mercoledì 5 ottobre 2016

IMMIGRAZIONE E NEOLIBERISMO di Maximilian Forte

[ 5 ottobre ]

Maximilian Forte, antropologo italo-canadese, segnala come, sulla questione dell'immigrazione, la sinistra si stia organizzando i suoi funerali. Partendo dal caso degli Stati Uniti, egli mostra come la sinistra sia del tutto subalterna alla narrazione (e agli interessi!) delle oligarchie neoliberiste. E’ ora di porre il tema dell’immigrazione al centro del dibattito politico, senza ipocrisie e senza tabù, sottraendola al ricatto di un cattivo moralismo.

L’immigrazione, a torto o a ragione, è diventata uno dei temi più dibattuti nell’attuale scontro politico in Europa e Nord America. Forse esagerando, il ruolo dell’imigrazione è considerato un fattore centrale per la scelta del Brexit nel Regno Unito, e per l’ascesa del movimento “America First” di Trump negli Stati Uniti. Sembra oggi impossibile poter discutere serenamente sull’immigrazione, senza che nel dibattito entrino in gioco ogni sorta di ordini del giorno, preconcetti, insinuazioni e ricriminazioni. Attori e interessi di ogni tipo rivendicano una voce nel dibattito, dall’identità e sicurezza nazionale al multiculturalismo, ai diritti umani, al cosmopolitismo globalista. Al contrario, ciò che viene generalmente ignorato nei dibattiti pubblici è una discussione della politica economica dell’immigrazione ed in particolar modo una critica del ruolo dell’immigrazione nel sostenere il sistema capitalista.

Prima di proseguire, dobbiamo innanzitutto smontare alcune tattiche di distrazione, spesso usate nel dibattito pubblico, che purtroppo confondono troppe persone. Primo: essere contrario all’immigrazione non rende una persona razzista. Le due cose non sono consequenzali. Essere razzista significa adottare una visione dell’umanità ordinata in base a delle differenze biologiche, che si immagina stabiliscano una gerarchia. Preferire “i propri simili” (qualsiasi cosa significhi) potrebbe essere la base di un certo etnocentrismo, ma non necessariamente del razzismo in quanto tale. E’ importante non scattare sempre istericamente sui termini più provocatori e sconcertanti solo perché la vis polemica richiede una vittoria immediata. In realtà, non si vince nulla, si dà solamente l’impressione di non sapere di cosa si sta parlando. Similmente, la xenofobia non implica né razzismo né etnocentrismo, perché può andare oltre si l’uno che l’altro nell’essere una paura o una repulsione nei confronti di chiunque sia “straniero” o “diverso”. Al contrario, uno può essere fermamente razzista ma allo stesso tempo a favore dell’immigrazione, a condizione che l’immigrazione sia consentita solamente ai membri della propria razza (politica ufficialmente seguita dall’Australia fino alla seconda guerra mondiale). 

Altre forme di politiche razziste favoreli all’immigrazione includono la schiavitù propriamente detta, il lavoro forzato, fino al razzismo spicciolo di chi dice “facciamo venire i Messicani, sono così bravi come giardinieri”. Bisogna aggiungere che alcuni sondaggi condotti negli Stati Uniti suggeriscono che “l’opposizione all’immigrazione negli Stati Uniti non sia legata al razzismo, bensì alla paura che gli immigrati meno qualificati non possano mantenersi senza usufruire di vari programmi assistenziali (Medicaid, SNAP [buoni pasto, ndT], crediti d’imposta,…). Reihan Salam aggiunge “credo che se la politica migratoria non fosse discussa in termini razziali, l’opposizione all’immigrazione sarebbe in realtà molto più forte.” Bisogna altresì distinguere tra opinioni anti-immigrati e politiche anti-immigrazione, anche se tra le due ci possono essere punti di contatto. In definitiva, tutte queste cose oscurano le domande essenziali che non vengono, in genere, mai poste: 1) Razzismo, identità ed apertura sono le questioni più importanti in tema di immigrazione? 2) Perché i lavoratori dovrebbero essere a favore dell’immigrazione?

