[ 5 novembre ]
Le elezioni anticipate di domenica scorsa si sono concluse con un risultato che quasi nessuno si aspettava: una quarta, schiacciante vittoria consecutiva per gli islamisti conservatori del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), che è al potere dal 2002.
[nella foto, dell'agosto scorso, i dirigenti di HAMAS ad Ankara]
AKP ha strappato il 49,4% dei voti, un aumento notevole rispetto al 40,9% ottenuto nelle elezioni precedenti, tenutasi il 7 giugno. L'AKP ha ora la maggioranza assoluta in parlamento, avendo 316 dei 550 seggi. Possiede quindi una forza sufficiente per formare un governo da solo, evitando scenari di coalizione per i prossimi quattro anni. Tuttavia la vittoria, pur schiacciante, vista dall’angolo visuale di Erdogan e delle sue mire presidenzialistiche, è zoppa, visto che non ha i numeri per modificare la costituzione, cosa per la quale occorrono almeno 330 seggi.
Il timore che il Paese precipiti nel caos — dopo giugno si sono moltiplicati gli scontri sanguinosi con i guerriglieri curdi del PKK e con le cellule turche dell’ISIS — e che il boom economico sia alla fine sembrano essere le due ragioni principali che spiegano la vittoria elettorale dell’AKP.
Hanno invece subito una sconfitta due dei tre principali partiti dell’opposizione: l’estrema destra dei Lupi Grigi, ovvero il Partito di azione nazionalista (MHP) e la sinistra moderata del Partito Democratico Popolare (HDP). Il MHP è il partito che è uscito con le ossa rotte dalla elezioni: a giugno aveva ottenuto il 16,4% dei voti e 80 seggi, domenica solo l'11,9% e 40 seggi. Secondo gli analisti turchi quasi tutti i voti persi dal MHP sono andati al AKP. Moltissimi elettori del MHP, ferventi nazionalisti hanno preferito dare fiducia ad Erdogan, punendo la decisione della direzione del MHP di rifiutare ogni coalizione con AKP.
L'altro partito di opposizione che ha subito una battuta d'arresto è stato il Partito Democratico Popolare. Nel mese di giugno l'HDP aveva ottenuto una grande vittoria, passando tranquillamente la soglia del 10%, conquistando il 13,1% dei voti (80 seggi), raddoppiando i suoi voti. Domenica, tuttavia, l'HDP ha passato per poco lo sbarramento del 10%, ottenendo così 61 seggi. Anche in questo caso i voti persi dal HDP sono andati al partito di Erdogan. La recrudescenza del conflitto tra regime e la guerriglia del PKK ha spinto molti curdi a seguire le indicazioni dei leader religiosi locali.
L'unico partito che ha conservato la sua platea di voti e consensi è stato quello kemalista (affiliato alla socialdemocrazia europea), il Partito Repubblicano del Popolo (CHP). Questo ha ottenuto il 25,4% dei voti (134 seggi). Il CHP dispone di uno storico zoccolo elettorale di massa, anzitutto in Tracia e sulla costa dell’Egeo, costituito principalmente dalle classi medie laiche urbane e dalla minoranza alawita moderata.
Quale sia il significato politico della vittoria di Erdogan lo indica Aldo Kaslowski, presidente onorario della Tusiad, la Confindustria turca:
Ma l’epoca delle vacche grasse è oramai giunta al termine. Sull’economia turca, come su quella di diversi Brics, pende una Spada di Damocle: se la Fed americana, com’è probabile, alzerà i tassi d’interesse, la fuga dei capitali sarebbe inevitabile. Del resto la contestuale svalutazione dell’euro (più del 50% delle esportazioni turche va verso l’Unione europea) non potrà che accentuare i rischi di una recessione, a meno che Erdogan non pensi di spingersi ancora più oltre sulla linea della svalutazione della Lira turca.
Sul piano geopolitico la grande vittoria elettorale rappresenta per Erdogan ed il suo regime una vitale boccata d’ossigeno. Pur di perseguire una politica regionale espansionista — neo-ottomana è stato un po’ troppo semplicisticamente affermato —, Erdogan è entrato con tutti e due i piedi nella fratricida guerra civile siriana, scommettendo sulla caduta imminente del regime di Bashar al-Assad.
