disoccupati da sei mesi e più, 11,4 milioni stanno ricevendo sussidi di disoccupazione dal governo federale. A questi vanno aggiunti altri 4 milioni circa che ricevono aiuti dagli stati oppure sono disoccupati senza assistenza». (Claudio Gatti, ibidem)
Per questo, quando si deve qualificare la “ripresa” di USA ed Europa si usa il neologismo “Jobless recovery”, un mini-ciclo-rimbalzo, che non crea posti di lavoro e che quindi attesta che l’economia occidentale è alle prese con una depressione che durerà a lungo e di cui nessuno intravede l’uscita. La sola cosa certa è che il centro di gravità si sposta ad Oriente, e che qui da noi, assieme a disoccupazione e pauperismo, cresceranno i fattori di sfascio del tessuto sociale e i motivi di nuovi e inediti conflitti.
Lo stesso Fmi, nel suo Outlook, seppure con linguaggio felpato, non può non segnalare la sostanziale inconsistenza della “ripresa” occidentale, in particolare di quella europea, minacciata dai debiti pubblici e dal rischio contagio che viene dalla Grecia.
Il Fmi si è infine occupato delle performances italiane, senza fare mistero dei fantasmi che volteggiano sul Belpaese:
«E tra i partner di Eurolandia, se si escludono Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo, l’Italia sarà il paese con la performance di crescita più debole Per l’Italia, le stime del Fmi vedono una crescita dello 0,8% nel 2010 e dell’1,1% nel 2011. Le previsioni del 2010 sono tuttavia inferiori a quelle del governo che si attende un rialzo del Pil dell’1,1%. Peggio dell’Italia quest’anno faranno Grecia (-2%), Irlanda (-1,5%), Spagna (-0,4%) e Portogallo (+0,3%). Molti governi dei paesi più avanzati, avverte ancora il Fmi, dovranno adottare «urgentemente» strategie credibili di medio periodo per contenere il debito pubblico e poi riportarlo su livelli prudenti». (LA STAMPA, Ibidem).
Dati che, mentre smentiscono il governo Tremonti-Berlusconi, sono in assoluta sintonia con quelli diffusi nei giorni scorsi dall'Istat e dall'Inps (vedi l’articolo di L. Mazzei “Più debito, meno occupazione, ma «bisogna essere ottimisti»!”).
Ergo: già la prossima Legge Finanziaria dovrà essere pesante, ovvero invertire la curva crescente del debito e mettere a posto i conti pubblici. Se non sarà già come i pacchetti anti-crisi di Papandreu, gli andremo vicino. Riuscirà il populista Berlusconi ad adottare misure antipopolari dovendo far fronte a forti movimenti di protesta? Noi continuiamo a dubitarne e a ritenere alta la possibilità della sua defenestrazione anticipata, al massimo in corso d’opera.
«E tra i partner di Eurolandia, se si escludono Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo, l’Italia sarà il paese con la performance di crescita più debole Per l’Italia, le stime del Fmi vedono una crescita dello 0,8% nel 2010 e dell’1,1% nel 2011. Le previsioni del 2010 sono tuttavia inferiori a quelle del governo che si attende un rialzo del Pil dell’1,1%. Peggio dell’Italia quest’anno faranno Grecia (-2%), Irlanda (-1,5%), Spagna (-0,4%) e Portogallo (+0,3%). Molti governi dei paesi più avanzati, avverte ancora il Fmi, dovranno adottare «urgentemente» strategie credibili di medio periodo per contenere il debito pubblico e poi riportarlo su livelli prudenti». (LA STAMPA, Ibidem).
Dati che, mentre smentiscono il governo Tremonti-Berlusconi, sono in assoluta sintonia con quelli diffusi nei giorni scorsi dall'Istat e dall'Inps (vedi l’articolo di L. Mazzei “Più debito, meno occupazione, ma «bisogna essere ottimisti»!”).
Ergo: già la prossima Legge Finanziaria dovrà essere pesante, ovvero invertire la curva crescente del debito e mettere a posto i conti pubblici. Se non sarà già come i pacchetti anti-crisi di Papandreu, gli andremo vicino. Riuscirà il populista Berlusconi ad adottare misure antipopolari dovendo far fronte a forti movimenti di protesta? Noi continuiamo a dubitarne e a ritenere alta la possibilità della sua defenestrazione anticipata, al massimo in corso d’opera.
*Questo articolo è apparso il 7 aprile su www.campoantimperialista.it
Note
(1) “LA CRISI STORICO-SISTEMICA DEL CAPITALISMO, I NUOVI CONFLITTI GEOPOLITICI E I COMPITI DEL CAMPO ANTIMPERIALISTA”. Risoluzione dell’Assemblea internazionale del 5-6 dicembre 2009
(2) “Di cosa è malato il capitalismo? Perché la catastrofe è inevitabile”. Moreno Pasquinelli
(2) “Di cosa è malato il capitalismo? Perché la catastrofe è inevitabile”. Moreno Pasquinelli
1 commento:
1) Povero Marx: in lui non c'è nessuna "teoria del crollo". Marx non era un determinista meccanico (come lo sono e sono stati molti marxisti, ahimè).
2) La crisi è strutturale e di lungo periodo, ma la caduta dell'Unione sovietica non c'entra nulla, è solo un luogo comune. La trasformazione comincia nel 1975, tutti i discorsi che si fanno valgono a partire da quella data (e non per tutto il dopoguerra), molto prima delle "cadute" (del muro di Berlino e dell'URSS).
3) Questa crisi è iniziata con un "detonatore" finanziario (come quella del '29) e come "crisi improvvisa". Ma sta andando avanti come processo lento. Non c'è stata in realtà nessuna "ripresa", è stata solo vaticinata dai modelli econometrici. Qualcuno dice "matematici" ma è un insulto alla matematica: sono modelli *numerici*, ben altra cosa.
Quindi non vedo dove sia la W e dove sia il "rimbalzo". Qui c'è solo una grande voglia di decretare la "fine della crisi", e ci si attacca a tutto. La crisi sarà "finita" (grazie ad interventi precisi, di lunga durata, come il New Deal, da sola difficile se ne vada) solo quando l'occupazione riprenderà a crescere in modo stabile, non per mezza giornata. Gli altri "indicatori" - ivi compresa la disoccupazione - quali le Borse o il PIL non dicono niente.
4) La distruzione sociale che questa crisi sta comportando e comporterà provocherà delle reazioni di difesa (già lo sta facendo). Non è detto che abbiano un segno positivo. In passato questo ha provocato due guerre mondiali e tre mostri (il fascismo, il nazismo e il bolscevismo). Se non ci sarà una risposta politica democratica caoace di fornire difese efficaci alle strutture sociali, limitando il mercato e proteggendo i fondamentali da questo, aspettiamoci il caos.
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