Se rivolgiamo la nostra attenzione all’attuale politica economica dell’immigrazione in Europa e Nord America, e prestiamo attenzione alla relazione fra immigrazione e capitale, potremmo scoprire due strane assenze. La prima è che coloro i quali, a sinistra, negli anni passati erano apertamente critici nei confronti dell’immigrazione di massa, in particolar modo quella illegale, ora non si pronunciano su questo tema, o hanno cambiato opinione senza spiegare perché. La seconda è che molti intellettuali Marxisti, pur avendo tutti gli strumenti concettuali ed empirici per farlo, non collegano immigrazione e capitale nei loro lavori, evitando di fornire delle basi per una critica all’immigrazione. La mia spiegazione per entrambe le assenze è la paura di essere stigmatizzati come xenofobi o, peggio ancora, razzisti, anche se, come detto prima, tale paura è illogica e dovrebbe essere superata.

LA SINISTRA IN PASSATO: CRITICA PUBBLICA DELL’IMMIGRAZIONE
In un passato non molto remoto, attivisti e politici di sinistra come Naomi Klein e Bernie Sanders si erano pronunciati pubblicamente contro l’immigrazione per il suo ruolo nella depressione dei salari, nell’aumento della disoccupazione e della miseria tra le classi meno abbienti, e nella promozione di una forma elitista di distacco cosmopolita da ogni luogo. Concentriamoci su questi due autori.

Naomi Klein sosteneva che le persone legate alle proprie origini fossero la piu grande minaccia per il capitalismo neoliberista, perché hanno “radici e storie alle spalle”, mentre il capitalismo globale preferisce “assumere persone disposte a
 muoversi con facilità“. Klein riconosceva anche che questo modello economico crea eserciti di “lavoratori in surplus” e che i lavoratori migranti sono utili “a tenere i salari molto, molto bassi.” Naomi Klein si è pronunciata anche sulla ricostruzione di New Orelans in seguito all’uragano Katrina, in cui coloro che hanno perso le loro case, soprattutto afroamericani, non sono stati quelli che hanno ottenuto i lavori per ricostruirle, lavori per cui sono stati utilizzati invece “lavoratori immigrati”.

Bernie Sanders, che avrebbe in seguito denunciato le politiche a favore delle frontiere aperte come un piano degli oligarchi di destra, dei fratelli Koch [famosi affaristi americani, ndT], nel 2007 dichiarava:

“Se la povertà aumenta e i salari diminuiscono, non capisco perché abbiamo bisogno di milioni di persone che entrano in questo paese come lavoratori temporanei, che lavoreranno per stipendi più bassi di quelli dei lavoratori americani e porteranno ad un ulterore abbassamento dei salari, più di quanto non stia già accadendo ora.”

E l”intervistatore aggiungeva:

“E come sappiamo, le principali industrie che assumono la maggior parte degli immigrati illegali, industrie di costruzioni, di giardinaggio, dello svago, del turismo, sono tutte industrie in cui i salari stanno diminuendo… Questo punto non viene discusso al Senato da chi propone la regolarizzazione degli immigrati.”

A cui Sanders rispondeva:

“E’ vero, non hanno una risposta coerente a riguardo.” […]

IMMIGRAZIONE: AL SERVIZIO DEI DETENTORI DEL CAPITALE

[…] In “Diciassette contraddizioni” Harvey [celebre antropologo inglese, ndT] nota che, per molti Marxisti, la contraddizione tra capitale e lavoro è la principale contraddizione del capitalismo, ma, seppur egli stesso Marxista, non pensa che questa contraddizione possa spiegare da sola tutte le crisi del capitale. La sua definizione di capitale, e il modo in cui lo distingue dal capitalismo, lasciano molto a desiderare. Avendo fissato il ruolo del lavoro nello sviluppo storico del capitalismo (fondamentale o no, il lavoro rimane centrale), Harvey personifica il capitale dicendo che “il capitale si sforza di produrre un paesaggio geografico favorevole alla sua riproduzione e successiva evoluzione,” anche se sono i capitalisti che lo fanno, e non il capitale in quanto tale. Avrebbe potuto aggiungere che rimaneggiare un paesaggio geografico implica considerare come gli esseri umani si inseriscono in questo paesaggio, e che spostare lavoratori in giro per il mondo significa senza dubbio rimaneggiare la geografia. Avendo stabilito la centralità della contraddizione capitale-lavoro, Harvey aggiunge il terzo elemento essenziale della sua analisi: “che un’economia basata sulla spoliazione è il nocciolo di quello che davvero è il capitalismo.” Come procede questa spoliazione dei lavoratori?