Di certo Erdogan non ha ricevuto le felicitazioni dell’ISIS, il quale, contrariamente a quanto afferma certa vulgata complottista, è in aperta rotta di collisione con la Turchia ed i suoi alleati locali. Tanto più dopo che Erdogan ha concesso agli americani l’uso della base militare di Incirlick per colpire le postazioni del califfato, e dopo le azioni repressive che le forze speciali turche hanno recentemente condotto per annientare le basi dell’ISIS a Dyarbakyr e in altre zone della Turchia, che hanno fatto diversi morti tra i militanti dell’ISIS.
Non c’è, a ben vedere, nessuna possibilità che il califfo ed il sultano in pectore (Erdogan) possano trovare un’intesa. Erdogan aspira a fare della Siria un suo protettorato rafforzando la potenza regionale della Turchia, non punta affatto a sovvertire, come invece è nella strategia dell’ISIS, tutto l’assetto geopolitico della mezzaluna fertile come sancito dall'accordo Sykes-Picot e nella prospettiva di costruire una umma musulmana unitaria.
Ma il pasticcio geopolitico in cui si è cacciato Erdogan con la sua politica aggressiva ed espansionistica in Siria non finisce con l’ISIS. Egli oramai deve scontare l’opposizione frontale di Russia e Iran. Il che è un guaio ben più importante. L’entrata diretta nel conflitto siriano degli alleati russi e iraniani a sostegno delle truppe di Assad e di Hezbollah libanese, pone di fatto fine alla libertà di manovra di Ankara. L’azione di russi e iraniani è infatti rivolta con ogni evidenza a schiacciare le milizie islamiste foraggiate dalla Turchia, forti anzitutto sull’asse che va da Damasco ad Aleppo, passando per Homs, Hama ed Idlib.
Le elezioni anticipate di domenica scorsa si sono concluse con un risultato che quasi nessuno si aspettava: una quarta, schiacciante vittoria consecutiva per gli islamisti conservatori del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), che è al potere dal 2002.
[nella foto, dell'agosto scorso, i dirigenti di HAMAS ad Ankara]
AKP ha strappato il 49,4% dei voti, un aumento notevole rispetto al 40,9% ottenuto nelle elezioni precedenti, tenutasi il 7 giugno. L'AKP ha ora la maggioranza assoluta in parlamento, avendo 316 dei 550 seggi. Possiede quindi una forza sufficiente per formare un governo da solo, evitando scenari di coalizione per i prossimi quattro anni. Tuttavia la vittoria, pur schiacciante, vista dall’angolo visuale di Erdogan e delle sue mire presidenzialistiche, è zoppa, visto che non ha i numeri per modificare la costituzione, cosa per la quale occorrono almeno 330 seggi.
Il timore che il Paese precipiti nel caos — dopo giugno si sono moltiplicati gli scontri sanguinosi con i guerriglieri curdi del PKK e con le cellule turche dell’ISIS — e che il boom economico sia alla fine sembrano essere le due ragioni principali che spiegano la vittoria elettorale dell’AKP.
Hanno invece subito una sconfitta due dei tre principali partiti dell’opposizione: l’estrema destra dei Lupi Grigi, ovvero il Partito di azione nazionalista (MHP) e la sinistra moderata del Partito Democratico Popolare (HDP). Il MHP è il partito che è uscito con le ossa rotte dalla elezioni: a giugno aveva ottenuto il 16,4% dei voti e 80 seggi, domenica solo l'11,9% e 40 seggi. Secondo gli analisti turchi quasi tutti i voti persi dal MHP sono andati al AKP. Moltissimi elettori del MHP, ferventi nazionalisti hanno preferito dare fiducia ad Erdogan, punendo la decisione della direzione del MHP di rifiutare ogni coalizione con AKP.
L'altro partito di opposizione che ha subito una battuta d'arresto è stato il Partito Democratico Popolare. Nel mese di giugno l'HDP aveva ottenuto una grande vittoria, passando tranquillamente la soglia del 10%, conquistando il 13,1% dei voti (80 seggi), raddoppiando i suoi voti. Domenica, tuttavia, l'HDP ha passato per poco lo sbarramento del 10%, ottenendo così 61 seggi. Anche in questo caso i voti persi dal HDP sono andati al partito di Erdogan. La recrudescenza del conflitto tra regime e la guerriglia del PKK ha spinto molti curdi a seguire le indicazioni dei leader religiosi locali.
