martedì 1 luglio 2014

KEYNES O MARX? di Moreno Pasquinelli


1 luglio.
L’attuale crisi sistemica del capitalismo occidentale sta mandando in pezzi la scuola monetarista di Milton Friedmann e con essa l’ortodossia liberista e i suoi due massimi assiomi.  Il primo è di natura squisitamente filosofica e consiste in questo: ogni uomo, perseguendo egoisticamente la propria felicità contribuirebbe a realizzare quella di tutti. Il secondo, di carattere economico, considera il mercato  il sistema che meglio di ogni altro contribuisce alla ricchezza generale e alla sua equa distribuzione.

Ci si poteva attendere che una crisi di tale portata avrebbe rinvigorito spinte anticapitalistiche di massa e riportato velocemente in auge l’ideale del socialismo. Non è stato così. Troppo fresche le devastanti ferite subite dal movimento rivoluzionario a causa del crollo, catastrofico quanto inglorioso, del “socialismo reale”, troppo profondo il processo di imborghesimento sociale e coscienziale del proletariato occidentale maturato negli ultimi decenni. Questo contesto spiega perché il pensiero di Carlo Marx, il principale studioso del capitalismo e delle sue contraddizioni, nonché il principale assertore della necessità e fattibilità del suo superamento, lungi dal risorgere, resti confinato nell’oblio, con lo sconsolante effetto collaterale per cui gli stessi intellettuali di sinistra, tranne rare eccezioni, quasi si vergognino di dichiararsi marxisti.

Assistiamo, di converso, ad una prepotente rinascita del pensiero economico di J. M. Keynes a tal punto che è possibile affermare che la maggior parte degli economisti (di quelli seri, non per forza di quelli che usufruiscono di una cattedra in qualche blasonata università) si considera keynesiana.

Essendo tra quelli che più decisamente insistono sulla centralità assoluta del discorso sulla crisi —di qui la nostra insistenza per lo sganciamento dall’Unione europea e l’abbandono della moneta unica come precondizioni necessarie per venirne fuori—, di questo revival keynesiano, ne sappiamo qualcosa. Dieci economisti keynesiani su dieci condannano senza appello le politiche delle euro-oligarchie e della Bce. Tra questi solo una minoranza, partigiana dell’Unione, ritiene che l’euro sia compatibile con le terapie keynesiane e implora la Bce affinché inverta la rotta. La maggioranza di loro sostiene invece che l’euro è comunque condannato  e propugna il ritorno alle sovranità monetarie statuali. Avrete capito perché di keynesiani ne sappiamo qualcosa: con i migliori di loro —quelli che non solo invocano astrattamente la fine delle politiche di macelleria sociale ma che sostengono come necessaria la riconquista della sovranità nazionale, politica e monetaria— abbiamo in comune il nemico, e logica vuole che le forze si uniscano.

La teoria di Keynes

La pretesa di molti scienziati è quella di considerarsi tali nella misura in cui essi pensano di spiegare i fatti così come sono, standosene alla larga dai giudizi di valore. Vogliono dirci che essi sono immuni da condizionamenti ideologici e culturali, che le loro asseverazioni sono estranee alla dispute sociali e politiche, al di sopra di ogni visione del mondo. Ovviamente non è vero, e Keynes non era tanto stolto dal pensarlo. Egli, malgrado avesse colto alcune delle contraddizioni profonde insite nel sistema capitalistico, non ha mai nascosto la sua predilezione per questo sistema, ne ha mai fatto mistero della sua avversione verso "l'utopia comunista". Keynes si considerava anzi il medico la cui missione era appunto curare il capitalismo dalle sue malattie congenite, capitalismo che se lasciato a se stesso sarebbe anzi andato incontro alla morte. La differenza con Marx, che sosteneva come le "malattie" del capitalismo non fossero curabili, e quindi proponeva di fare leva su di esse per abbatterlo e superarlo, non può essere più evidente.

Questa differenza non attiene solo alla sfera politica: le "malattie" o contraddizioni congenite del capitalismo intraviste da Keynes non erano quelle individuate da Marx.