L’utilità dell’immigrazione nel sistema capitalistico sta nell’abilità, da parte dei capitalisti, di usarla per rompere il potere monopolistico del lavoro. Sostanzialmente, i lavoratori possono avere un monopolio virtuale sul loro lavoro, specialimente se il lavoro è specializzato e il numero dei lavoratori ridotto. Il flusso di migranti può spezzare questo monopolio, creando competizione tra i diversi lavoratori. Harvey spiega questo concetto in dettaglio, ma senza mai parlare esplicitamente di immigrazione, utilizzando un esempio che si rivela molto importante per la situazione americana odierna:

“Sull’agenda del capitale non c’è l’abolizione delle specializzazioni di per sé, ma l’abolizione delle specializzazioni monopolizzabili. Quando nuove competenze diventano importanti (ad esempio, il saper programmare al computer), allora il problema per il capitale non è necessariamente abolire queste abilità (cosa che alla fin fine potrebbe ottenere grazie all’intelligenza artificiale), ma minare il loro aspetto potenzialmente monopolizzabile finanziando una sovrabbondanza di opportunità per acquisire quella specializzazione. Quando, da un numero esiguo, la forza lavoro con competenze di programmazione cresce fino ad essere sovrabbondante, il potere del monopolio si rompe, facendo crollare il costo di quello specifico lavoro. Una volta che i programmatori possono essere pagati una pipa di tabacco, allora il capitale è certamente felice di riconoscere questa come forma di lavoro specializzato di cui si serve…”

Oggi possiamo aggiornare questa spiegazione in termini di immigrazione. Harvey sottolinea che l’aumento dell’accesso all’educazione porta ad un aumento del numero di lavoratori specializzati, ma non nota, e suona molto strano, dato che ha lavorato nell’università per gran parte della sua vita, che un altro metodo per aumentare quel numero è importare studenti stranieri perché seguano un corso di studi, e poi trattenere quegli studenti stranieri. In altre parole, importare specialisti dall’estero attraverso l’immigrazione. Questo è un punto cruciale del programma di Hillary Clinton in vista delle elezioni presidenziali del 2016, ma non se parla, proprio per quella tattica diversiva del politicamente corretto a cui accennavo precedentemente. Infatti, nel
 “Programma di Hillary Clinton su tecnologia e innovazione”, si legge:

“Attirare e far restare i migliori talenti da tutto il mondo: Il nostro sistema di immigrazione è minato da visti, burocrazia e altre barriere che impediscono ai lavoratori specializzati e agli imprenditori di venire, restare, e creare lavoro negli Stati Uniti. Troppo spesso imponiamo a persone provenienti da altri Paesi e formate negli Stati Uniti di ritornare a casa, senza dare loro la possibilità di rimanere e di continuare a contribuire alla nostra economia. Nel contesto di una soluzione più ampia per l’immigrazione, Hillary garantirebbe il visto (green card) a tutti i laureati e i dottorati in discipline scentifiche presso istituzioni accreditate, permettendo agli studenti stranieri che hanno finito il loro percorso di studi di accedere alla “green card”. Hillary sosterrà inoltre i visti “start-up”, che permettono ai migliori imprenditori stranieri di venire negli Stati Uniti, costruire imprese nei settori tecnologici più competitivi a livello globale, e creare posti di lavoro e opportunità per i lavoratori americani. Prima di ottenere il visto, gli imprenditori immigrati dovranno ottenere un impegno di copertura finanziaria da parte di investitori americani, e per ottenere la green card dovranno creare un certo numero di posti di lavoro e ottenere determinati risultati.”

A questo punto, per gli studenti americani, gravati di debiti contratti per ottenere i loro diplomi nelle discipline scientifiche, sarà sempre più difficile spuntarla quando dovranno competere con gli immigrati per un numero finito di posti di lavoro, oppure quando i loro stipendi diminuiranno, man mano che il numero di lavoratori dello stesso settore aumenterà. Quello che la Clinton sta proponendo, in effetti, non è niente di nuovo: formalizzerebbe e renderebbe più efficiente la competizione dei “colletti bianchi” stranieri che già esiste. (
Munro, 2016)

La chiave del potere dei capitalisti di diminuire i salari sta nella diminuizione delle opportunità di lavoro. Nel caso degli Stati Uniti, non è solo il fatto che i lavoratori immigrati competono per i posti di lavoro, ma anche che si stanno appropriando di una fetta sproporzionata delle opportunità di lavoro disponibili. Infatti, anche se i lavoratori nati in un altro paese costituiscono solo il 15% della forza lavoro, si sono però accaparrati il 31% dei nuovi posti di lavoro (vedi
 Kummer, 2015).

