[ 16 febbraio 2010 ]
UN GIUDIZIO CRITICO SULLE ATTUALI PROTESTE OPERAIE
Intervista a Mario Tronti
di Anna Simone
di Anna Simone
«Io ho sempre pensato, sin dagli anni ’60, che le lotte operaie non contano politicamente in quanto tali, ma in quanto vengono organizzate, prima sindacalmente e poi politicamente. Se questo era vero allora ed era facile perché alla Fiat erano in 120.000 a bloccare la produzione, diventa tanto più necessario oggi. Le tante micro-lotte a cui assistiamo oggi non riescono ad esprimere una vera e propria contestazione di sistema perché non hanno una rappresentanza politica, anche solo simbolica. D’altronde la sinistra in questi ultimi anni non si è occupata di questo, ha preferito lavorare sulle nuove “soggettività” emergenti, sull’ambientalismo, sul femminismo».
-La prima domanda è d’obbligo. Nel ’66 usciva il suo famoso testo “Operai e capitale”, da allora ad oggi cosa è cambiato in relazione al nesso capitale-lavoro?
E’ cambiato moltissimo. C’è stato un cambiamento radicale. Non mi sognerei oggi di rivendicare una dimensione frontale di conflitto tra operai e capitale perché c’è stata una trasformazione del capitalismo che parte dalla seconda metà degli anni ’60, attraversa gli anni ’70, gli anni ’80 ed arriva sino a noi con tutto quello che ne deriva, anche se a tutt’oggi non può dirsi del tutto concluso il ciclo fordista. La divisione del processo lavorativo, infatti, continua in altre forme anche se possiamo dire conclusa la fase dello scontro diretto tra operai e capitale. Uno scontro che non era un’invenzione, né un approdo definitivo. Non a caso tutto l’operaismo insisteva molto su questa dinamicità insita sia nel capitale che nei processi produttivi. La fase fordista non era solo una manovra economica, ma anche politica. E’ stata anche l’unica fase politica in cui il capitalismo ha avuto paura della forza-lavoro che lo minacciava dall’interno. Oggi non è più così. E’ cambiato il capitalismo e anche, di conseguenza, il lavoro. La centralità operaia è diventata la “marginalità” operaia. La produzione si è decentrata, si è passati dalla grande industria alla piccola e media impresa, il capitalismo oggi ha una grossa base cognitiva, è cresciuto il lavoro autonomo, il lavoro della conoscenza. Tuttavia va pure detto che esistono ancora sette milioni di operai. Il problema è che non hanno più la capacità politica di imporre la propria forza sul capitale. Insomma direi senz’altro che sono cambiate le condizioni per una lotta di classe degna di nota.
-La scomposizione del lavoro, del capitale e delle filiere produttive oggi si ripercuote anche nelle lotte che vengono messe in campo. I precari degli enti di ricerca occupano gli enti da soli, gli operai dell’Inse o di Porto Torres occupano da soli gli stabilimenti presso cui lavorano, il popolo delle Partite Iva rivendica un regime di tassazione minore per voce di pochi etc. Lei registra una trasformazione, però assai spesso lei sostiene anche la tesi secondo cui la politica oggi dovrebbe ricomporsi proprio sul lavoro. Ma come si può dinanzi a così tanta disgregazione delle stesse lotte?