L’analisi di Keynes faceva perno su una premessa: che la devastante crisi del 1929 aveva definitivamente destituito di ogni fondamento una legge caposaldo degli economisti neoclassici, quella secondo cui (assunta la neutralità della moneta considerata solo un numerario e mezzo di scambio) il mercato è sempre in grado di stabilire un equilibrio tra offerta e domanda sia di beni che di capitali. Secondo l’ortodossia liberista poi, eventuali perturbazioni momentanee, potevano dipendere solo da due fattori, o dalla mancanza di rigore monetario o dall’aumento eccessivo dei salari. In sostanza: per Keynes il mercato, lasciato a sé stesso, non assicurava né la piena occupazione né un’equa distribuzione della ricchezza.

Keynes non lo disse mai, lo diciamo noi, ma per superare le aporie dei neoclassici si appoggiò agli studi di Marx sul denaro, per il quale il denaro non fungeva solo da parametro per misurare valori/prezzi e come mezzo di circolazione: il denaro era anche (3) uno strumento di tesaurizzazione. Nei cicli di crisi economica e di attese di profitto decrescenti (crisi di sovrapproduzione, ma su questo torneremo più avanti), il denaro tende ad abbandonare la sfera della circolazione, ma non per avvizzire sotto il materasso, piuttosto per lievitare nella sfera della speculazione finanziaria.

In termini keynesiani: in un’economia capitalista di mercato non solo non c’è alcuna certezza di equilibrio tra offerta e domanda di beni; non esiste alcuna garanzia che il risparmio e i profitti accumulati ritornino nel mercato sotto forma d’investimenti; il che coodetermina la crisi, la stagnazione, la disoccupazione e il crollo dei consumi. Ma la crisi giunge sempre dopo un periodo di boom, ovvero di crescita enorme dei redditi, la qual cosa accresce la quota di essi destinata al risparmio e alla tesaurizzazione, invece che agli investimenti.

Visto che per Keynes le crisi capitalistiche sono sempre e solo crisi di sproporzione, come egli proponeva di superare lo squilibrio tra eccesso di offerta e insufficienza della domanda? E di chiudere la forbice tra la massa accumulata di denaro che se ne sta ferma tesaurizzata e quella decrescente che si muove nel mercato dei capitali produttivi? Facendo leva su due fattori principali: sull’aumento della domanda dei beni di consumo e colpendo la tesaurizzazione (che Keynes chiama “preferenza per la liquidità”).  Ma quali sono queste leve? Dal momento che il mercato non è capace da solo di trovare un equilibrio, occorre l’intervento di una forza esterna ad essi, l’autorità statuale titolare di facoltà d’indirizzo ma pure prescrittive. E dato che Keynes assume che il mercato sia diviso in quattro settori (mercato del lavoro, delle merci, dei capitali e della moneta) lo Stato, assodata la sua insindacabile sovranità politica, giuridica e monetaria, deve intervenire con azione sincronica e anticiclica in tutti e quattro.

In prima istanza lo Stato, per incoraggiare gli investimenti privati e creare nuova occupazione, dovrebbe seguire una politica monetaria flessibile,  abbassando i tassi dell’interesse, disincentivando così la tesaurizzazione —o l’eccessivo accumulo di risparmi. In seconda battuta, ove questa decisione non fosse sufficiente, lo Stato dovrebbe adottare adeguate politiche fiscali con una imposizione progressiva, così che esso possa attuare una redistribuzione della ricchezza verso i redditi medio-bassi —che per Keynes hanno una più decisa propensione al consumo. Questa politica fiscale dovrebbe anzitutto penalizzare le rendite e la classe rentier dedita alla speculazione finanziaria parassitaria, premiando invece il capitale produttivo incoraggiandolo all’investimento. Infine Keynes proponeva che lo Stato varasse un ampio piano di lavori pubblici, da finanziare con una una politica di deficit spending, ovvero con l’emissione di prestiti (offrendo titoli di Stato ai propri cittadini) che avrebbero dovuto drenare i risparmi in eccesso (denaro tesaurizzato) e convertirli in investimenti creatori di occupazione e quindi di domanda, assorbendo dunque l’offerta in eccesso.