Nell’analisi di Marx, i capitalisti sono interessati a possedere un vasto “esercito industriale di riserva” in modo tale da contenere le ambizione dei lavoratori. E, come aggiunge Harvey, “se tale surplus di lavoro non esistesse, il capitale dovrebbe crearlo.” E come può farlo? Harvey identifica due modi per creare un surplus di lavoro: disoccupazione causata dalla tecnologia (automazione) e accesso a nuove fonti di lavoro (ad esempio delocalizzare in Cina). E’ ancora una volta peculiare che Harvey non elenchi un’altra ovvia opzione: espandere l’offerta di lavoro interna importando lavoratori (immigrazione). Dato che l’immigrazione può avere un ruolo importante per la creazione di un surplus di lavoro, perché non dirlo?

Fino adesso abbiamo parlato di come l’immigrazione venga usata per rompere il potere monopolistico del lavoro, espandendo l’offerta interna di lavoro o attraverso la delocalizzazione. Harvey, a onor del vero, dice, di passaggio, che l’immigrazione serve da aggiustamento geografico del sistema capitalista, redistribuendo il surplus di lavoro dove è più necessario. Ma l’aggiustamento geografico odierno appare in due forme, una è quella che chiamiamo delocalizzazione o outsourcing. La delocalizzazione essenzialmente fa sovvenzionare il capitale ai lavoratori;è¨ una delle assurdità del “libero mercato” contemporaneo che qualsiasi sussidio governativo ai lavoratori sia vietato, mentre i lavoratori possono essere iper-sfruttati per salari atrocemente bassi che riflettono il basso prezzo dei loro prodotti dovuto alla competizione sul mercato globale. Questo è un sussidio, solo che non è volontario, e non è statale. In ogni caso, la delocalizzazione, con cui i posti di lavoro vanno all’estero, è solo uno dei modi in cui si può aumentare la competizione tra i lavoratori. Il secondo metodo lo potremmo chiamare “rilocalizzazione“, con cui non sono i lavori che vanno incontro ai lavoratori all’estero, ma sono i lavoratori all’estero che migrano per trovare i lavori, l’immigrazione. Sfortunatamente, Harvey non fa riferimento alla rilocalizzazione come parte di una coppia di opzioni assieme alla delocalizzazione.

Storicamente, l’immigrazione è stata usata per deprimere i salari dei lavoratori nella nazione che li riceve.Questo è particolarmente vero nel caso degli Stati Uniti. Come
 Paul Street ha recentemente spiegato:

“Il fatto che la domanda e l’offerta di forza lavoro sia in continuo cambiamento è un fattore non trascurabile nei trionfi, difficoltà e tribolazioni delle classi lavoratrici americane presenti e passate. Come spiega uno dei massimi economisti di sinistra americani, Richard Wolff, la lunga crescita dei salari reali negli Stati Uniti è finita più di 30 anni fa grazie ‘alla combinazione di computerizzazione, delocalizzazione, entrata delle donne nel mercato del lavoro, ed una nuova ondata migratoria… questa volta soprattutto dall’America Latina, specialmente dal Messico e dall’America Centrale… I capitalisti da Main Street a Wall Street capirono rapidamente che i datori di lavoro potevano rallentare o fermare l’aumento dei salari, perché l’offerta ora superava la domanda nel mercato del lavoro…’

‘Se non credete che l’immigrazione sia usata dai datori di lavoro per ridurre gli standard di vita e di lavoro negli Stati Uniti, allora potete andare a lavorare in una qualsiasi fabbrica americana che ha un numero significativo di mansioni spiacevoli e che non richiedono qualificazioni. Vedrete il vostro capo-capitalista che mantiene i salari bassi e i lavoratori intimiditi ed oppressi assumendo, tra le varie cose, degli immigrati la cui esperienza di povertà estrema, violenza, e altre forme di miseria nei loro paesi di origine, rende disposti a lavorare in una “manifattura moderna” con obbedienza e senza proteste per 10$ all’ora o meno.’

Ciò nonostante, l'”
opinione degli esperti” continua a creare il mito che l’immigrazione non abbia impatti negativi sui lavoratori.

