lunedì 2 ottobre 2017

IL DESTINO DELL'ITALIA di Sergio Cesaratto

[ 2 ottobre 2017 ]

L’Italia si avvia alle elezioni politiche senza che alcuna formazione politica avanzi un progetto per il Paese, un’idea di dove esso debba dirigersi. Si va dalla continuità del “io speriamo che me la cavo” del PD al governo al vuoto programmatico del M5S, passando per l’incubo del ritorno berlusconiano. La sinistra vaga fra il cosmopolitismo e le trivelle. Lo scarso spessore politico e culturale dei gruppi dirigenti delle varie compagini è palese. Per esplicitare l’ordine di problemi che una politica all’altezza dovrebbe affrontare, torna assai utile la lettura del volume “Ricchi per caso” curato da Paolo Di Martino e
Michelangelo Vasta (il mulino, 2017, 319 pp. 19€), due affermati storici economici. Il volume intraprende una sorta di percorso psicoanalitico delle ragioni profonde del drammatico passaggio storico, fra benessere e declino, che l’Italia sta da anni attraversando. Al centro dell’analisi vi sono infatti le istituzioni socio-politiche che costituiscono l’ossatura del Paese, la sua costituzione reale – spesso vero ostacolo alla realizzazione dei nobili intenti della Costituzione formale. In questo gli autori - sette nel complesso[1] - si rifanno a un importate filone della letteratura economica che vede nella qualità e appropriatezza storica delle istituzioni l’anima dello sviluppo economico.

Il volume si compone di cinque capitoli. Il primo ripercorre le tappe dello sviluppo italiano dall’Unità; il secondo e terzo si occupano dei limito storici delle politiche dell’istruzione e dell’innovazione; il quarto della struttura industriale, mentre il quinto e le conclusioni ragionano sulla relazione fra istituzioni e sviluppo italiano nel lungo periodo.

Cosa sono le istituzioni

In Italia tendiamo in genere a identificare le istituzioni con lo Stato, ma nell’accezione più anglosassone a cui si riferiscono gli autori esse si identificano sia con quello, che con le regole più informali che governano la società civile in un continuum spesso dimenticato da coloro che si scagliano contro la casta politica, quasi che vi fosse soluzione di continuità fra questa e la società da cui proviene.
La letteratura economica sulle istituzioni puntualmente richiamata in varie parti del volume non è, naturalmente, senza obiezioni. Rammento per esempio l’accesa discussione fra Jared Diamond e Daron Acemoglu su The New York Review of Books nel 2012 in cui il famoso autore di “Armi, acciaio e malattie” criticava il secondo, uno dei padri del moderno istituzionalismo, di aver trascurato le basi materiali - e in particolare le condizioni che circondano l’estrazione del sovrappiù[2] - che presiedono all’emergere delle istituzioni. Certamente per ragioni di spazio, uno dei limiti di “Ricchi per caso” è al riguardo la mancata esplicitazione della varietà istituzionale nel nostro Paese quale spiegata dalle condizioni materiali di produzione che si sono storicamente affermate nelle diverse aree – conducendo, per esempio, come argomentato nel cap. 2, a istituzioni di natura più “estrattiva” nel Mezzogiorno, in cui l’élite tende a sfruttare le risorse in maniera esclusiva, a fronte di istituzioni più “inclusive” in Alta Italia. Ma naturalmente il volume propone solo alcune sedute per una psicoanalisi del Paese, la terapia completa ne richiederà molte altre. Di certo le istituzioni una volta stabilitesi, al pari di un trauma infantile, predeterminano il futuro, per esempio la capacità di appropriarsi delle occasioni di mutamento delle basi materiali di produzione offerte del progresso tecnologico. Di più, esse possono “contaminare” positivamente o negativamente, per esempio attraverso i fenomeni migratori, le istituzioni di altre regioni (Borjas 2015), come la cronaca giudiziaria spesso ci ricorda. Si tratta di terreni poco esplorati nell’analisi economica e di cui questo volume e la storia del nostro Paese sollecitano studi più approfonditi.