Questa, esposta in modo certamente schematico ma ci auguriamo obiettivo, la teoria economica di Keynes. Prima di Passare al pensiero di Marx due sole considerazioni. 

La prima. Ognuno considererà la teoria di Keynes una “teoria di sinistra”. Ed essa infatti lo è, se consideriamo che la sinistra attuale tutta, non escluse le correnti cosiddette “antagoniste”, quando espongono le loro ricette anti-crisi, non fanno che riproporre, il più delle volte timidamente, le proposte dell’economista inglese. Lo è se infine attribuiamo al sostantivo “sinistra” solo un generico significato descrittivo (senza nessuna qualificazione di classe si sarebbe detto un tempo) ed allora tutto è “sinistra”, basta che ci si collochi al di qua del limes del liberismo economico —per cui, se solo si fosse conseguenti, non solo settori illuminati di borghesia sono “di sinistra”, ma pure fascisti tutti di un pezzo o cattolici reazionari incalliti. 
La seconda. Occorrerà pur sfatare la leggenda che il capitalismo uscì dalla catastrofica crisi del ’29 grazie all’adozione delle terapie keynesiane. Esse in effetti vennero adottate, non solo negli USA col New Deal roosveltiano e in Gran Bretagna, ma pure nella Germania nazista e nell’Italia fascista (parli del diavolo e spuntano le corna). Ebbene la piena occupazione e la ripresa economica non ci furono né negli USA né in Gran Bretagna. Ci riuscì solo la Germania, altrimenti detto grazie al colossale piano di spesa pubblica finalizzata al riarmo e agli ingegnosi stratagemmi di politica monetaria di Schacht. Solo dopo la seconda grande guerra mondiale il capitalismo occidentale imboccò la via di un ciclo lungo di accumulazione e sviluppo, quindi, solo dopo immani distruzioni di forze produttive, le ricette keynesiane poterono dare dei risultati.

La teoria di Marx

Marx non nacque economista, ma filosofo della storia. Giunse a sistematici e impressionanti studi economici sul capitalismo moderno dopo la sua più importante e controversa scoperta teorica: il materialismo storico.

Il capitalismo è solo l’ultimo venuto nella processione dei diversi sistemi sociali e, come quelli che l’hanno preceduto, anch’esso è destinato a perire, lasciando il posto, dopo un periodo di convulsioni sociali, ad un sistema nuovo i cui elementi esso contiene in grembo. Occorre quindi: (1) riconoscere di ogni sistema sociale, le fasi di genesi, di sviluppo e di decadenza; (2) individuare le contraddizioni che ogni sistema sociale, nativamente, contiene, e con ciò le ragioni, se il caso le leggi, per cui un dato sistema sociale perisce; (3) identificare quindi le forze sociali rivoluzionarie che spezzano i vecchi rapporti sociali, che sono portatrici di un più avanzato sistema sociale e che sono destinate a prendere il sopravvento.

Il fatto che Marx abbia appoggiato la sua analisi del capitalismo su questa base fa dire agli economisti della cattedra che essa è priva di fondamento scientifico. Noi siamo di diverso avviso: riteniamo che l’economia politica possa assurgere al rango di scienza solo in quanto disciplina storico-economica. Marx criticò infatti gli economisti del suo tempo come "ideologi borghesi", in quanto anche loro partivano da una visione (falsa) della storia e del mondo, secondo cui il capitalismo sarebbe eterno e immutabile —la qual cosa li spingeva a compiere un’analisi normativa e superficiale che impediva di cogliere le più intime leggi di movimento del capitalismo. Questa critica marxiana, come ognuno comprende, la si può rivolgere anche a Keynes. Quest’ultimo infatti privava il sistema borghese del suo carattere storico transeunte. Di qui l’idea che le "disfunzioni" di cui esso è vittima fossero appianabili grazie all’intervento correttivo e terapeutico della pubblica autorità, dello Stato cioè, che egli considerava come ente neutrale e salvifico.