L'unico partito che ha conservato la sua platea di voti e consensi è stato quello kemalista (affiliato alla socialdemocrazia europea), il Partito Repubblicano del Popolo (CHP). Questo ha ottenuto il 25,4% dei voti (134 seggi). Il CHP dispone di uno storico zoccolo elettorale di massa, anzitutto in Tracia e sulla costa dell’Egeo, costituito principalmente dalle classi medie laiche urbane e dalla minoranza alawita moderata.
Quale sia il significato politico della vittoria di Erdogan lo indica Aldo Kaslowski, presidente onorario della Tusiad, la Confindustria turca:
«I mercati amano la stabilità, gli esecutivi autorevoli, ora speriamo che un Erdogan più forte torni anche a essere un presidente più ragionevole, come nei primi anni di governo, superando la polarizzazione politica e sociale del Paese. Abbiamo bisogno di tornare a crescere: quest'anno non andremo oltre il 2,5%, molto al di sotto dell'8 di tre anni fa».I capitalisti turchi hanno fatto infatti affari d’oro coi governi dell’AKP. In poco più di un decennio la Turchia ha conosciuto un vero e proprio boom economico, balzando al 17° posto nel mondo e al sesto in Europa, con un Pil, triplicato, a 800 miliardi. Un balzo che ha avuto diverse ragioni, tra cui cinque principali: bassi salari e zero diritti per i lavoratori, fortissimi investimenti esteri, svalutazione della moneta nazionale, una forte spesa pubblica e bassi tassi d’interesse e crediti facili.
Ma l’epoca delle vacche grasse è oramai giunta al termine. Sull’economia turca, come su quella di diversi Brics, pende una Spada di Damocle: se la Fed americana, com’è probabile, alzerà i tassi d’interesse, la fuga dei capitali sarebbe inevitabile. Del resto la contestuale svalutazione dell’euro (più del 50% delle esportazioni turche va verso l’Unione europea) non potrà che accentuare i rischi di una recessione, a meno che Erdogan non pensi di spingersi ancora più oltre sulla linea della svalutazione della Lira turca.
Sul piano geopolitico la grande vittoria elettorale rappresenta per Erdogan ed il suo regime una vitale boccata d’ossigeno. Pur di perseguire una politica regionale espansionista — neo-ottomana è stato un po’ troppo semplicisticamente affermato —, Erdogan è entrato con tutti e due i piedi nella fratricida guerra civile siriana, scommettendo sulla caduta imminente del regime di Bashar al-Assad.
Un errore di calcolo madornale.
Ankara ha sostenuto a piene mani, in combutta con gli imperialisti occidentali (e sostiene ancora ciò che ne resta) le milizie raggruppate nell’Esercito Siriano Libero (ESL). Davanti ai rovesci dell’ESL ed alla fuga dei suoi miliziani verso le formazioni islamiste più radicali, tra cui al-Nusra, Ankara non è tornata sui suoi passi e, pur di conservare la sua influenza nel conflitto siriano, da almeno due anni sostiene, in compagnia di Arabia Saudita e Qatar, la potente coalizione Jaish al-Fatah (Esercito della Conquista), di cui al-Nusra è la spina dorsale. E non è per caso se tra i primi ad inviare congratulazioni a Erdogan per la sua vittoria elettorale di domenica, oltre a Khaled Meshal e Haniyeh di HAMAS, sia stato proprio il comando generale di Jaish al-Fatah, come pure dell’altro potente gruppo Ahrar al-Sham.