Un altro modo importante in cui l’immigrazione sostiene il capitale è legato al potere d’acquisto dei salari. Come abbiamo visto, è nell’interesse del capitalista di tenere i salari più bassi possibili. La contraddizione che però sorge, e Harvey vi presta notevole attenzione, è che salari più bassi significano meno denaro per fare acquisti. Ciò riduce le dimensioni del mercato, e riduce i margini di profitto dei capitalisti. Quindi, se i lavoratori hanno tutti meno soldi, chi sostiene la domanda? Una opzione è aumentare gli stipendi: male. L’altra è aumentare il credito, cosa che si sta facendo. La terza opzione è aumentare la massa totale dei lavoratori, cosa che si sta anche facendo. I lavoratori possono anche avere meno denaro da spendere singolarmente ma, importando più lavoratori, ci saranno più persone che spendono (anche se poco). Quindi l’immigrazione può aiutare a sostenere o perfino aumentare la domanda, senza aumentare i salari.

“Un fenomenale aumento della forza lavoro totale,” scrive Harvey, “potrebbe aumentare la massa di capitale che viene prodotta anche se il tasso di remunerazione individuale diminuisce.” Ciò che però Harvey non dice è che un modo per ottenere un aumento fenomenale della forza lavoro totale è quello di promuovere l’immigrazione di massa, o consentire tacitamente che grandi numeri di persone entrino illegalmente. Ciò che Harvey invece dice è che l’immigrazione può aiutare a sostenere lo sviluppo economico futuro, ma non è chiaro come, perché poco dopo dice che, nel caso degli Stati Uniti, “la creazione di posti di lavoro dopo il 2008 non si è evoluta parallelamente all’espansione della forza lavoro” e che l’apparente declino del tasso di disoccupazione riflette invece “una riduzione della proporzione di cittadini attivi che cerca effettivamente lavoro”. Nuovamente, non considera l’impatto di milioni di persone che entrano a far parte della forza lavoro arrivando dall’estero.

[…] Harvey avrebbe potuto trovare un approccio più fruttuoso, nel suo discorso, nel punto in cui scrive “gli affari più lucrativi del capitalismo contemporaneo” sono “il traffico di donne, lo spaccio di droga o la vendita clandestina di armi”. Traffico di “donne”? Perché non traffico di lavoratori, com’è il caso dell’immigrazione clandestina, che è sfruttata da trafficanti di esseri umani in numero di gran lunga maggiore del traffico solamente di donne? In ogni caso, le frontiere aperte o permeabili sono una pacchia per i “tre affari più lucrativi” del capitalismo contemporaneo. Il miglior modo per massimizzare la crescita della forza lavoro totale è precisamente attraverso vie illegali, perché, com’è ovvio, essendo illegale implica che 1) non è regolata dallo stato, e non è soggetta a dibattito politico, 2) non è limitata in volume e 3) esclude che i lavoratori possano avvalersi dei diritti garantiti dalle leggi sul lavoro.

[…] Harvey fornisce anche una prospettiva interessante sul fatto che siamo testimoni di un conflitto tra “politica” ed “economia” sul tema dell’immigrazione. Con politica, intende lo stato, con il suo potere su di un determinato territorio, e con economia intende gli interessi del capitale. Come Harvey osserva: “la lealtà dei cittadini nei confronti dei loro Stati, costruita dagli Stati stessi, è fondamentalmente in conflitto con la peculiare lealtà del capitale nei confronti del fare soldi, e nient’altro”. In quella che ancora una volta avrebbe potuto essere, per Harvey, un’occasione di riflettere sull’immigrazione, egli dice: “affetto e lealtà verso luoghi e forme culturali specifici sono visti come un anacronismo”, aggiungendo poi: “non è forse questo quello che la diffusione dell’etica neoliberista poponeva e, alla fine, ha ottenuto?” Si potrebbero qui andare a rileggere i commenti di Naomi Klein di cui parlavamo all’inizio. […]