Marx la pensava diversamente, e non perché escludesse che in linea di principio lo Stato borghese, proprio in virtù del suo essere strumento della classe dominante nel suo insieme, non potesse svolgere un ruolo suo proprio, a tutela dell’ordinamento sistemico anche elevandosi sopra la lotta accanita tra le diverse frazioni del capitale. Egli riteneva che il modo capitalistico di produzione, di cui la borghesia è agente, soggiace ad almeno quattro leggi principali
(1) più le sue forze produttive si sviluppano e la concorrenza si fa implacabile, più i profitti sono destinati a scendere; 
(2) il modo di produzione capitalistico segue una traiettoria ciclica: ad ogni periodo di crescita segue uno di recessione, e quest’ultima è tanto più generale quanto più il boom è stato consistente; (3) il sistema può uscire dalla crisi generale solo in una maniera: distruggendo su ampia scala capitali e forze produttive in eccesso, con conseguenze  sociali devastanti; 
(4) le crisi generali croniche precipitano il sistema sociale in periodi di esplosive convulsioni politiche, che possono sfociare in rivoluzioni, controrivoluzioni, guerre civili e guerre tra stati.

Queste quattro leggi fanno capo alla essenziale tendenza del capitalismo, quella di sfociare nelle crisi di  sovrapproduzione [sulle crisi di sovrapproduzione vedi: Marx il capitalismo e le sue crisi, e Alle origini del declino dell’Occidente], queste possono essere parziali oppure generali, coinvolgendo tutti i comparti e cronicizzarsi. E’ proprio quando l’economia incontra queste crisi generali che immani quantità di capitali e forze produttive devono essere  necessariamente distrutte, con conseguenze sociali catastrofiche, con la società sospinta indietro di decenni. Tuttavia è proprio grazie a queste crisi, che attengono alla fisiologia stessa del capitalismo, che esso può far ripartire un nuovo ciclo di accumulazione e crescita, destinato a sua volta a sfociare in una nuova crisi. Lo  Stato della borghesia può solo mitigare gli effetti catastrofici delle crisi di sovrapproduzione, differirli nel tempo, il suo intervento non può mai essere risolutivo. In ultima istanza lo Stato non può che adeguarsi alle fisiologiche necessità della classe economicamente dominante e quindi, dentro la crisi generale, passare allo Stato d’eccezione per scaricare i costi della crisi sul lavoro salariato soffocando la sua spinta emancipatrice, e allo Stato di guerra per strappare spazi vitali a capitalismi concorrenti.

La storia ha confermato le analisi di Marx. I suoi detrattori invece lo negano, ricorrendo all’argomento che la sua previsione di un crollo certo del capitalismo è stata invalidata. In verità da nessuna parte Marx ha sostenuto, apertis verbis, che il capitalismo fosse destinato al crollo, se intendiamo per crollo un evento, o l’esito necessitato di un meccanismo automatico che avrebbe condotto alla sua dipartita. Questo “crollo”, come per altri sistemi storici, avrebbe invece potuto occupare un lungo periodo storico di convulsioni. E ove la classe antagonista a quella capitalistica si rivelasse incapace di prendere in mano le redini della società, questa potrebbe sprofondare in una barbarie con l’annientamento delle due principali classi in lotta.

Non vi aspettate che Marx abbia consigliato alla borghesia eventuali terapie per venire a capo delle sue crisi generali. Egli era un rivoluzionario non solo perché avrebbe con disprezzo rifiutato questa consulenza, lo era perché, essendo andato alla radice del problema —che le crisi cicliche generali sono il risultato necessario del modo capitalistico di produzione—, propose con forza (necessità contro necessità) il dovere di oltrepassare il capitalismo e di edificare sulle sue ceneri un sistema socialista. Cosa infatti ci avrebbe detto Marx davanti a questa nuova crisi generale? Ci avrebbe detto, pur tenendo conto delle tappe necessarie, di non indugiare a cercare soluzione parziali o palliativi; ci avrebbe detto di organizzarci ed agire per farla finita una volta per sempre col capitalismo poiché, ammesso che esso possa uscire da questa crisi, ciò avverrebbe con costi sociali inusitati, anzitutto a spese del lavoro salariato e del popolo lavoratore, con la certezza che in un periodo più o meno breve ci sarebbe trovati da capo a dodici, alle prese con un’altra crisi devastante. Ci avrebbe detto di batterci per la sola alternativa pensabile: il socialismo.

