[ 19 aprile 2010 ]
LE LEZIONI CHE TIRIAMO NOI
di Moreno Pasquinelli
Ieri abbiamo tentato di raffigurare con un nostro grafico la meccanica del colossale raggiro operato dalla Goldman Sachs coi Derivati, e ci eravamo ripromessi di svolgere alcune considerazioni. (1) Anzitutto va segnalata la dimensione della vicenda Goldman, (2) in secondo luogo ciò che essa rivela riguardo alla effettiva natura del capitalismo finanziario contemporaneo, (3) in terzo luogo quali conclusioni se ne debbano trarre dal punto di vista politico. Procederemo dunque con ordine.
Collateralized debt obbligation
Nel 2007 la banca aveva confezionato il prodotto in questione affinché certi suoi clienti selezionati, ad anche i propri traders, potessero investire “short” sulle sorti del mattone USA: scommettendo sul crollo dei bond (titoli) legati ai mutui ipotecari a rischio di insolvenza. Quando la bolla iniziò a sgonfiarsi (la Goldman nel frattempo aveva già guadagnato dalla vendita dei bond Abacus), Goldman e i clienti “short” incassarono forti profitti, mentre gli acquirenti Abacus 2007-AC1 (tra cui anche grandi banche, fondi pensione, investitori, ecc.) rimasero fregati, perdendo miliardi dalla caduta dei titoli. Una simile procedura di scommessa sul crollo dei mutui produceva due diabolici effetti, il primo condizionava pesantemente la scelta di quali titoli inserire in Abacus (ossia quelli più fallimentari), il secondo, di conseguenza, contribuiva a determinare la bolla dei muti subprime, con l’effetto sociale di sequestrare la casa ai cittadini insolventi. Il tutto con l’aggravante che Goldman ingannava gli acquirenti di Abacus dicendo loro che le obbligazioni erano scelte da un soggetto terzo, indipendente e obbiettivo.
Una truffa colossale dunque, incomparabile per dimensioni a quella (per un valore di 50 miliardi di dollari) orchestrata dal trader ed ex direttore del Nasdaq Bernard Madoff, arrestato nel dicembre 2008. Senza dimenticare che sempre Goldman inventò lo Swap che aiutò la Grecia ad aggirare le regole Eurostat. Che è sempre la Goldman nella prima fila di coloro che speculano sui Futures e i Derivati sulle materie prime facendo schizzare in alto il prezzo del petrolio e di altre materie prime.
La truffa non poteva non riportare alla ribalta il solito dilemma che affligge, si fa per dire, gli apologeti del capitalismo, se il fare profitti in misura sempre crescente vada d’accordo con l’etica dell’onestà e della correttezza morale. E che scoprono i nostri? «Purtroppo etica e affari non vanno sempre d’accordo. (…) Goldman ha superato il confine. Dietro ad una facciata di serietà esiste la dura realtà del mercato dove è difficile conciliare etica e profitto». (Orazio Carabini, Il Sole 24 Ore del 17 aprile).
La conclusione non viene tratta. La traiamo noi: la truffa è l’anima del capitalismo, e chi si vuole tenere il capitalismo molli la zavorra dell’etica. Ovviamente vale il contrario.
LA DIMENSIONE DELLA VICENDA GOLDMAN
Si tenga anzitutto presente che la Goldman è quel che si dice una banca d’affari, o d’investimento, ovvero un istituto che non gestisce depositi ma ha una funzione prevalente di intermediazione finanziaria. Le cinque banche d’affari più grandi, fino al crack del settembre 2008, erano tutte statunitensi: Lehman Brothers, Merrill Lynch, Bear Stearns, Morgan Stanley e Lehman Brothers. Ricordiamo che la Lehman Brothers fece bancarotta, la Bear Stearns, con l’aiuto della Fed, venne acquisita da JPMorgan Chase, la Merrill Lynch venne acquisita a sua volta dalla Bank of America, mentre Morgan Stanley e Goldman Sachs evitarono il peggio ma dovettero cambiare il loro statuto da banche d’affari a Holding companies. Un mutamento che com’è noto agli addetti ai lavori è stato solo di facciata.
Ebbene, come risultato del crack del 2008 la Goldman è oggi la prima banca d’affari, non solo negli USA ma nel mondo. La sua capitalizzazione azionaria (il valore di mercato complessivo) a Wall Street, nonostante la batosta di due anni fa, ammonta a 85 miliardi di dollari.
Per farsi un’idea di cosa stiamo parlando basti pensare che la capitalizzazione del primo gruppo automobilistico al mondo, la Toyota, è di 62 miliardi, mentre quella della FIAT è di 13,8 miliardi. Unicredit, primo gruppo bancario europeo in quanto a raccolta è quarto in capitalizzazione: 54 miliardi di dollari.
Cambiando parametro si tenga conto che la capitalizzazione di Goldman è superiore al Pil di un paese come la Croazia, è doppia di quello del Lussemburgo, 4 volte quello del Mozambico, 21 volte quello dell’Eritrea.
Si capisce dunque perché la notizia dell’inchiesta della Sec (la Consob americana) con la relativa accusa di truffa, abbia fatto tremare non solo Wall Street ma le borse mondiali. Il problema non è infatti l’inchiesta in sé (l’imputazione è solo contro un individuo, Fabrice Tourre, all'epoca dei fatti vicepresidente della Goldman), quanto perché tutti sanno che quello sollevato dala Sec è un vaso di Pandora. Detto diversamente: la vicenda Abacus è solo la punta di un immenso iceberg, rappresentato dalla speculazione finanziaria, che negli ultimi quindici anni è cresciuta a dismisura e che, come un cancro, ha colpito il capitalismo internazionale. È notizia di ieri che la Sec indaga anche su JpMorgan Chase, merrill Lynch (oggi Bank of America), Citygroup, nonché sulle europee Ubs e Deutsche Bank. «Siamo solo all’inizio di una vasta campagna di governo contro Wall Street … Goldman non è l’unica ad avere venduto prodotti di quel tipo.» (New York Times del 17 aprile).