Le istituzioni servono a correre

Il volume si concentra esplicitamente soprattutto sull’appropriatezza delle istituzioni formali di cui il Paese si è dotato in relazione al progresso tecnologico, mentre sul sottofondo rimane la questione delle istituzioni informali che governano le relazioni sociali. Ieri come oggi la capacità di innovare è il minimo sindacale in un mondo capitalista dove si deve sempre correre per rimanere allo stesso posto, come opportunamente ci rammentano gli autori. Le classi dirigenti italiane, in particolare nella delicata fase post-unitaria, ebbero tuttavia scarsa consapevolezza dell’importanza dell’istruzione di base diffusa, come ci spiega il cap. 2 del libro. Il capitolo ricorda come queste debolezze permangano a tutt’oggi, basti guardare ai risultati dei test internazionali sulla preparazione degli studenti che se vedono il nord a livelli dignitosi, danno un’immagine preoccupante del Mezzogiorno – ma purtroppo c’è chi si crogiola sui risultati dei voti di maturità, che offrono un quadro più consolante. L’idea di intraprendere una terapia che porti a una maggiore consapevolezza di sé appare purtroppo lontano in certe sezioni del Paese. Di certo, dal canto loro, le classi dirigenti del nord soffersero di un grave “deficit cognitivo” (cap. 5) nei riguardi del sud, che non conoscevano e che lasciarono in balia delle locali “istituzioni estrattive”, di cui i ritardi nelle politiche dell’istruzione pubblica furono una prima vittima.
Accanto alla formazione (e alla ricerca) il volume si concentra sulla relazione fra la debolezza strutturale dell’apparato manifatturiero italiano – con una proporzione di piccole, medie e micro imprese a livelli sconosciuti nei Paesi avanzati – e una serie di istituzioni legislative e politiche che l’hanno favorita. Sebbene alcune fasi storiche, dal periodo Giolittiano allo sviluppo delle Partecipazioni Statali e al boom economico, abbiano visto lo sviluppo di grandi imprese, l’ideologia dominante è stata spesso volta a favorire la piccola impresa. Nel dopoguerra, per esempio, vuoi il solidarismo cattolico, vuoi la “lotta ai monopoli” di marca comunista, hanno portato a una legislazione (anche fiscale) di sostegno all’artigianato e alle piccole imprese. Il diritto commerciale e fallimentare non hanno a loro volta favorito il rischio imprenditoriale – dunque la piccola impresa innovatrice destinata a crescere – mentre la farraginosità delle norme unita alla inefficienza burocratica hanno favorito lo sviluppo abnorme di professioni “avventizie”, come i commercialisti, peculiari al nostro Paese. La grande impresa, dal suo canto, ha privilegiato la protezione del mercato interno allo sviluppo multinazionale. Il conflitto sociale che seguì il miracolo economico diede un colpo decisivo alla grande impresa italiana, che ripiegò su se stessa finendo spesso in mano straniere. Un tema per le prossime sedute di terapia sarà certamente la mancata capacità della classe dirigente italiana di dotarsi di istituzioni volte al compromesso sociale – di istituzioni socialdemocratiche per intenderci – scegliendo invece le scorciatoie dello scontro (come lo stragismo) o di leader improbabili come Berlusconi. Quest’ultimo fu certamente il frutto di un tessuto di piccola-media imprenditoria di non grande lungimiranza, ma per contro il volume mette anche in luce (cap. 5) l’incapacità della grande borghesia industriale di farsi portatrice di un disegno modernizzatore illuminato. Ora la grande impresa non c’è più, o è straniera, e questo depone male circa le forze che possano sostenere un progetto di ammodernamento del Paese. Le critiche all’ideologia del “piccolo è bello” non devono, naturalmente, farci trascurare la forza vitale dei distretti industriali. Di certo un disegno di politica industriale basato sulla difesa di ciò che rimane della grande industria – specie se a rischio smantellamento da parte di mani estere - è centrale per il Paese, sebbene le istituzioni europee non favoriscano un disegno di questo tipo. Le privatizzazioni furono per contro un esempio di distruzione sciagurata di una istituzione come le Partecipazioni Statali e con esse di un patrimonio tecnologico e gestionale, sì bisognoso di riforme, ma insostituibile e ora largamente irrecuperabile.