Non dobbiamo farci ingannare dalle disquisizioni sofistiche: l’idea del socialismo è di una evidente semplicità, consiste nel fatto che la comunità dovrebbe sottoporre al proprio controllo politico e razionale, al pari delle altre sfere della vita associata, quella basilare, quella economica, finalizzandola al bene comune. Perché tanta insistenza sull’aspetto economico? Per la ragione che è la sfera economica che crea i mezzi per soddisfare la gran parte bisogni primari e vitali dell’uomo, senza realizzare i quali quelli spirituali e culturali sarebbero menomati.

Per realizzare questo controllo sociale, questo è il punto, occorre sottrarre i grandi mezzi di produzione e di scambio dal dominio proprietario della classe capitalistica, che in quanto classe pensa anzitutto a fare i suoi propri egoistici interessi, facendo diventare quei mezzi di produzione, al parti di tutti gli altri, beni comuni, proprietà sociale. 

Abbiamo dunque in mente di statizzare l’economia e di applicare una rigida pianificazione? Per niente. La statizzazione è solo una forma, la più verticale, di socializzazione. Tra la statizzazione verticistica, che farebbe della burocrazia statale un demiurgo autoritario, e la completa e orizzontale autogestione, possono esistere innumerevoli soluzioni mediane. E della stessa pianificazione economica, considerata con orrore dai liberisti, ne esistono svariate modalità. Lo stesso capitalismo, in barba alla “mano invisibile del mercato” conosce plurime forme di pianificazione —cos’altro è la politica economica keynesiana se non una pianificazione generale?

Non solo lo Stato programma e pianifica le sue attività, e le politiche seguite dai governi ne sono una cristallina espressione. Si prenda l'esempio dell'Italia: lo Stato muove la metà circa del Pil, ne viene fuori che esso non solo pianifica fin nei minimi dettagli come reperire le entrate e aumentarle (ovvero come spennare scientificamente il popolo lavoratore graziando i possidenti di grandi capitali, anzitutto finanziari). Fanno altrettanto anche i grandi gruppi monopolistici, che crollerebbero facilmente se non pianificassero fin nei dettagli tutto il ciclo produttivo, dal reperimento delle materie prime alla commercializzazione del prodotto finito. Solo un’economia razionalmente pianificata può debellare la principale calamità che affligge il capitalismo: la sovrapproduzione, ovvero l’incalcolabile sperpero di risorse e di energie consistente nell’accumulare mezzi di produzione e beni (sotto forma di merci) che non solo si riveleranno inutili alla società e dovranno essere distrutti, ma che arrecano danni spesso irreversibili al nostro pianeta.

Che un giorno più o meno lontano possa realizzarsi un “socialismo perfetto”, questo lo decideranno le future generazioni. Questa generazione ha un compito forse più modesto ma decisivo: fare da battistrada, aprire la via al socialismo, sapendo che la rivoluzione sociale è sì una palingenesi ma non una catarsi, che la rivoluzione è pur sempre un processo, fatto di fasi e momenti. Sapendo che occorrerà passare per tappe successive, ognuna concatenata all’altra, ma il cui primo atto è necessariamente strappare, per mezzo della sollevazione del popolo lavoratore, il potere politico statale dalle mani della classe oggi dominante, ovvero dei suoi settori più oltranzisti e liberisti. Solo disponendo di questa leva sarà infatti possibile attuare le grandi e le piccole trasformazioni per una società liberata dalla catene del capitale e per una vita degna di questo nome, non solo per pochi privilegiati, ma per tutti.

11 commenti:

Anonimo ha detto...