Ankara ha sostenuto a piene mani, in combutta con gli imperialisti occidentali (e sostiene ancora ciò che ne resta) le milizie raggruppate nell’Esercito Siriano Libero (ESL). Davanti ai rovesci dell’ESL ed alla fuga dei suoi miliziani verso le formazioni islamiste più radicali, tra cui al-Nusra, Ankara non è tornata sui suoi passi e, pur di conservare la sua influenza nel conflitto siriano, da almeno due anni sostiene, in compagnia di Arabia Saudita e Qatar, la potente coalizione Jaish al-Fatah (Esercito della Conquista), di cui al-Nusra è la spina dorsale. E non è per caso se tra i primi ad inviare congratulazioni a Erdogan per la sua vittoria elettorale di domenica, oltre a Khaled Meshal e Haniyeh di HAMAS, sia stato proprio il comando generale di Jaish al-Fatah, come pure dell’altro potente gruppo Ahrar al-Sham.
Di certo Erdogan non ha ricevuto le felicitazioni dell’ISIS, il quale, contrariamente a quanto afferma certa vulgata complottista, è in aperta rotta di collisione con la Turchia ed i suoi alleati locali. Tanto più dopo che Erdogan ha concesso agli americani l’uso della base militare di Incirlick per colpire le postazioni del califfato, e dopo le azioni repressive che le forze speciali turche hanno recentemente condotto per annientare le basi dell’ISIS a Dyarbakyr e in altre zone della Turchia, che hanno fatto diversi morti tra i militanti dell’ISIS.
Non c’è, a ben vedere, nessuna possibilità che il califfo ed il sultano in pectore (Erdogan) possano trovare un’intesa. Erdogan aspira a fare della Siria un suo protettorato rafforzando la potenza regionale della Turchia, non punta affatto a sovvertire, come invece è nella strategia dell’ISIS, tutto l’assetto geopolitico della mezzaluna fertile come sancito dall'accordo Sykes-Picot e nella prospettiva di costruire una umma musulmana unitaria.
Ma il pasticcio geopolitico in cui si è cacciato Erdogan con la sua politica aggressiva ed espansionistica in Siria non finisce con l’ISIS. Egli oramai deve scontare l’opposizione frontale di Russia e Iran. Il che è un guaio ben più importante. L’entrata diretta nel conflitto siriano degli alleati russi e iraniani a sostegno delle truppe di Assad e di Hezbollah libanese, pone di fatto fine alla libertà di manovra di Ankara. L’azione di russi e iraniani è infatti rivolta con ogni evidenza a schiacciare le milizie islamiste foraggiate dalla Turchia, forti anzitutto sull’asse che va da Damasco ad Aleppo, passando per Homs, Hama ed Idlib.
Se l’avanzata russo-iraniana in sostegno ad Assad avrà successo, la politica espansionistica di Erdogan subirebbe una disastrosa sconfitta. Che potrebbe essere evitata solo ad una condizione: la definitiva internazionalizzazione del conflitto siriano ovvero, ottenuto l’avallo americano, con l’ingresso dell’esercito turco in Siria.
Ma a quel punto sarebbe tutta un’altra storia.
Ma a quel punto sarebbe tutta un’altra storia.
2 commenti:
Non si parla del punto chiave che sono i rapporti con la Russia.
Se Erdogan decide di entrare in Siria significa che è pronto a rompere definitivamente con Putin e quindi si legherebbe mani e piedi alla alleanza atlantica.
Gli conviene restare nel mezzo a praticare la politica dei due forni.
Difficile pensare che la situazione internazionale non possa essere tenuta sotto controllo quando si è tutti perfettamente consci delle conseguenze a brevissimo termine di una qualsiasi mossa troppo azzardata.
Il problema incontrollabile invece è quello dei mercati finanziari che sono sopravvalutati a livelli stratosferici.
In sostanza c'è una iperinflazione non dei prezzi dei beni ma dell'azionario.
Esattamente come per i subprime i valori alle stelle non hanno alcun sottostante se non l'illusione data dai continui QE i quali spingono solamente a investire in borsa alimentando sempre di più la bolla.
A un certo punto, un annetto da adesso immagino, ci si renderà conto che i QE non hanno alcun effetto sull'economia reale, in quel momento la gente capirà che il sottostante non esiste e ci sarà un crash dei mercati che promette di essere epocale.
Stanno fra Scilla e Cariddi: se salgono i tassi la bolla scoppia fra pochissimo travolgendo la piccola ripresina attuale ma se non li alzano gonfiano ancora di più la bolla che prima o poi esploderà comunque.
Siamo sostanzialmente d'accordo con quanto afferma l'anonimo sopra.
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