Lotteria Italia

Il volume è molto pessimista circa il futuro del Paese, il titolo “Ricchi per caso” non è accompagnato dal punto di domanda del noto volume di Ciocca “Ricchi per sempre?” (Boringhieri, 2007), suggerendo nel capitolo 5 una casualità della crescita italiana nei primi decenni del dopoguerra, una deviazione fortuita (e fortunata) da un trend di crescita “lento” a cui siamo destinati a tornare. Questo è forse un giudizio troppo impietoso, almeno nei riguardi di quelle parti del Paese che ancora rivelano spiriti e network imprenditoriali vitali, oltre che nei riguardi della vitalità di settori della ricerca scientifica che lo stesso volume mette in luce. Ma i problemi esistono in tante altre aree regionali dove non vi sono grandi spunti di sviluppo endogeno con istituzioni inadeguate se non deleterie. Solo la mano pubblica potrà prendersi cura di queste patologie, ma servono nuove classi dirigenti. La decadenza delle classi dirigenti, pubbliche e private è un oggetto che le future sedute di terapia dovranno esaminare, magari in collegamento con gli studi degli scienziati politici sulla selezione delle élite.
Domanda o offerta?
Sottolineando il ruolo delle istituzioni, formali e informali, il volume enfatizza soprattutto i fattori di fondo che condizionano lo sviluppo economico dal “lato dell’offerta”. Va al riguardo precisato che gli autori prendono apertamente le distanze dagli “offertisti” che sostengono che sono le rigidità istituzionali nei mercati del lavoro o dei prodotti a imbrigliare lo sviluppo italiano. L’istituzione di cui il Paese davvero necessita è una politica di qualità non più mercato, anzi. Il focus sull’offerta può nondimeno lasciare insoddisfatti coloro che assegnano al “lato della domanda aggregata” un ruolo decisivo nello spiegare la crescita, non solo nel breve ma soprattutto nel lungo periodo (Svimez/Centro Sraffa 2017). In una visione integrata ambedue gli aspetti rivestono, naturalmente, un ruolo essenziale. Se, ad esempio, istituzioni appropriate costituiscono un presupposto per lo sviluppo imprenditoriale e tecnico-scientifico, come sostenuto nel volume, è vero pure che senza un andamento sostenuto della domanda aggregata, le imprese sono scarsamente stimolate a investire in R&S e nei beni-capitali che veicolano il progresso tecnico. La stagnazione della produttività nel nostro Paese nelle decadi recenti è certamente spiegata da fattori di domanda e da scelte macroeconomiche culminate con l’adesione alla moneta unica che hanno minato la competitività del Paese. Il volume liquida tuttavia in maniera un po’ frettolosa la problematica della moneta unica. Di certo essa non si è rivelata, come nel disegno Andreatta/Ciampi, un canale efficiente per importare istituzioni virtuose dall’estero, ma bensì un ulteriore vincolo istituzionale, veicolo di sottrazione di indipendenza democratica per un Paese ormai in balia di scelte altrui.
Compatto e scorrevole nonostante sia a più mani, il volume è dunque di grande stimolo per un’autoanalisi del Paese e per ulteriori approfondimenti la cui urgenza si palesa dalla pochezza del dibattito politico corrente.


Riferimenti

George J. Borjas, Immigration and Globalization: A Review Essay, Journal of Economic Literature, 2015, 53(4), 961–974
SVIMEZ/Centro Sraffa) (2017) Il ruolo della domanda nello sviluppo: il Mezzogiorno italiano, i Sud del mondo e la crisi dell'Europa, Quaderno SVIMEZ n. 54,http://www.centrosraffa.org/conferenceandseminarsdetails.aspx?id=37

NOTE

[1] Oltre ai curatori, primi inter pares, gli altri autori sono: Gabriele Cappelli, Andrea Colli, Emanuele Felice, Alessandro Nuvolari e Alberto Rinaldi.
[2] Sul concetto di sovrappiù e su altri punti di vista qui espressi, mi si permetta di rimandare a Cesaratto, Sei lezioni di economia – Conoscenze necessarie per capire la crisi e come uscirne, Imprimatur, 2016
.

4 commenti:

Barbaro D'Urso ha detto...

Egregi Sollevatori,

fa piacere aprire la settimana con un intervento corposo ma al tempo stesso scorrevole e molto chiaro del Prof. Cesaratto. Il merito di questo articolo è quello di interrogarsi su questioni strategiche, di fondo, di lunga durata a partire dal libro preso in esame. Da quel che dice Cesaratto, pare una lettura interessante e stimolante e vedrò di procurarmi questo volume.

Una cosa mi attira più di varie altre dette nell'articolo. Sto parlando dell'approccio "istituzionalista" dei curatori di "Ricchi per caso". Se non sto prendendo un granchio, si tratta di questo filone del pensiero economico, relativamente "eretico" rispetto al mainstream e che - ma potrei sbagliarmi - finora non ha mai stabilito una propria tradizione in Italia. Oltre a Veblen, praticamente il suo fondatore, uno dei nomi di maggior risalto è quello dello svedese Myrdal, che ha giocato un notevole ruolo nell'edificazione e sviluppo del sistema scandinavo di welfare state nella seconda metà del secolo scorso. E, sempre se non erro, mi sembra che rimandi espliciti a Myrdal non manchino nelle esposizioni dello stesso Cesaratto. Alla fine dell'anno scorso avevo iniziato a leggere il suo "Sei Lezioni" e forse una citazione di Myrdal appare proprio nei primi capitoli. Purtroppo interruppi la lettura e spero di potermici rimettere presto.

Altro noto "istituzionalista" è il coreano Ha-Joon Chang, autore di 23 Things They Don't Tell You About Capitalism che, sempre se non erro, era stato citato e consigliato da Luciano Barra Caracciolo, in mezzo ai tanti post coi titoli nei quali tutte le "e" sono sostituiti da "€" e il linguaggio è sempre rigorosamente "tribunalese"...