Sarà. Ma a furia di intonare peana di gloria per Marx, il Capitalismo (quello vero;: quello d'oggi, non di centocinquant'anni fa) manda avanti gli affari suoi con la compiacenza di finte sinistre.
Ed ora se ne sta andando anche l'Art.18 perché "superato".

giorgio ha detto...

Visione d'insieme chiarissima e illuminante. Questo intervento mi pare riesca a riassumere e condensare un coacervo di opinioni, tendenze, ipotesi ecc..che inducono molti ad allontanarsi da questi argomenti perché hanno la sensazione di non capire, di non riuscire a fare il punto, come si dice. E invece, e questo articolo lo dimostra, è possibile far "arrivare" certi concetti un po' complessi a quasi tutti coloro che abbiano almeno un minimo di dimestichezza con questi argomenti. Grazie. Se proprio volessi punzecchiare, direi che non sarebbe stato male parlare un pochino più in dettaglio delle forme nelle quali il socialismo si può declinare. È stato fatto solo un accenno, che lascia un po' nel vago la faccenda...potrebbre far pensare a qualche trappola nascosta in questa parola...socialismo... Dopotutto il taglio del pezzo è divulgativo, e chi non capisce poi si ferma...

SOLLEVAZIONE ha detto...

Scusi,

ma chi intona "peana di gloria" per Marx?
QUi si tratta di riconoscere che, per quanto attiene alle "contraddizioni" congenite del sistema economico capitalistico Marx aveva visto più in profondità di tanti economisti.
Se poi il capitalismo odierno deve, tra le altre cose, sbarazzarsi di certe conquiste operaie come l'Art.18, ciò non fa che confermare, appunto!, quanto sosteneva Marx stesso, la tesi per cui, nelle fasi di crisi generale, cioè di gravi difficoltà nel ricavare profitto (valorizzazione del capitale), quest'ultimo deve necessariamente agire sulla leva dell'aumento dello sfruttamento dei lavoratori salariati.
Se poi questi ultimi, si lasciano spennare, questa è un'altra storia, e sulle cui cause più volte abbiamo detto e scritto.

Vincenzo Cucinotta ha detto...

Sarebbe velleitario tentare anche sommariamente in un commento di affrontare le tematiche riguardanti il pensiero di keynes e quello di Marx, perciò io neanche ci provo.
Intervengo solo perchè ritengo sia troppo angusto il porre l'alternativa secca tra keynes e Marx, che sia invece possibile anche dire "nè keynes, nè Marx".
Credo anzi che sia questa la via giusta da imboccare, finirla con questa dittatura dell'economia, rimettere la politica sul trono che merita.
Forse, uno dei motivi per cui le opposizioni al capitalismo falliscono sta in questa incapacità di vedere come nel cielo ci siano molte più stelle di quanto crediamo, di come porre una scelta in termini binari (o nero o bianco) possa essere un clamoroso errore.
Capisco la genericità di quest'affermazione, ma se riuscissimo a fare almeno questo piccolissimo passettino, forse potremmo poi trovare più facilmente i termini di un dibattito ben più fecondo.

Anonimo ha detto...

Il discorso di Cucinotta mi sembra improntato a saggezza ed equilibrio rari.
"Forse, uno dei motivi per cui le opposizioni al capitalismo falliscono sta in questa incapacità di vedere come nel cielo ci siano molte più stelle di quanto crediamo, di come porre una scelta in termini binari (o nero o bianco) possa essere un clamoroso errore."
Probabilmente Cucinotta ha ragione perché l'irrigidirsi su ricette immodificabili non è del tutto da "Homo sapiens sapiens".

Pietro ha detto...

Ok. Superiamo pure questo dualismo limitativo. Ma proviamo almeno ad accennare anche minimamente a quale altra "stella" di questo firmamento dovremmo riferirci. Altrimenti piú che trovare la stella, ci infognamo sempre di più nella "nebulosa" che ormai da diversi decenni caratterizza il pensiero della sinistra!

Anonimo ha detto...

Le "stelle" della Sinistra sono 50; e 13 (numero caro alla Massoneria) sono le strisce.