La scoperta dell’acqua calda, aggiungiamo noi.
CE LA FARA’ L’OCCIDENTE A VENIR FUORI DALLA SUA CRISI?
In questi ultimi mesi non ci siamo stancati di sottolineare che qui non si tratta solo di una recessione ciclica, che in ballo non c’è una semplice tinteggiata all’edificio del turbo-capitalismo (o capitalismo casinò). Il terremoto del 2007-08 ha mostrato che sono le stesse fondamenta dell’edificio ad essere gravemente lesionate. In ballo c’è quindi la ricostruzione del sistema capitalistico occidentale, l’abbandono del modello turbocapitalista e l’impianto di uno nuovo. Senza questa radicale rifondazione l’Occidente imperialistico è destinato a subire nuovi collassi e un declino inesorabile a tutto vantaggio dei capitalismi più giovani e rampanti, in primis quello cinese.
I grandi cervelloni, i tecnici del dominio economico finanziario, lo sanno bene, anche se evitano di dircelo apertamente. Ne fanno fede l’inchiesta della Sec, le pur prudenti posizioni della Casa Bianca, quelle degli organismi come il Fmi, il Financial Stability Board, per ultimo il Consiglio Ecofin riunitosi il 17 aprile. Tutti temono un altro imminente, fatale, crack finanziario e consigliano di farla finita con la paccottiglia dei Derivati, una ricapitalizzazione delle banche e, non a caso, l’istituzione di “imposte sul rischio” per le banche, coi cui ricavati istituire fondi di salvataggio nell’eventualità per niente remota di nuovi fallimenti. Addirittura Bill Clinton, le cui “riforme” negli anni ’90 erano ispirate alla logica della finanza allegra e del lassaiz faire (Robert Rubin, il capo della Goldman divenne suo Ministro del tesoro), ha ammesso di aver sbagliato. (Corriere della Sera del 19 aprile).
Ce la farà il capitalismo euro-atlantico a rifondarsi prima che sopraggiunga una catastrofe? Ad estirpare il cancro che l’affligge prima che sia troppo tardi? Noi ne dubitiamo. A parte che non è affatto chiaro quale debba essere il modello deputato a rimpiazzare quello turbo-capitalista, il cancro della speculazione globale, della iper-finanziarizzazione ha afferrato l’organismo come una metastasi —abbiamo un meta-capitalismo, nel senso di capitalismo-cancerogeno.
Alcuni, parliamo dei keynesiani, ritengono che ci sia ancora una speranza di salvezza, l’unica. Per loro si potrebbe tornare ad un “capitalismo sano” e alla crescita usando per tutto un periodo le due leve del debito pubblico e dell’inflazione. Proprio come venne fatto dopo la seconda guerra mondiale. Che si possa ripetere quella performance noi dubitiamo fortemente. Allora il capitalismo occidentale poté uscire, non senza scosse per altro, dall’impasse del debito colossale, imponendo sacrifici inauditi ai salariati e perché dopo le immani distruzioni si riavviò un processo di accumulazione del Capitale e degli investimenti senza precedenti. Ne derivò un’onda lunga di crescita economica che partorì la cosiddetta “società dei consumi” ove, per la prima volta, la produzione per i consumi di massa divenne il fattore trainante del lungo boom post-bellico. Né va dimenticato il favorevole contesto economico e geopolitico internazionale. L’occidente doveva sì fare i conti con l’emergere delle rivoluzioni anticoloniali, ma non aveva concorrenti economici sul piano della competizione capitalistica, che gli disputassero cioè il suo predominio nei campi decisivi dell’industria, della finanza, delle scienze e della tecnologie. Per decenni l’Occidente usufruì infine del vantaggio decisivo di detenere il monopolio del commercio mondiale e del controllo delle materie prime.
Oggi il contesto è del tutto diverso, siamo in un quadro di aspra contesa capitalistica mondiale. L’avanzata dell’Oriente e della Cina hanno minato alle fondamenta la posizione di monopolista mondiale dell’Occidente, mentre i loro fondamentali economici strutturali sono decisamente più saldi di quelli occidentali. Questo mentre sia il “soft power” dell’Occidente, ovvero la capacità di ottenere adesione ai suoi valori democratici e alla sua cultura liberale, sia la forza egemonica del neoliberistico “Washington consensus”, sono feriti a morte.
Accrescere il già ciclopico debito pubblico (non dimentichiamo i livelli enormi di quello privato), o puntare sull’inflazione (ovvero una politica monetaria svalutativa) sono solo dei palliativi. Essi potrebbero sortire effetti di rilancio di lungo periodo a due sole condizioni. Mettere in atto, al proprio interno, un gigantesco spostamento di ricchezza ai danni delle masse popolari (pauperizzazione e obbligo a fornire forza-lavoro a bassissimo costo) e, verso l’esterno, orientarsi verso il redde rationem della guerra per riconquistare il controllo pieno dei mercati, sia di sbocco che di approvvigionamento delle materie prime.
Potremmo sbagliarci. Ma se non ci sbagliamo tanto vale cambiare il punto all’ordine del giorno: non come uscire dalla crisi, bensì come uscire dal capitalismo.
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