Ma, a parte i consigli di lettura, l'interesse vero per questa corrente di pensiero credo risieda nel suo intendere le institutions nel loro aspetto veramente più ampio, dunque prendendo in considerazione molti fattori di natura sociologica rispetto a correnti che, come illustrato da Cesaratto, si fermano alle sole istituzioni formali, quelle col bollino e il timbro, e il resto non esiste.

Detto questo, a parte la fatidica decisione dell'aggancio alla moneta unica e tutte le conseguenze del caso - oltre a quelle dell'ipotetica uscita da essa, che lo stesso Cesaratto quest'estate definiva assai diverse da una passeggiata di salute: "economia di guerra" - è ottima cosa che si apra una discussione di ampia prospettiva su certe profonde magagne della società e delle "istituzioni" - intese, ricordo, in senso ampio - italiane.

[fine prima parte]

Barbaro D'Urso ha detto...

[seconda parte]

Va benissimo denunciare tutte le storture e gli elementi instostenibili dell'Unione Europea, ma questa c'entra poco e niente con una storica trascuratezza e arretratezza nell'allocazione di risorse in favore di Ricerca & Sviluppo, sempre state a livelli catacombali anche in periodi di vacche grasse - ricostruzione post-bellica e boom economico dei '50 e '60 - e questi due spiccioli spesso e volentieri sprecati in mano ad un sistema giustamente definito "baronale".

Va benissimo assumere una posizione responsabile e ragionata sul tema dei flussi migratori, primo perché è necessario farlo a prescindere, secondo perché si evita di fornire a forze reazionarie e ostili pretesti per facili e pericolose demagogie (ad esempio: "mano libera alle forze dell'ordine" - certo, finché il manganello non spaccherà il loro cranio legaiolo...). Ma che l'Italia, nel suo complesso e nel Mezzogiorno in particolare, abbia sempre sofferto d'una disoccupazione strutturale relativamente alta è circostanza pluridecennale se non plurisecolare. E allora non si era già in condizioni di "esercito di manodopera di riserva" da sempre, da assai prima che nelle città italiane si cominciasse a sentir parlare sempre più spesso arabo, albanese, rumeno, spagnolo, russo, tagalog e via dicendo?

Certo, un afflusso di massa non aiuta per mille motivi, dalle finanze pubbliche già cooptate da Bruxelles al mercato del lavoro a dir poco asfittico, da ovvie questioni di ordine pubblico alla manifesta incapacità e indisponibilità delle varie "classi politiche" (ahahah! che ridere!) di escogitare una soluzione di lungo respiro eccetera.

Ma quarant'anni fa, prima di "Leuro", di "Leuropa" e di "Leuropeismo", prima di "Linvasione", prima di "Lautismo-causato-dai-vaccini", siamo sicuri che lo Stivale fosse tutta 'sta "Scandinavia" - del resto, parlavo di Myrdal! - in tema di condizioni di lavoro, retribuzioni, protezioni sociali, legalità e ordine pubblico, trasparenza e funzionalità delle amministrazioni pubbliche, tutela ambientale e paesaggistica, tassazione, equità territoriale nello sviluppo economico, accortezza e lungimiranza delle classi politiche e così via?

Ecco, affrontare questi nodi significa affrontare questioni di "lungo respiro", cose che volente o nolente resteranno sul tappetto anche in caso di miracolosa smaterializzazione stasera alle otto in punto di "Leuro", "Leuropa", "Leuropeismo" e pitipim e patapam.

Cordialmente

Barbaro D'Urso

Gustavo ha detto...

Io che abito in Veneto con capisco come mai anche gli economisti eterodossi ,per le loro analisi , non si ricordino mai dell' insegnamento di Augusto Graziani e che cioè' vi sono 2 Italia , ma non a macchia di leopardo ma geograficamente ben delimitate e di cui una è ormai votata all'esportazione e in cui , anche se vi possono essere delle sofferenze ,vi è una ricchezza sfacciata . Sono andato la scorsa settimana due volte in una piccola concessionaria amica a prendere una Panda e ambedue le volte davanti c'era una persona che si comperava lo Stelvio da 62 mila euro , senza dire che basterebbe solamente girare per la strada .

Luca Tonelli ha detto...

Ho perplessità a leggere che in Italia si sia favorita la piccola impresa.
C'è una tassazione estremamente più alta su lavoro autonomo e piccole imprese rispetto alla grande impresa.
diciamo piuttosto che il capitalismo in italia ha fatto le nozze coi fichi secchi. e che finito l'intervento statale sono rimasti solo i borghesotti straccioni.

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