Vincenzo Cucinotta ha detto...

Pietro, un accenno ho tentato di farlo, quando dicevo di spodestare l'economia e ripartire con la politica.
Le mie tesi che ho prospettato nel mio libro derivano da considerazioni che ho sviluppato personalmente e si iscrivono nel pensiero ambientalista, ben lontano comunque da ciò che oggi esso è in politica, ad esempio nei pessimi partiti verdi europei. Così pure, non condivido granchè del pensiero di Latouche e dei suoi epigoni italiani.
Il pensatore che mi ha più ispirato è Polanyi che è tipicamente l'alternativa di opposizione più significativa al marxismo.
Aggiungere qui altro al di là di questo inquadramento generale mi sembrerebbe davvero velleitario. Comunque, curo un blog e potete riferirvi a quello se volete approfondire. Posso fornire gratuitamente copia del mio libro, se interessa.

Alberto ha detto...

Mirabile sintesi, che offre lo spunto a numerose, e necessariamente incomplete, riflessioni.

La prima che mi viene in mente è quella sul ruolo dello Stato, o comunque si voglia chiamare l'istituzione che formalmente governa la società nel suo complesso.

Che sia necessaria una tale istituzione lo diamo per scontato, con buona pace degli anarchici. Il problema è allora la forma e la sostanza che gli vogliamo attribuire, allo scopo di renderla efficace nel rappresentare l'intera comunità, e non solo un suo sottoinsieme, piccolo o grande che sia, comunemente detto "classe sociale". Rappresentanza che può solo esistere in funzione di obiettivi condivisi a larga maggioranza, quali il bene comune in senso lato (ambientalismo compreso, ovviamente).

Altro dato di fatto inconfutabile è il ruolo attivo e passivo dello Stato in economia, che mette addirittura in ridicolo i teorici dello Stato minimo e neutrale, i quali sono contemporaneamente in prima linea nel giustificare l'intervento statale a sostegno della loro parte politica tanto privilegiata quanto di minoranza, fenomeno questo che si va acuendo esponenzialmente (1% contro 99%).

Dovendo concludere un modesto commento veniamo al punto: va riconosciuto, senza se e senza ma, il rulo dello Stato come attore primario dell'economia, sia come legislatore ed arbitro, sia come elemento attivo che, unico, può violare virtuosamente le principali leggi del "capitalismo", cioè il profitto obbligatorio e la sottomissione alla domanda-offerta, o mercato che dir si voglia. Senza queste trasgressioni, negate al settore dell'imprenditoria privata, qualunque Stato sarebbe impotente nel governare la tendenza squilibratrice dell'economia "libera", la stessa che è alla base dei cicli più devastanti di cui si parla. E questo a prescindere dal grado di sovranità.

In conclusione lo Stato moderno non dovrebbe essere economicamente totalitario, ma certamente imprenditore privilegiato e maggioritario.

Si apre allora la questione politica, o di rappresentanza, che solo l'utopia democratica può perseguire vittoriosamente.

un Marxista ha detto...

Come rilevato anche altrove, pure qui trovo da parte di Pasquinelli un marxismo senza lotta di classe.
Moreno si sofferma sulla crisi, sulla teoria marxiana della crisi, molto precisamente, ma non cita minimamente le premesse.
Queste sono: 1) la storia dell'uomo è storia di lotta di classe; 2) i periodi storici sono determinati dalle relazioni fra le classi in merito al lavoro (lo schiavismo, il feudalesimo, il capitalismo); 3) la rivoluzione è la presa del potere da parte delle classi proletarie.

Anonimo ha detto...

Mithos
Citare la"lotta" è sempre suggestivo ma "Behemoth" oggi è tutt'altro che in forma nonché gravato da catene e ceppi di ogni genere. inoltre deve contare su "bovari" inetti e, ahimè, con una forte propensione al tradimento per denaro e utilità varie.
Alle prime mosse "behemoth" sarebbe impacciato e disorientato perché la sua natura gli impone la necessità di bovari audaci, accorti e generosi
Che mancano; purtroppo.

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