L'Inghilterra fa sul serio od è soltanto un gioco delle parti?
Dunque Cameron ha fatto la sua mossa. Volete che la Gran Bretagna resti nell'Unione Europea? Bene, preparatevi a diverse concessioni di sostanza. Questo è il senso della letterina partita ieri da Londra alla volta di Bruxelles. Alcune delle richieste contenute nella missiva paiono ben difficilmente accoglibili. E se per caso venissero accolte, altre crepe si aprirebbero comunque nella traballante UE.
Ma vediamo ragioni e contenuto dell'iniziativa di Downing Street. Le ragioni sono assai semplici. Da sempre i governi inglesi si barcamenano tra un'adesione alla UE imposta più che altro da motivazioni geopolitiche, ed un elettorato che definire "euroscettico" è forse poco. Finora questo instabile equilibrio ha retto, ma adesso le cose non sono così semplici. Alle ultime elezioni europee il primo partito britannico è risultato, con il 26,8% dei voti, l'Ukip (Partito per l'Indipendenza del Regno Unito). E di fronte al sempre più diffuso antieuropeismo dei cittadini d'oltre-Manica, il governo conservatore ha dovuto accettare lo svolgimento di un referendum sulla permanenza del Paese nell'UE. Secondo gli impegni di Cameron la consultazione dovrà tenersi entro il 2017, ma adesso si dice che forse verrà convocata entro l'autunno del 2016. Vedremo, ma in ogni caso è evidente l'affanno del governo di Londra, che potrà chiaramente schierarsi per il Sì solo a fronte di precise concessioni da parte di Bruxelles.
Da qui la letterina di ieri, il cui contenuto è riassumibile in cinque richieste, ma quelle che contano davvero sono quattro.
La prima di queste è quella di poter uscire unilateralmente dalla clausola dei Trattati che prevede la partecipazione ad una "Unione Europea sempre più stretta". In sostanza, Londra - che evidentemente non vuole "stringersi" più di tanto - prende le distanze da quello che nell'Unione è il dogma della sempre più crescente integrazione. Difficile che una simile richiesta possa essere accettata, ma se lo fosse altri paesi si chiederebbero perché rimanere in una entità politica così sfilacciata.
La seconda è una richiesta di tutela per il mercato interno a favore dei Paesi che non hanno adottato l'euro. In pratica Cameron vuole un formale riconoscimento del fatto che il mercato unico è multivalutario. Ed ecco venir giù un altro dogma. Perché è vero che si può essere membri dell'UE anche restando con la propria moneta, ma la religione europeista concepisce questa situazione come transitoria, in vista di un progressivo allargamento dell'eurozona. Si accetta dunque una situazione confusa, ma solo in virtù di una precisa direzione di marcia. Il governo inglese mette invece in discussione questa visione, anzi la rovescia del tutto.
La terza richiesta consiste nella rivendicazione di "un maggior ruolo dei parlamenti nazionali". Si tratta in pratica della richiesta di una maggiore sovranità degli Stati. Di fronte a ciò a Bruxelles fanno ovviamente i democratici, ma la realtà è che la linea strategica degli unionisti più convinti è (e non potrebbe essere diversamente) quella dell'ulteriore sottrazione di sovranità agli Stati e dunque ai rispettivi parlamenti nazionali. Una linea evidentemente inconciliabile con la posizione inglese.
La quarta richiesta è molto concreta. Cameron, venendo meno ad una precisa regola europea, chiede di poter tagliare il welfare agli immigrati intra-comunitari per i primi quattro anni di permanenza sul suolo britannico. Ne farebbero le spese gli emigranti che dal continente hanno cercato un lavoro al di là della Manica: tantissimi i romeni, i bulgari, i polacchi, ma anche gli italiani.
La quinta più che una richiesta è un appello alla comune fede liberista che - questa sì - unisce l'Europa continentale al regno che con la Tatcher dette non a caso il via alla svolta del neoliberismo sfrenato, che da trentacinque anni travolge a più non posso ogni diritto sociale. La richiesta è infatti quella di "aumentare la competitività", "tagliare la burocrazia", "aumentare la deregulation". Non è certo su questi comuni feticci che Londra e Bruxelles litigheranno.
Adesso si dice che la lettera di Cameron rappresenta solo l'inizio del negoziato, che i toni attuali non devono ingannare, che - dando tempo al tempo - alla fine un accordo verrà trovato. La tesi di tanti commentatori è che si sia di fronte più che altro ad un gioco delle parti. Ma è davvero così? Dubitarne è più che lecito.
Intanto Cameron ha dato le carte, chiarendo che stare nell'UE non è un bene in sé - come in tanti pensano a sinistra - ma solo un'eventualità da valutarsi attentamente in base ad un calcolo di costi/benefici. Ovviamente il leader conservatore esegue in primo luogo i suoi calcoli in base agli interessi che rappresenta, ma questo non sposta di una virgola il cambio di prospettiva che egli introduce nel discorso sull'Europa.
La posta in palio è ben colta dai commentatori più avveduti. Scrive, ad esempio Leonardo Maisano nell'odierno editoriale del Sole 24 Ore:
«Nulla da eccepire, certo, laddove Cameron invoca maggiore capacità competitiva per le imprese di un’Unione un poco sclerotica, ma per il resto è un elenco di trappole sul cammino di quell’ “Unione europea sempre più stretta” che non, a caso, è il bersaglio ideale della Gran Bretagna. L’autoesclusione da un’aspirazione comune, elemento fondante dell’edificio a Ventotto, è, infatti, oggetto esplicito di una delle richieste di opt-out di Londra. Uno sfregio al sogno europeo per come abbiamo imparato a conoscerlo e condividerlo. Se dal preambolo di ordine ideologico si scende alla sostanza delle altre richieste si scorgono muri più che ostacoli. Chiedere che «gruppi di parlamenti nazionali» abbiano nuovi strumenti per allearsi con l’obiettivo di frenare la legislazione comune - seppure nel contesto delle tutele ai Paesi non euro - rischia di risolversi in una forma indiretta di veto capace di sovvertire gli assetti istituzionali. Discriminare sull’accesso al welfare per i cittadini dell’Unione europea - seppure limitatamente a un periodo di quattro anni - è figlio apparente di un’esigenza di bilancio, ma è mossa gravida di ben altre conseguenze. Una mossa capace di innescare un movimento centrifugo dalle regole del mercato interno e da quelle, non scritte, della solidarietà in Europa». (sottolineature nostre)
Concludendo, il Brexit non pare proprio uno scherzo. E se anche l'intento di Cameron fosse solo quello di strappare qualche modesto risultato d'immagine, la parola finale sull'uscita dall'UE spetterà comunque agli elettori.
Con la Grecia congelata grazie alla nuova austeri-tsipras, il Portogallo in bilico tra golpe e tentativo di svolta, la Spagna in attesa del voto del 20 dicembre, la Polonia alla prova del nuovo governo uscito dalle elezioni del 25 ottobre, con la comprovata incapacità di affrontare unitariamente la questione delle migrazioni, la formale apertura del fronte inglese non è certo un fatto da poco.
Naturalmente, gli euro-ottimisti si mostrano sicuri di avere la meglio anche questa volta. Fossimo in loro metteremmo da parte tanta sicumera. Tra di essi qualcuno pensa addirittura che in fondo un'Unione senza Londra potrebbe procedere a passi assai più svelti verso l'unione politica. A noi pare, invece, che il Brexit sarebbe un colpo mortale al disegno unionista. Certo, questo progetto è una mostruosità che non morirà tanto facilmente, ma anche una follia che non riesce proprio a rimettersi in carreggiata.
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