IMMIGRAZIONE: AL SERVIZIO DEI DETENTORI DEI VOTI

Se si è d’accordo con Marx, che sia nell’interesse dei capitalisti di possedere un vasto esercito di riserva di lavoratori disoccupati per tenere bassi i salari e magari per spezzare le organizzazioni collettive dei lavoratori, allora non si può in nessun modo pensare che la creazione di lavoratori usa-e-getta sia un fenomeno nuovo. (E non serve essere Marxisti per essere d’accordo con quella che è in effetti un’osservazione della realtà.) In ogni caso, dovrebbe essere chiaro che negli Stati Uniti, in Canada e parti dell’Europa, la deindustrializzazione causata dai trattati di libero scambio ha creato molti più disoccupati che in passato. Il fenomeno dell’aumento della disoccupazione a causa del libero scambio globalizzato è una peculiarità del capitalismo neoliberale. A quelli che beneficiano di questa situazione (le elites politiche ed economiche che governano il sistema a proprio vantaggio), risulta chiaro che una crisi è iniziata. Vedono oggi una reazione da parte di coloro che hanno espropriato. La democrazia liberale, come sistema di potere, era consentita nel momento in cui la politica era stata separata dall’economia, ed il voto non sembrava poter mettere in discussione il sistema economico. Quando, invece, i lavoratori sfruttati trovano un modo per far sentire le loro proteste attraverso le elezioni, allora quella separazione inizia a rompersi. Nessuno stupore, quindi, che le elite democratiche ora proclamino ad ogni occasione che assistiamo al
 “suicidio della democrazia”, scrivendo perfino con tono apocalittico che“la fine è imminente” e che la “tirannia” si avvicina. Ciò che è al capolinea, perché deve esserlo, essendo stato così ovviamente irrazionale e insostenibile, è il sistema dell’elitismo democratico che i governanti avevano creato e che speravano avrebbe preservato il sistema economico esistente eliminando ogni forma di politica popolare. (Bachrach, 1980). Gli elettori, invece, ora realizzano che in casi eccezionali possono effettivamente esprimere un voto sulla globalizzazione, il libero mercato ed il neoliberismo, come nel caso del voto per il Brexit nel Regno Unito e come nel caso del movimento di Trump negli Stati Uniti.

(Ma chi l’avrebbe mai detto che le elite fossero così sensibili, ed isteriche? Ora che sono più ricche di sempre nella storia dell’uomo qualsiasi discorso di una riduzione della loro abilità di avere di più è visto come un suicidio ed un’apocalisse?)

Altrimenti, la democrazia liberale non sottopone mai a giudizio questioni che riguardino il libero mercato o l’immigrazoione. Non ha mai voluto farlo, perché i lavoratori sono tenuti in grande disprezzo (vedi
 Krugman, 2016; Confessore, 2016). Nel caso del Brexit, vi è stato un aperto disdegno della democrazia da parte di quelli che hanno votato Remain, che è andato dall’esortare il Parlamento ad ignorare, semplicemente, il risultato del referendum, sino a chiedere un secondo referendum con una soglia più alta, necessaria a sancire una vittoria del Brexit. Entrambe le iniziative hanno fallito. Membri della sinistra metropolitana hanno voltato le spalle alle classi lavoratrici. Il fatto che alcun sostenitori del Remain fossero motivati dalla prospettiva di nuove quantità di lavoro a basso prezzo non è passato inosservato. Gli oligarchi sono profondamente preoccupati, e vorrebbero che noi altri li salvassimo.

Un sistema oligarchico in crisi cerca, ovviamente, rimedi. Avendo reso la maggioranza dei lavoratori superflui, la chiave sta nel trovare il modo per renderli superflui anche come elettori. Fortunatamente per gli oligarchi, la storia offre delle soluzioni. Sul sito del dipartimento degli Stati Uniti si trovano delle lezioni su come far sopravvivere un regime importando migranti che, per ringraziare, lo sosterranno. Uno di questi casi riguarda la Guyana sotto il governo di Forbes Burnham e del “People’s National Congress” (PNC). Con una classe lavoratrice spaccata tra Afro-Guyanesi ed Indo-Guyanesi, questi ultimi sostenitori del partito d’opposizione e in maggioranza, quello che Burnham fece fu importare immigrati neri dalle vicine isole più piccole dei Caraibi, che avrebbero poi votato PNC per ringraziare Burnham del sostegno. Cose simili accaddero a Trinidad e Tobago, sotto il governo sostenuto da Washington di Eric Williams e del “people’s National Movement (PNM). In questo caso vi furono sospetti diffusi che la grossa crescita della popolazione immigrata da Grenada e St. Vincent portasse ad un aumento della base del PNM.

Negli Stati Uniti, sembra che si provi un sollievo che sconfina in sollucchero quando i Democratici
 possono dichiarare il declino nel numero dei loro sostenitori tra i lavoratori bianchi, e la crescita del numero di voti dagli Ispanici, grazie all’immigrazione, sia legale che illegale, che le loro politiche hanno aiutato a promuovere. Non voglio sostenere che gli odierni governanti degli Stati Uniti abbiano preso suggerimento diretto da regimi che hanno usato l’immigrazione per costruire una nuova base demografica di sostegno, né penso che questa sia un logica così esotica da dover essere importata. Al contrario, il punto è capire come l’immigrazione sia usata come uno strumento per far sopravvivere un regime in una nazione divisa sul piano etnico. Un elemento di inusuale saggezza è emerso da un partecipante di destra ad un dibatitto radiofonico negli Stati Uniti che, volendo ironizzare sulla pratica politicamente corretta di chiamare gli immigrati illegali “lavoratori senza permesso”, li ha invece chiamati “Democratici senza documenti”.

