[ martedì 8 ottobre 2019 ]
Il capitale oggi è rappresentano soprattutto da uni e zeri su un computer che si spostano alla velocità della luce da un punto all’altro del mondo, mentre il lavoro è rappresentato da esseri umani in carne e ossa la cui vita è per definizione relativamente stanziale, cioè legata a un determinato territorio e a una specifica comunità. In questo senso mi fa sempre sorridere quando sento parlare di “internazionalizzazione delle lotte” e altri slogan simili. È ovvio che sia auspicabile un’interazione e una collaborazione tra i lavoratori di diversi paesi, ma quello di pensare che la risposta all’internazionalizzazione del capitale fosse “l’internazionalizzazione delle lotte” — o più banalmente “l’internazionalizzazione della democrazia” — ha rappresentato un abbaglio di portata storica per la sinistra occidentale.
Pensare di poter competere con il capitale a livello internazionale è semplicemente assurdo, nella misura in cui questo presupporrebbe la costruzione di istituzioni politiche democratiche globali capaci di governare i processi capitalistici a livello, appunto, mondiale. Ma si tratta di una pia illusione. L’esempio dell’UE dimostra come sia impossibile costruire strumenti di controllo democratico anche solo a livello regionale, figurarsi a livello globale, e come anzi i processi di sovranazionalizzazione — o di mondializzazione che dir si voglia, con cui non intendiamo semplicemente l’internazionalizzazione dei processi produttivi ma la creazione di strutture, organismi e agenzie sovranazionali, di cui l’UE è l’esempio più lampante — abbiano avuto come obiettivo precisamente quello di scardinare le democrazie nazionali e dunque di ridurre la capacità dei cittadini di controllare e regolare il capitale.
Il capitale oggi è rappresentano soprattutto da uni e zeri su un computer che si spostano alla velocità della luce da un punto all’altro del mondo, mentre il lavoro è rappresentato da esseri umani in carne e ossa la cui vita è per definizione relativamente stanziale, cioè legata a un determinato territorio e a una specifica comunità. In questo senso mi fa sempre sorridere quando sento parlare di “internazionalizzazione delle lotte” e altri slogan simili. È ovvio che sia auspicabile un’interazione e una collaborazione tra i lavoratori di diversi paesi, ma quello di pensare che la risposta all’internazionalizzazione del capitale fosse “l’internazionalizzazione delle lotte” — o più banalmente “l’internazionalizzazione della democrazia” — ha rappresentato un abbaglio di portata storica per la sinistra occidentale.
Pensare di poter competere con il capitale a livello internazionale è semplicemente assurdo, nella misura in cui questo presupporrebbe la costruzione di istituzioni politiche democratiche globali capaci di governare i processi capitalistici a livello, appunto, mondiale. Ma si tratta di una pia illusione. L’esempio dell’UE dimostra come sia impossibile costruire strumenti di controllo democratico anche solo a livello regionale, figurarsi a livello globale, e come anzi i processi di sovranazionalizzazione — o di mondializzazione che dir si voglia, con cui non intendiamo semplicemente l’internazionalizzazione dei processi produttivi ma la creazione di strutture, organismi e agenzie sovranazionali, di cui l’UE è l’esempio più lampante — abbiano avuto come obiettivo precisamente quello di scardinare le democrazie nazionali e dunque di ridurre la capacità dei cittadini di controllare e regolare il capitale.
Il fatto che la sinistra, con poche eccezioni, abbia avallato — e continui ad avallare — questi processi in nome di un astratto “cosmopolitismo” rappresenta una delle grandi tragedie del nostro tempo.
Bisogna dunque ripartire dall’ovvietà per cui il conflitto capitale-lavoro non è e non potrà mai essere uno scontro tra due “internazionalismi”, o meglio tra due globalismi, quello del capitale e quello del lavoro, ma assume inevitabilmente la forma di uno scontro tra la logica intrinsecamente globale dell’accumulazione capitalistica da un lato e la logica intrinsecamente territoriale del lavoro dall’altro.
Bisogna dunque ripartire dall’ovvietà per cui il conflitto capitale-lavoro non è e non potrà mai essere uno scontro tra due “internazionalismi”, o meglio tra due globalismi, quello del capitale e quello del lavoro, ma assume inevitabilmente la forma di uno scontro tra la logica intrinsecamente globale dell’accumulazione capitalistica da un lato e la logica intrinsecamente territoriale del lavoro dall’altro.
Per citare David Harvey:
«il conflitto assume inevitabilmente la forma dello scontro fra flussi del capitale e luoghi dell’autoproduzione dei mondi vitali».