Questo è senza ombra di dubbio un problema, ma riguarda la riconfigurazione della sinistra. Io ho sempre pensato, sin dagli anni ’60, che le lotte operaie non contano politicamente in quanto tali, ma in quanto vengono organizzate, prima sindacalmente e poi politicamente. Se questo era vero allora ed era facile perché alla Fiat erano in 120.000 a bloccare la produzione, diventa tanto più necessario oggi. Le tante micro-lotte a cui assistiamo oggi non riescono ad esprimere una vera e propria contestazione di sistema perché non hanno una rappresentanza politica, anche solo simbolica. D’altronde la sinistra in questi ultimi anni non si è occupata di questo, ha preferito lavorare sulle nuove “soggettività” emergenti, sull’ambientalismo, sul femminismo. Il vostro giornale è sempre stato maestro su questo. Tutto condivisibile, ma poi non si riesce a ricomporre un antagonismo nei confronti di tutto il sistema. Oggi il sindacato dovrebbe fare questo, dovrebbe mettere in rapporto le lotte tra loro evitando le corporazioni e i settarismi, ma dovrebbe farlo anche un partito di sinistra piccolo o grande che sia. Certo, organizzare una classe operaia concentrata è più facile che organizzare il “lavoro diffuso”, però questo deve essere il compito della sinistra. Anche se è difficile va fatto adattando e modificando gli strumenti organizzativi. Solo a partire da una rappresentazione e da una rappresentanza del “lavoro diffuso” possono funzionare anche le altre contraddizioni evocate prima (ambientalismo, femminismo etc.). Insomma il capitalismo c’è, il profitto pure e allora non possiamo assecondare la centralità del lavoro.
-Lei dice la centralità del lavoro…all’interno di questo discorso, però, c’è una parte della sinistra che evoca il ritorno al lavoro salariato nonostante siano cambiati i sistemi di produzione e c’è un’altra parte, che si autorappresenta -penso soprattutto ai precari e alle precarie, ai lavoratori della conoscenza- che, invece, sostiene la tesi della centralità del reddito. Come la mettiamo?
Su questo bisogna fare un ragionamento più articolato. Intanto io ripartirei dalla contingenza in cui si trova il lavoro in questa fase precisa del capitalismo e cioè la crisi finanziaria. Questa idea secondo cui il capitalismo ama la flessibilità del lavoro, la precarietà etc. sta cominciando a diventare una leggenda dinanzi alla crisi. Quest’ultima, infatti, dimostra che il capitalismo non ha poi basi così solide. L’idea secondo cui il reddito deve sostituire il lavoro a me pare più una rivendicazione subalterna allo stesso capitalismo che non una fuoriuscita dal problema. La flessibilità finora non ha portato a liberarsi dal lavoro, semmai ha condotto ad una condizione di precarietà, anche esistenziale, che la sinistra non può e non deve sopportare. Bisogna marcare questa insopportabilità soprattutto nei confronti di chi, giovanilmente e ingenuamente, pensa che il flessibile è bello. Se il flessibile diventa precario come sempre accade, quella vita lì è molto peggiore della vita di un lavoratore alla catena di montaggio. Almeno questi ultimi potevano progettarsi la vita. Guardi, la scorsa domenica leggevo sul Sole 24 ore un articolo di un economista, Richard Freman della Harvard University, il quale scriveva: “Chi soffrirà di più e più a lungo per l’implosione di Wall Street? Non certo i banchieri, non certo i finanzieri, nemmeno gli imprenditori. I grandi sconfitti di questo disastro economico sono i lavoratori di quei paesi ricchi che hanno abbracciato la flessibilità liberista del capitalismo di stampo americano”. Piu chiaro di così? Anche Stiglitz, premio nobel dell’economia, dice a tal proposito una cosa importante e cioè che quella mano invisibile, tanto evocata da Smith per definire il capitalismo liberista, era invisibile non perché non si vedeva, ma perché non c’era. Non esiste una mano invisibile del mercato che aggiusta i conti se non c’è un intervento politico. La mia idea di fondo è che sia il capitalismo, sia il lavoro, hanno bisogno della politica. La sinistra deve essere anche oggi l’erede del movimento operaio o sarà un’altra cosa, sarà una sinistra americana. Ma se così fosse allora anche la stessa sinistra dovrebbe dare ragione al Pd. La storia non si taglia. Il problema non è rifare la storia del movimento operaio perché quella è una storia effettivamente conclusa, ma da lì bisogna riprendere a ragionare per attualizzare, comprendere le trasformazioni tornando a contestare efficacemente la struttura del capitalismo.