Abbattere i confini offre l’opportunità di allungare la vita di un regime impopolare. Le elite dominanti capiscono che (a) i lavoratori a disposizione sono votanti a didposizione e (b) che possono sempre importare una nuova base di votanti che sarà riconoscente per l’appoggio, almeno finché il discorso pro-immigrazione rimane in piedi. Questo è il momento in cui si rivolgono alle politiche identitarie, al
 lobbismo neo-tribale ed al narcisismo morale che sfrutta calcolate espressioni di sdegno. Mentre gli oligarchi ci chiedono di salvarli, in molti rimangono affascinati dalla politica dell’identità e del moralismo, seducente e sfruttatrice. Alcuni lo fanno nell’illusione di essere in qualche eterna lotta al “fascismo” ed entrano nella lotta appropriatamente muniti di foto, postate sui social media, di testi classici del Marxismo dell’800 e inizi ‘900 che stanno orgogliosamente leggendo. Altri si fanno sedurre perché ancora una volta lasciano che reazioni emotive a caldo li guidino verso obiettivi che a malapena intuiscono.

E’ istruttivo notare che il fascismo reale prese piede in una nazione che non aveva alti livelli di immigrazione. Era, invece, una delle più grandi produttrici di emigranti: l’Italia, dove l’idea stessa di fascismo fu inventata. In effetti, il fascismo, così come è realmente esistito nella storia, includeva un piano di colonizzazione per stabilire e impiegare a casa una popolazione in forte crescita. Nulla di tutto questo fa parte dell’agenda di Trump.

Mentre l’immigrazione può far sopravvivere un regime dentro i confini, può essere un fattore di destabilizzazione quando è causata da un cambio di regime all’estero. L’immigrazione è stata uno dei fattori determinanti che ha portato alla vittoria del Brexit (vedi
 Kummer, 2016). Come alcuni hanno osservato, “la società Britannica è stata trasformata du un’ondata migratoria senza precedenti nella sua storia”: dall’avvento di Tony Blair al governo, “sono arrivati in Gran Bretagna circa due volte gli immigrati che erano arrivati nei cinquant’anni precedenti”. Alcuni sostengono che, di conseguenza, la vittoria del Brexit sia una vittoria delle classi lavoratrici.


Nel caso dell’Europa, le conseguenze del forte afflusso, nel corso degli ultimi due anni, di rifugiati e migranti che hanno viaggiato attraverso Turchia, Grecia e Libia, non hanno portato stabilità alla classe politica dominante. Si vedono i governi europei, alcuni dei quali hanno attivamente sostenuto (o magari ancora sostengono) le campagne statunitensi per il cambio di regime in Iraq, Afghanistan, Libia e Siria, che fronteggiano ora il conseguente afflusso di rifugiati. Avendo indebolito, o reso praticamente inesistenti, le strutture statali dell’Afghanistan, dell’Iraq e della Libia, ed avendo severamente compromesso la Siria, il livello di violenza senza precedenti in queste nazioni ha generato un fortissimo afflusso di rifugiati. Per un po’, è stato possibile scaricare il barile a paesi poco o pochissimo in grado di ospitare dei rifugiati, come la Giordania e la Turchia, o perfino la Grecia, già profondamente fragile. La stessa Siria ha ospitato centinaia di migliaia di
Iracheni, dopo l’invasione statunitense. Una volta che una porzione dei rifugiati di queste regioni ha iniziato a spostarsi verso nord, dentro l’Unione Europea, le elite al governo hanno a tutti gli effetti trasferito i costi sulle classi più povere, sovraccaricando uno stato sociale già immiserito dall’austerità, ed esigendo un atteggiamento benevolente. Le proteste di questi strati sociali sono state bollate come “razziste” e “xenofobe”, specialmente dai cosiddetti “progressisti”. Il punto qui non dovrebbe essere se quelli che meno possono permetterselo debbano accogliere a braccia aperte o no i rifugiati ed i migranti. Il punto è innanzitutto che l’occidente non avrebbe dovuto creare quelle masse di rifugiati, come ha invece fatto con le sue invasioni, occupazioni e bombardamenti.