È per questo che innumerevoli lotte sociali e di classe si combattono attorno alla formazione dei luoghi, i quali
«sono i paesaggi dove si svolge la vita quotidiana, si stabiliscono i rapporti affettivi e le solidarietà sociali e dove si costruiscono le soggettività politiche e i significati simbolici».
Da ciò ne consegue che l’obiezione più ricorrente al “sovranismo di sinistra” — ossia quella secondo cui, nel contesto dell’attuale sistema capitalistico globalizzato, qualunque tentativo di un singolo Stato di resistere alla logica capitalistica sarebbe velleitario — risulta del tutto infondata a mio avviso: al contrario, ancora oggi lo Stato nazionale è l’unico strumento capace di resistere all’illimitata estensione geografica del dominio capitalistico, non solo per il fatto di essere democratizzabile, a differenza delle istituzioni sovranazionali, ma anche per il fatto di essere espressione di una specifica comunità territoriale, e dunque di permettere ai vari popoli e alle varie comunità di resistere al dominio capitalistico secondo le proprie modalità e specificità.
Questo non implica affatto l’abbandono di una prospettiva internazionalista, ma vuol dire avere ben chiara la distinzione tra cosmopolitismo di sinistra — cioè l’idea per cui la lotta di classe si rivela in ultima istanza lo strumento per realizzare il trionfo dell’individuo razionale universale, indipendentemente dalle sue radici culturali, storiche ecc. — e reale internazionalismo, che dovrebbe invece fondarsi sulla relazione fra comunità diverse che si riconoscono reciprocamente quali portatrici di forme di vita legittime.
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4 commenti:
No, ma infatti. Perché affrontare un sistema globale a livello internazionale, meglio l'autarchia trotsko-fusariana. Perché mandare delegazioni negli altri paesi, per sapere le posizioni degli altri partiti comunisti locali, meglio abbracciare rojavismo, etno-nazionalismo, rivoluzioni colorate e tutto ciò che scodella l'Impero. Il sovranismo di sinistra è il sorelismo degli imbecilli.
DELIBERATAMENTE
ABBIAMO FATTO PASSARE IL COMMENTO DI CUI SOPRA, POICHE' E' UNA DIMOSTRAZIONE EVIDENTE DI CERTO SEMPLICISMO PAROLAIO.
L'ASTIO è INFATTI DIRETTAMENTE PROPORZIONALE AL RIFIUTO DI ENTRARE NEL MERITO DELLE COSE SCRITTE DAL FAZI.
"Pensare di poter competere con il capitale a livello internazionale è semplicemente assurdo, nella misura in cui questo presupporrebbe la costruzione di istituzioni politiche democratiche globali capaci di governare i processi capitalistici a livello, appunto, mondiale."
Sarà assurdo ma è indispensabile, pena l'estinzione della specie umana.
Certo è che per raggiungere questo obiettivo occorre una condizione necessaria, anche se non sufficiente. E' il superamento dell'unipolarismo post dissoluzione dell'URSS. Fortunatamente questa tappa si avvicina a grandi passi, viste le crescenti difficoltà USA. Non sappiamo però che aspetto potrebbe assumere il successivo multipolarismo (ne se ci sarà, ma a questo è meglio non pensarci neppure, visto che equivale alla catastrofe).
Tuttavia i tempi sono maturi, a prescindere dalla maturazione dei popoli che li interpretano. Ci auguriamo tutti che lo spirito di sopravvivenza abbia ancora una volta la meglio sulla stupidità umana, anche se questa volta è richiesta una mutazione antropologica positiva, che sappia controllare l'evoluzione tecnologica.
Alberto Conti
Ma quale semplicismo parolaio. Una cosa è criticare il cosmopolitismo della borghesia, un'altra cosa è demonizzare in toto l'internazionalismo come accade in questo articolo per sostituirlo surrettiziamente col particolarismo sovranaro. Il problema delle sinistre non è l'internazionalismo ma l'assenza totale di esso. Questi non escono manco per sbaglio dal loro ambiente antagonista e credono di essere il mondo intero, mentre assorbono in toto solo l'ideologia dominante fatta di femminismo liberal, etnonazionalismo rojavista e tutte le fanatizzazioni sui diritti civili. L'internazionalismo marxista ha portato la rivoluzione in URSS, Cuba, Corea, Cina e Vietnam, tanto per capire quanto è stato fallimentare. E quando si nascondono questi fatti e si confondono i termini della questione, non si fa informazione ma si fa bieca propaganda.
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