-Rimane tuttavia una grande contraddizione. Oggi non si può tornare indietro rispetto ai sistemi di produzione e anche sulla molteplicità delle forme di lavoro. Ragion per cui anche volendoci assumere la centralità del lavoro come forma primaria dell’aggregazione del politico, dovremmo forse spostarci sul welfare per coprire degli anelli mancanti, per dare risposte. La politica oggi più che di lavoro dovrebbe occuparsi di una riforma del welfare. Ci sono milioni di lavoratori precari che non hanno diritto ad uno straccio di ammortizzatore sociale…
Certo, la riforma del welfare va fatta. Doveva farla il governo di centro-sinistra e non solo in Italia, anche in Europa. Non averlo fatto è stato un errore che paghiamo ancora oggi. Però la riforma del welfare non risolve tutto. Possiamo ragionare sul reddito garantito e su altre forme di ammortizzatori sociali però sempre pensando ad un nodo fondamentale. Il problema non è quello di tornare indietro, il capitalismo anche se si trasforma o si ristruttura non cambia la sua natura di fondo. La mia impressione è che lo stesso capitalismo dovrà risolvere il problema del precariato perché a un certo punto non risponderà più nemmeno ai propri interessi. Il capitalismo prima o poi sarà costretto a tornare ad una maggiore sicurezza di sé, il lavoro precario comincia a non garantirgliela più. Il problema della sinistra oggi è: legare vecchie forme di lavoro a nuove forme di lavoro. Non si può inseguire tutto ciò che è nuovo solo perché è “nuovo”. A volte ciò che è “nuovo” può anche andarci contro, come spesso accade. Bisogna ragionare su tradizione e rivoluzione. E’ assurdo che la sinistra contrapponga il lavoro salariato al lavoro precario. Che facciamo, distribuiamo il reddito a seconda delle generazioni? Io vorrei distribuirlo tenendo ben presente chi sono i lavoratori e chi i padroni. Il welfare è importante, ma bisognerebbe anche far capire ai giovani precari che i loro nemici non sono i lavoratori salariati a tempo indeterminato. Il loro nemico è chi li costringe alla precarietà e all’infelicità quotidiana.
-Ha toccato un punto che mi stà molto a cuore. Io credo che negli ultimi anni si sia andata sviluppando una forma di odio tra singole tipologie di lavoratori, fatto inedito e pericoloso, ma pur sempre un fatto. Basti pensare al rancore maturato dagli operai che nel nord est votano la Lega perché si liberebbero volentieri dei loro simili immigrati, ma anche alla solitudine dei precari. Oggi l’odio si sviluppa all’interno delle stesse categorie del lavoro, ci si odia tra simili e c’è un’inequivocabile insofferenza nei confronti di sindacati e partiti. D’altro canto il primo sciopero indetto dalla Cgil dei lavoratori della conoscenza c’è stato solo poco più di un mese fa…c’è una generazione che ha bisogno di risposte qui e ora!
C’è un indiscusso ritardo del sindacato su questo, c’è una mancanza di sensibilità nei confronti di situazioni non tradizionali a cui si è legati da vincoli storici e abitudine. La stratificazione della contrapposizione tra lavoratori, lei dice odio, si è verificata perché non c’è stata una sinistra in campo. Se ci fosse stata avrebbe evitato questa deriva. Avrebbe lavorato per tenere assieme queste singole parti. Il Pci, di cui ora si parla solo male, commetteva tanti errori, ma non avrebbe mai commesso un errore del genere. Non avrebbe mai lasciato andare una parte dei lavoratori addirittura dalla parte opposta, come oggi accade con i lavoratori che votano la Lega. Il non aver seguito e curato le nuove forme di lavoro riconoscendole, anche al di fuori della vecchia forma-partito o della vecchia forma sindacale è stato un errore. Poi, vede, l’odio non è solo quello del lavoro giovane e precario contro quello adulto e sicuro, nel caso del nord-est è proprio la figura del lavoratore, stabile o no, che si è dissociata dalla sinistra politica perché ha capito che non se ne occupava più.
(Tratto da su "Gli Altri" settimanale)
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