CONCLUSIONI: LA SCOMPARSA DELLA SINISTRA?

Abbiamo raccolto una serie di casi in cui la sinistra, a grandi linee, ha abbandonato qualsiasi tentativo di articolare una prospettiva critica sull’immigrazione. Lo vediamo in casi come:
la ritirata di Naomi Klein e Bernie Sanders e, in generale, di politici ed attivisti di sinistra, che o si sono chiusi nel silenzio o hanno proprio cambiato posizione;
la chiara riluttanza di accademici Marxisti, come David Harvey, a trarre le ovvie conclusioni dal loro stesso lavoro;
esponenti della sinistra che rifiutano le rimostranze delle classi lavoratrici, nel momento in cui viene loro imposta un’ulteriore austerità dovuta al fatto che sanità, istruzione e servizi sociali devono occuparsi dei migranti;
le elite politiche che cercano un appoggio da sinistra, fingendosi progressiste, mentre sostengono l’immigrazione dal Messico e dall’America Centrale.

Data, però, la stretta relazione tra immigrazione e capitalismo neoliberista, e dato l’attuale collasso dell’ordine neoliberale, la sinistra si sta condannando all’estinzione seguendo le tracce dei politici neoliberali. “Non voto per un razzista o un bigotto” si può facilmente tradurre con “sto salvando l’oligarchia”. Nell’occidente, potremmo quindi essere di fronte ad un punto di svolta storico ancora più grande di quanto avremmo potuto immaginare: un futuro plasmato dall’assenza della sinistra dal futuro stesso. Volendo essere meno pessimisti, la sinistra potrebbe diventare poco più che un residuo, un’eredità, che a volte riappare in forma di apparizioni superficiali, o di frasi fatte, piuttosto che una vera forza sociale.

Senza una sinistra, l’attuale distinzione destra-sinistra (che sta già sfumando ed evaporando da entrambi i lati) perderà ancor più senso, in special modo nel momento in cui la destra inizia ad appropriarsi di tematiche e preoccupazioni che per la sinistra una volta erano cruciali. […]

La cosa più importante da fare ora, in termini politici generali, è mettere le politiche migratorie al centro del dibattito democratico. Bisogna discuterne a fondo, e dovrebbe esserci una vasta consultazione pubblica. Biasimare semplicemente le persone per zittirle, con l’aiuto di facili e a volte ipocrite accuse di “razzismo”, non può essere un sostituto della democrazia. Il pubblico deve sapere come l’immigrazione colpisce i salari, i prezzi, le opportunità di lavoro, i servizi sociali, le organizzazioni sindacali, dato che questo tema è così profondamente legato alla politica economica, commerciale, e dello stato sociale. Sospetto che, al momento, negli Stati Uniti, secondo troppe persone “di sinistra”, il governo degli Stati Uniti dovrebbe rispondere più agli stranieri che ai cittadini americani, per quanto riguarda la politica migratoria. Questo è un approccio dannoso ed irrazionale. Oltre a ciò, troppo spesso le decisioni sull’immigrazione sono state prese a porte chiuse da comitati legati ad interessi privati, producendo programmi per l’immigrazione contorti e loschi, e deviando il dibattito fino al punto che le posizioni politiche sono così polarizzate che il discorso procede solo su posizioni che non ammettono alcuna obiezione. Infine, in termini di politica estera statunitense, serve un’inversione di rotta della pratica pluridecennale di promozione all’estero degli Stati Uniti come un faro, un modello, il punto più alto dello sviluppo e ricchezza umane, cosa che li rende la destinazione più ovvia per così tante persone che compiono delle scelte senza farsi troppe domande e senza sapere a cosa vanno incontro.

* Fonte: Zero Antropology - Voci dall'Estero

NOTE

Bachrach, Peter. (1980). The Theory of Democratic Elitism: A Critique. Lanham, MD: University Press of America.

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 Hillary Clinton’s Initiative on Technology & Innovation. HillaryClinton.com, June 27.

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2 commenti:

Veritas odium parit ha detto...

Ottimo articolo. Man mano che il regime si avvicina allo sfascio le posizioni si chiariscono e devo dire che state lentamente e con sofferenza prendendo la strada della ragione. Qualche barlume di sinistra esiste ancora In Europa. Peccato che siano barlumi talmente isolati da risultare irrilevanti, e non ve lo dico con piacere. La liberazione dal regime globalista messo e tenuto in piedi dal capitalismo di rapina prenderà per forza di cose la strada neofascista.

Unknown ha detto...
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